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Quando il lavoro è intermittente

Il contratto di lavoro intermittente (o lavoro a chiamata) è stato fin dall’inizio tra le più controverse innovazioni introdotte dalla legge Biagi. Ma quanto viene usato? In che forma? Da quali aziende? I dati del Centro Impiego del Veneto possono aiutarci a fissare dimensioni e caratteristiche dell’adozione di questa formula che nel corso del tempo è stata sempre più utilizzata, ma che potrebbe sparire in seguito alla riforma del welfare.

Il contratto di lavoro intermittente (o lavoro a chiamata)*, definito come “il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa”, è stato fin dall’inizio tra le più controverse innovazioni introdotte dalla legge 30/2003 e dal decreto lg.vo 276 del 2003. Esso può essere a tempo determinato o indeterminato. Può essere stipulato da qualunque impresa con qualunque lavoratore per determinate tipologie di prestazioni (essenzialmente riferite a lavori definiti come discontinui dalla normativa sull’orario di lavoro) e per il lavoro nel week-end e in periodi predeterminati (ferie estive, vacanze pasquali o natalizie); in ogni caso, indipendentemente dal tipo di prestazione, può sempre essere stipulato con lavoratori di età inferiore ai 25 anni o superiore ai 45 anni.
Il contratto di lavoro intermittente può (non “deve”) prevedere la corresponsione al lavoratore di un’indennità di disponibilità. Se prevista, questa è legata in particolare ai casi in cui, essendosi il lavoratore impegnato a rispondere positivamente, la chiamata al lavoro non si concretizzi oppure ai casi in cui la chiamata sia prevista nel week-end o in periodi predeterminati (ferie estive, vacanze pasquali o natalizie), configurandosi dunque come una sorta di maggiorazione retributiva (dovuta quando la prestazione davvero si concretizzi).
Dello stato e dei problemi di concreto utilizzo di questa nuova fattispecie contrattuale si conosce poco, indubbiamente molto meno di quanto sarebbe utile ad un dibattito informato.
Alcune essenziali informazioni desunte dalle comunicazioni di assunzione ai Centri per l’impiego del Veneto consentono quanto meno di fissare dimensioni e caratteristiche della tipologia contrattuale in oggetto.

Le assunzioni

Dai dati disponibili fino a febbraio 2007, si ricava che le prime stipule sono avvenute alla fine del 2004, evidenziando inizialmente una consistenza modestissima (un centinaio nell’ultimo trimestre). Nel 2005, primo anno di effettiva operatività dello strumento, il ricorso al lavoro intermittente è rapidamente aumentato, superando le mille unità nel quarto trimestre, per un totale nell’anno di oltre 3.000 assunzioni con contratto di lavoro intermittente. Nel 2006 si sono ampiamente superate le 10.000 assunzioni (vale a dire poco meno del 2% delle assunzioni totali) e i primi mesi del 2007 evidenziano un ulteriore trend di incremento, registrato in tutte le province.
Elevatissima è la polarizzazione settoriale: circa due terzi delle assunzioni a chiamata risultano attivate dalle imprese del comparto alberghi-ristorazione; altri due addensamenti di rilievo si riconoscono nel commercio e nei servizi culturali e ricreativi mentre modestissimo è l’utilizzo da parte dell’industria.
La maggioranza dei contratti di lavoro a chiamata stipulati (circa il 60%) è a tempo indeterminato. Non risulta utilizzato l’istituto dell’indennità di chiamata.

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I lavoratori

Data la natura del contratto, è perfettamente compatibile la sovrapposizione di assunzioni presso imprese diverse: per questo il numero dei lavoratori coinvolti nei contratti a chiamata è inferiore – di circa il 20% su base annua – al numero dei contratti stipulati. Del resto, tanto più in assenza di indennità di disponibilità, il lavoratore, che non si impegna a rispondere alla chiamata, naturalmente mantiene una pluralità di potenziali occasioni di lavoro.
I lavoratori coinvolti sono soprattutto giovani e donne: la classe d’età modale è quella tra i 20 e i 24 anni e l’età mediana è 27 anni. Gli over 45 sono circa il 15% del totale. Le donne sono oltre il 60% del totale. L’incidenza dei lavoratori stranieri è invece assai modesta, pari a poco più del 9% (in una regione come il Veneto costituiscono circa il 20% degli assunti).
Un terzo dei lavoratori interessati da contratti di lavoro intermittente risulta del tutto privo di precedenti esperienze di lavoro dipendente: per questo gruppo (in cui sono inclusi numerosi studenti) il lavoro intermittente è dunque stato un canale di transizione dall’inattività o dalla disoccupazione (o magari dal lavoro nero) all’occupazione dipendente regolare.
Un sesto invece ha già avuto altri rapporti di lavoro (in circa la metà dei casi a part time) con la medesima azienda e quindi il contratto di lavoro intermittente si configura come una diversa modalità di regolazione di un rapporto già sperimentato in passato.
Metà dei lavoratori, infine, ha già avuto rapporti con altre aziende, in nettissima maggioranza con contratti a tempo determinato; quanto all’orario, spesso (un terzo dei casi) si trattava di part time. Complessivamente si riscontra che – all’interno della medesima azienda o tra aziende diverse – sono frequenti i passaggi da contratti a part time a contratti di lavoro intermittente.
Pur disponendo di una finestra di osservazione ancora temporalmente assai limitata, si registra già un numero discreto di transizioni dopo il lavoro a chiamata: il 20% di esse avviene presso la medesima azienda, quasi sempre (oltre l’80%) a tempo determinato.

Le imprese

Sono circa 5.000 le aziende che finora in Veneto hanno fatto ricorso al lavoro a chiamata. In media ciascuna di esse ha posto in essere 3 contratti di lavoro intermittente. Sul complesso delle assunzioni (oltre 80.000 nel biennio 2005-2006) realizzate da queste aziende, il lavoro intermittente ha inciso per il 16%. Confrontando i flussi di assunzione realizzati nelle medesime aziende prima (2003-2004) e dopo l’introduzione del lavoro a chiamata (2005-2006) si evidenzia che il lavoro a chiamata ha ridotto (all’incirca dimezzato) il ricorso alle assunzioni giornaliere, senza peraltro soppiantarne l’uso.

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L’introduzione del contratto di lavoro a chiamata ha costituito indubbiamente una semplificazione delle procedure di assunzione per le imprese che utilizzano, con anche rilevante discontinuità, i medesimi lavoratori: un’alternativa logica dunque alle assunzioni giornaliere o al lavoro somministrato di brevissima durata e anche al lavoro nero. I dati disponibili attestano un relativo successo del nuovo strumento. Essi non consentono peraltro la verifica esaustiva di se e quanto la semplificazione, insita nella stipula di un unico contratto al posto di una pluralità di contratti a termine, abbia avuto un impatto “fluidificante” sulla domanda di lavoro, stimolandola e/o favorendone la regolarizzazione. I dati adoperati concernono infatti la stipulazione del contratto a chiamata ma non l’effettuazione concreta delle prestazioni lavorative (il verificarsi effettivo cioè della chiamata). Ciò significa che non è dato sapere se i lavoratori interessati abbiano all’atto pratico lavorato e guadagnato tanto o poco (più o meno di prima, nel caso di tutti quelli che, come detto, avevano precedenti lavorativi, spesso con la stessa impresa). Da questo punto di vista, il lavoro a chiamata (ed in particolare la previsione di una segnalazione da parte del datore di lavoro solo al momento della stipula del contratto e non nel momento dell’effettiva chiamata) potrebbe efficacemente coprire evasioni contributive e fiscali. Il confronto con i dati sui contributi versati all’Inps consentirebbe peraltro di esplorare adeguatamente anche questo aspetto.

* Primi dati statistici disponibili sui contratti di lavoro intermittente sono stati presentati in Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Aggiornamento del quadro informativo sulle politiche del lavoro, Roma, luglio 2006, pp. 112-119, (www.welfare.gov.it); un aggiornamento è disponibile in Veneto Lavoro (a cura di), Il mercato del lavoro nel Veneto. Tendenze e politiche. Rapporto2007, FrancoAngeli, Milano.

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11 commenti

  1. valter cortecchia

    Il lavoro intermittente, una volta regolato anche a livello dei contratti collettivi di lavoro , potrebbe forse diventare uno strumento utile alla emersione di rapporti di lavoro marginali . Nella mia esperienza purtroppo ho potuto analizzare contratti stipulati quasi sempre per dare una minima copertura a rapporti di lavoro ben più strutturati, in grande prevalenza nel settore terziario: pubblici esercizi, ristorazione o, in minore misura, nel commercio. A questo fine elusivo sono a volte utilizzati anche i contratti part- time, che essendo basati su un orario di lavoro definito dettagliatamente, sono però meno adatti per coprire l’elusione. A mio parere la trasformazione di un contratto part-time a quello di lavoro intermittente , potrebbe evidenziare che quest’ ultimo contratto si presta meglio a fini elusivi.

  2. Giacomo Dorigo

    Ci sono imprese che hanno strutturalmente bisogno di personale disponibile a lavorare in modo discontinuo. Non dipende dall’ansia di sfruttamento del datore di lavoro ma dalla struttura stessa del “business”. Ci sono occasioni in cui per esempio per sostituire del personale che si ammala improvvisamente si può ricorrere a personale interno in regime di straordinario, ma non sempre ciò è possibile. Ecco che in questo caso il lavoratore a chiamata può rivelarsi prezioso. Inoltre non è detto che non ci siano categorie di persone cui il lavoro a chiamata in fondo va bene, come per esempio degli studenti che siano impegnati negli studi e che abbiano bisogno solo di qualche entrata in più ma non di un vero lavoro.
    Se verrà eliminato il contratto a chiamata di certo le imprese non saranno stimolate ad assumere a tempo indeterminato, ma semplicemente le imprese torneranno alle pratiche usate in precedenza, legali come le collaborazioni occasionali in ritenuta d’acconto o addirittura illegali come il lavoro nero… e non credo questo sia davvero un bene né per lo Stato né per i lavoratori.

  3. Gianluca Cocco

    Il lavoro a chiamata è talmente inconcepibile che il suo potenziale utilizzo, come mostrano i primi dati, ha imbarazzato persino i padroni. Oltre ad essere di per se abominevole, rappresenta una delle forme contrattuali introdotte a vanvera, senza alcuna analisi seria che potesse valutarne la necessarietà e soprattutto se e quanto potesse contribuire a costituire un trampolino di lancio verso l’occupazione stabile. Questo Governo, i cui rappresentanti sono tra i maggiori responsabili della precarizzazione del mercato del lavoro italiano, coerentemente non ha il coraggio di intervenire in maniera incisiva contro gli speculatori sociali. Per l’abrogazione del lavoro a chiamata ha ancora bisogno di altri tavoli, mentre sul contratto a termine finge di circoscriverlo ad un’esperienza transitoria per ogni lavoratore. Del resto non poteva essere altrimenti: questo è il Paese delle prese in giro, ad ogni livello: istituzionale, sociale, economico. Il protocollo d’intesa proposto dall’ex proletario Damiano farebbe rivoltrare lo stomaco a qualsiasi compagine di centro-destra di un paese scandinavo.

  4. Davide Balzani

    Questo tipo di contratto è nato per rispondere ad indubbie necessità di alcune tipologie di attività che riescono con difficoltà a programmare e prevedere i picchi di lavoro.
    Purtroppo però come spesso accade alcuni ne abusano.
    Sono già stati segnalati casi di aziende alberghiere stagionali che hanno in forza esclusivamente personale a chiamata.
    I vantaggi sono almeno due: in caso di controllo o infortunio sul lavoro il personale risulta assunto e chiamato per quel giorno, in mancanza di controllo vengono registrate un numero di giornate lavorate risibile abbatendo l’imponibile contributivo e fiscale.
    Come sempre accade uno strumento sensato in mani disoneste diventa pericoloso.

  5. Alessandro Salomone

    Sono stato dal principio favorevole a questa tipologia di contratto di lavoro. A mio avviso incontra giuste esigenze sia da parte delle aziende che di segmenti del mercato del lavoro, in particolare studenti e pensionati. Io stesso, da studente universitario oramai tanti anni fa, ne ho fatto uso, ovviamente a nero.
    Già in altri commenti emerge la questione che, nei fatti, spesso è diventato un sistema per garantire alle aziende una copertura nei confronti di ispezioni e controlli.
    Questo è particolarmente vero soprattutto quando incontra la complicità del lavoratore che ha già un reddito e non è più interessato alla contribuzione. Mi riferisco ai pensionati.
    E’ pur vero che non si potrebbe rubare e si dovrebbero pagare le tasse. Eppure si ruba e si evade.
    Credo che la soluzione ai problemi stia nei comportamenti delle persone, piuttosto che nelle leggi. Nel nostro paese abbiamo bisogno di cambiare cultura. Il rispetto delle leggi dovrebbe essere per ogni cittadino un imperativo categorico. Aiuterebbe questo paese ed anche la sua economia.

  6. stefano delbene

    Si può rilevare che il lavoro a chiamata riguardi settori di attività spesso caratterizzati dal lavoro nero. Si potrebbe quindi valutare positivamente anche da questo punto di vista. Andrebbe però maggiormente retribuito (ad esempio con il riconoscimento contrattuale dell’indennità di reperibilità, della malattia, previdenza, etc.). Si renderebbe tale rapporto di lavoro meno “competitivo”, ma eviterebbe i rischi di uso distorto.

  7. Eduardo Pelella

    Il lavoro a chiamata rappresenta un’altra modalità, diciamo creativa, per permettere alle imprese italiane, sempre meno imprese, di avere un altro strumento a loro favore per abbattere il costo del lavoro. Il problema è che si tratta di uno strumento flessibile unilaterale (solo per le imprese) e che, com’è stato ricordato spesso, viene usato per svariati e poco ortodossi scopi. Lo spirito del pacchetto Treu (1997), che ha introdotto i primi contratti “atipici” era quello di consentire un accesso flessibile al mondo del lavoro, ma la sua applicazione, senza provvedere ai necessari correttivi che l’esperienza imponeva, ha portato all’abuso di figure contrattuali in certi casi utili; in un Paese, nel quale il tessuto imprenditoriale è poco coraggioso, che è stato aiutato troppo e troppo a lungo dallo Stato ed è fatto quasi per la maggioranza da banchieri e avventurieri, senza considerare che siamo ben lontani da una situazione di pieno impiego i contratti atipici sono diventati non flessibili ma precari e la Legge Biagi ha solo istituzionalizzato il concetto. Si passa dal concetto teorico di flessibilità della Treu, a quello pratico della precarietà della Biagi.Non mette in conto di dire quanti danni questo porta all’economia, in termini di aspettative, nel suo complesso

  8. giuseppe musolino

    Segnalo un esempio evidente del modo in cui il lavoro intermittente, oltre a rispondere con efficacia alle esigenze delle imprese, contribuisce a migliorare le tutele accordate ai lavoratori.

    Si tratta dei cosiddetti lavoratori ”extra” del settore turismo, che vengono solitamente assunti a giornata in occasione di banchetti, fiere ed eventi similari.

    Se gli stessi lavoratori venissero assunti con contratto di lavoro intermittente, in luogo di una successione di singoli ed episodici contratti giornalieri, si realizzerebbe una stabilizzazione del rapporto di lavoro, dalla quale deriverebbe anche una maggiore tutela assistenziale nonché la prospettiva di un percorso di carriera.

    In altri termini, il lavoratore avrebbe accesso a indennità di malattia, indennità di maternità, scatti di anzianità, etc.

    Perché rinunciare a questa opportunità?

  9. Federico Salis

    Ciò che più stupisce nelle discussioni che riguardano il job on call è, a volte, la non perfetta conoscenza delle nuove tipologie contrattuali introdotte dalla Riforma Biagi. Di solito, infatti, l’accostamento più frequente fatto in proposito è : lavoro a chiamata e lavoro nero o lavoro a chiamata e precarietà.
    Non si comprende appieno infatti che quello che viene chiamata “precarietà” nel settore dei pubblici esercizi deve spesso considerarsi “occasione di lavoro”. E già esiste da tempo, è presente da sempre nel CCNL Turismo, sia pur per esigenze molto più limitate, una tipologia simile : l’extra e surroga.
    Quindi il ricorso al “job on call” nei pubblici esercizi non è sicuramente da interpretarsi esclusivamente come una misura di emersione del lavoro nero, o grigio, che sia.
    Se da una parte la risposta ministeriale nel 2004 ad una interpretazione della Federazione Italiana Pubblici Esercizi dell’art. 37 del d.lgs. n. 276/2003 aveva aperto un’opportunità, l’aver operato un riferimento alle prestazioni di carattere discontinuo indicate nella tabella allegata al regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657, ha certamente contribuito a incrementare la stipula di contratti a chiamata.
    E’ quindi necessario che venga mantenuta una tipologia contrattuale che, delle due l’una, o non è utilizzata, ed allora non si capisce la necessità di abrogarla, o se è utilizzata, aiuta certamente il lavoratore ad ottenere una forma di contratto che è pur sempre una forma di lavoro dipendente.
    Certamente il “clima” intorno alla Riforma Biagi continua ad essere ideologicamente di contrarietà tanto da impedire perfino qualsiasi tentativo di regolamentazione collettiva.

  10. Giorgio Trenti

    La famigerata legge cosiddetta biagi rende abominevole il rapporto di lavoro.
    Ogni lavoratore deve essere libero di regolare il proprio rapporto di lavoro come meglio crede, a tempo determinato o indeterminato.
    Inoltre la legge mette fra datore di lavoro e lavoratore inutili e costosi intermediari.
    L’incontro fra offerta e domanda di lavoro può avvenire senza spese, su internet.
    Propongo l’abolizione della legge e l’introduzione nel codice civile del testo seguente.
    “Art. 2097 – Durata del contratto di lavoro.
    Le parti stabiliscono le regole del contratto di lavoro.”

  11. laura lenzano

    Il lavoro a chiamata è uno dei tanti modi che usano i titolari di lavoro per fregarti oltre che viene usato a tutte le età, ma è terribile non hai sicurezza di nessun tipo. Come al solito la legge Biagi non ha fatto altro che rovinare il mondo del lavoro, perchè tutti hanno usato il precariato, ma il sistema non si adegua al precariato. E il lavoro a chiamata è il peggiore fra tutte le riforme, ci sono passata e vi dico almeno che non siate propio in dificolta grave, non accettare….è una offessa per i lavoratori.

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