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Migliorano le prospettive di crescita delle economie dell’area euro. E anche da Atene arrivano buone notizie. Ma è presto per dire che la Grecia ha davvero voltato pagina. C’è il rischio che il governo abbandoni gli obiettivi di riforma del paese.
Mentre la politica si divide su legge elettorale e data delle elezioni, il governatore della Banca d’Italia richiama l’unico punto fermo: chiunque vinca deve fare una legge di bilancio che preservi l’equilibrio dei conti in un quadro di crescita.
L’indicatore di attività economica indica che nel 2015 il Sud è cresciuto più delle altre macro aree. Ma è una crescita “reale”, che ingloba segnali di cambiamento strutturale? I dati per il 2016 dicono che la strada per uno sviluppo stabile è ancora lunga.
Con il Documento di economia e finanza 2017 esce confermato il quadro degli ultimi anni. L’Italia ora rispetta il vincolo del deficit, ma non riesce a ridurre il debito. E così non può fare il taglio delle tasse che servirebbe per crescere.
In gennaio la produzione industriale è andata male: -2,3 per cento rispetto al dato di dicembre 2016, con un piccolo ritorno al segno meno (mezzo punto percentuale) rispetto al dato di gennaio 2016 (che era stato particolarmente positivo). I brutti dati di gennaio arrivano dopo i bei dati di dicembre (+1,4 per cento su novembre; +5,8 sul dicembre 2015) che avevano rassicurato sulla solidità della ripresa in atto.
I dati mensili – si sa – sono volatili e possono risentire di elementi casuali. Ad attirare l’attenzione infatti non dovrebbero essere i crolli o i boom mensili ma la debole dinamica di più lungo terminedell’industria durante l’attuale ripresa. Il grafico indica con altrettante frecce la ripresa industriale di oggi e quella di tre analoghi episodi di ripresa del passato: a fine anni novanta, a metà anni duemila e dopo la grande recessione del 2008-09. I numeri sono chiari. Tra il minimo del maggio 1999 e il massimo del dicembre 2000, la produzione industriale salì del 10,3 per cento (dunque a un passo del 6,5 per cento su base annua). Nella ripresa della stessa durata (19 mesi) tra il minimo di maggio 2005 e il massimo di dicembre 2006 si registrò un +9,3 per cento, corrispondente a un dato annuo del 5,9 per cento. Nei 25 mesi (compresi tra il marzo 2009 e l’aprile 2011) arriva la ripresa dopo la Grande Recessione. Uno squillante +14,8 per cento, corrispondente a un +7,1 per cento annuo. Ma in questo caso, la caduta durante la recessione fu particolarmente marcata.
In ogni caso, i numeri della ripresa in corso impallidiscono rispetto alle riprese del passato. Dal minimo dell’ottobre 2014 al gennaio 2017 la produzione industriale è risalita di un magro 4 per cento (+1,8 per cento annuo). E anche prendendo il mese di dicembre 2016 come raffronto, viene fuori un +6,4 per cento.
Sono numeri che fotografano una situazione di difficoltà complessiva dell’industria italiana che sembra non avere fine. Quelli che ce la fanno spesso riescono molto bene e in mercati esteri. Ma, dicono i dati, sono troppo pochi.
Apertura economica e commercio internazionale sono stati al centro della campagna elettorale Usa. E saranno temi importanti anche nell’Europa del 2017. Il protezionismo è oggi un’opzione politica allettante. Ma oltre a creare danni all’economia mondiale potrebbe alimentare tensioni geopolitiche.
Donald Trump e Theresa May sono obbligati a crescere. Per questo, nell’immediato, il maggiore interscambio dovuto alle loro politiche potrebbe favorire anche la crescita europea. Sul più lungo termine, tutto dipenderà da come reagiranno le multinazionali alla nuova situazione internazionale.
Nelle aree metropolitane si concentra una quota molto alta della ricchezza totale e dell’innovazione radicale. Ma se nel 2007 a produrre la metà del Pil mondiale erano le città occidentali, già nel 2025 saranno protagoniste quelle cinesi. L’attenzione di Pechino alle politiche di urbanizzazione.
L’Italia è cresciuta ben poco negli ultimi venti anni. Tra le tante cause, è rimasta in secondo piano la questione di come gli imprenditori italiani selezionano e gestiscono le risorse umane. La meritocrazia latita, nel settore pubblico e in quello privato. Inutile intervenire solo sulla scuola.