La Commissione europea ha ufficialmente presentato le proposte di revisione del Patto di stabilità e crescita. Si tratta di un passo avanti rispetto al quadro attuale. A ostacolarne l’adozione potrebbe essere la complessa situazione politica in Germania.
Il 26 aprile, la Commissione europea ha ufficialmente presentato le proprie proposte legislative in meritoalla revisione del Patto di Stabilità e crescita (Psc), sottolineando l’intenzione di rendere operative le nuove norme già a partire dal 2024. Al netto di alcune modifiche, è ragionevole affermare come il Berlaymont abbia sostanzialmente preservato la struttura della comunicazione pubblicata il 9 novembre 2022, respingendo, da un lato, l’ipotesi di creare una golden rule e, dall’altro, quella di mantenere obiettivi numerici “rigidi” per gli stati che non rispettano i parametri di Maastricht. Gli elementi più rilevanti del modello prospettato dalla Commissione europea sono i seguenti:
- la definizione di “percorsi di rientro” differenziati per gli stati con un rapporto debito/Pil superiore al 60 per cento. Bruxelles propone infatti di mantenere i valori stabiliti con il Trattato di Maastricht ma, allo stesso tempo, prevede di delineare per ogni paese un percorso specifico di riduzione del debito, in modo da non imporre aggiustamenti draconiani come quelli contemplati dal cosiddetto Fiscal Compact. In quest’ottica, pare dunque che la Commissione abbia deciso di adottare degli standard e di accantonare le più rigide rules (come suggerito qui);
- ogni “percorso” dovrebbe avere una durata minima di 4 anni e andrebbe concordato da Commissione europea e stati membri sulla base di debt sustainability analysis. In questa cornice, spetterebbe innanzitutto alla Commissione il compito di proporre delle technical trajectories mirate a portare, con un’elevata probabilità, a una riduzione del rapporto debito/Pil al termine dell’orizzonte temporale prestabilito. Successivamente, i paesi dovrebbero presentare le proprie controdeduzioni, al fine di trovare un accordo con la Commissione;
- al Consiglio spetterebbe poi il compito di approvare l’accordo raggiunto. In caso di particolari impegni di investimento/riforme, il piano di rientro potrebbe essere allungato fino a 7 anni complessivi, in modo da fornire un più ampio margine di manovra agli stati membri. Nella proposta del 26 aprile, la Commissione ha aggiunto una specifica riguardante la possibilità per i nuovi governi di richiedere una revisione del piano, seppur con la previsione di non mettere a repentaglio la riduzione debitoria deliberata dal precedente esecutivo;
- l’unico valore preso come riferimento da parte della Commissione europea sarebbe quello relativo alla crescita dellaspesa primaria netta rispetto al Pil. In questo modo, si abbandonerebbe il riferimento al controverso output gap e non si considererebbero gli interessi pagati sul debito pubblico e le misure temporanee afferenti al contrasto della disoccupazione;
- l’importo delle sanzioni verrebbe ridotto; cosicché, secondo la Commissione europea, potrebbero essere applicate con più facilità. Al contempo, per gli Stati con un rapporto debito/Pil particolarmente elevato (substantial public debt challenge), in caso di deviazione rispetto al percorso concordato, la Commissione prevede di accelerare l’avvio della procedura di infrazione;
- l’autonomia delle Independent Fiscal Institutions nazionali (Ifis) sarebbe rafforzata, così come il loro ruolo di controllo all’interno dei singoli paesi membri: per esempio, in caso di raccomandazioni provenienti da questi soggetti, i governi dovrebbero seguire il principio del “comply or explain”;
- nella proposta del 26 aprile, infine, la Commissione ha specificato alcuni ulteriori elementi:
I) gli Stati che presentano un rapporto deficit/Pil superiore al 3 per cento dovrebbero conseguire un aggiustamento di bilancio minimo dello 0,5 per cento del Pil su base annua (fintanto che il valore non torni a essere conforme al parametro stabilito con Maastricht);
II) alla fine del percorso di rientro, il rapporto debito/Pil dovrebbe essere minore di quello iniziale;
III) lo “sforzo fiscale” sostenuto durante il piano dovrebbe essere almeno proporzionale a quello previsto per la totalità del periodo;
IV) in caso di estensione del piano, accordata alla luce di un impegno a realizzare riforme/investimenti, la maggior parte della “correzione di bilancio” dovrebbe avvenire nei primi 4 anni.
Più luci che ombre
Secondo la mia opinione, la proposta della Commissione europea va considerata come un miglioramento rispetto al quadro attuale. Dal modello proposto, infatti, emergono in particolare tre elementi che mi sembrano positivi:
1) la creazione di percorsi differenziati permetterebbe di accantonare gli attuali irrealistici obiettivi di riduzione del debito, dando modo alla Commissione di valutare la situazione di ogni stato sulla base delle sue specificità;
2) considerando la spesa netta primaria, i governi verrebbero giudicati sulla base di un parametro che è sotto il loro diretto controllo. In questo modo, i paesi con un importante debito pubblico accumulato decenni addietro (come il nostro) non verrebbero oltremodo penalizzati di fronte a un aumento dei tassi di interesse;
3) l’estensione dei piani fino a 7 anni potrebbe garantire una “tutela” per gli investimenti pubblici, assicurando agli stati con un rapporto debito/Pil elevato una gradualità che il contesto normativo attuale non prevede.
Proprio rispetto agli investimenti pubblici, tuttavia, sorge una possibile criticità. La transizione energetica, ad esempio, richiede una spesa alquanto rilevante che, probabilmente, neanche la gradualità prevista potrebbe garantire. Allo stesso modo, sarà necessario valutare con attenzione i parametri selezionati per condurre le debt sustainability analysis: le valutazioni “tecniche” possono mutare considerevolmente in base ai fattori presi come riferimento. I “dialoghi” previsti dalla Commissione in fase di definizione dei piani pluriennali saranno pertanto fondamentali e, in quest’ottica, sarà importante operare con un elevato grado di trasparenza al fine di non far percepire diversità di trattamento a seconda del differente peso politico dei singoli stati.
La posizione di Berlino
A questo punto, rimane solo da capire se la proposta della Commissione europea verrà avallata, o meno, da parte dei paesi membri. Fra questi, si è già levata una rilevante voce dissenziente: quella del ministro delle Finanze di Berlino, Christian Lindner. Sin dalla lettera inviata il 25 aprile al Financial Times, il leader dei liberali tedeschi ha infatti espresso il suo dissenso rispetto alla modifica delineata da Bruxelles, reputando evidentemente non sufficiente l’introduzione del requisito di aggiustamento fiscale minimo dello 0,5 per cento del Pil per i paesi con un deficit superiore al 3 per cento. Quello che tuttavia va ancora chiarito è se la posizione di Lindner corrisponda a quella dell’esecutivo tedesco. In quell’ircocervo rappresentato dal governo semaforo (Verdi – Liberali – Spd), tendenze progressiste e conservatrici si confrontano in continuazione, portando a fughe in avanti che sovente rappresentano la posizione di un singolo partito piuttosto che quella della coalizione. Lindner, probabilmente preoccupato di regalare consensi alla Cdu di Friedrich Merz o ad Alternative für Deutschland, cerca di assumere il ruolo di garante del rigore finanziario, richiamando l’attenzione sull’esigenza di non aumentare i debiti pubblici dell’Eurozona. I Grünen, dal canto loro, incarnano invece il ruolo degli europeisti, ponendo l’enfasi sulla necessità di ampliare gli investimenti pubblici al fine di combattere il cambiamento climatico. I social-democratici del cancelliere Scholz, per il momento, si tengono un passo indietro ma, presto o tardi, saranno obbligati a prendere posizione in modo più chiaro.
L’impressione è che la partita relativa al Patto di stabilità si giochi tanto a Bruxelles quanto a Berlino: un occhio ai sondaggi politici interni alla Germania potrebbe dunque restituire indicazioni più chiare rispetto alle dichiarazioni rese a margine di un Consiglio europeo.
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Savino
Anche l’Europa, purtroppo, sta utilizzando il modello PNRR come una tantum. Il bilancio comunitario deve essere rivisto nelle regole e negli obiettivi, nelle compartecipazioni, nelle perequazioni, nell’utilizzo dei fondi e nella capacità di investimento.