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Contro l’inflazione non c’è solo la politica monetaria

Le principali banche centrali continuano ad aumentare i tassi. Per tenere sotto controllo l’inflazione, politiche fiscali redistributive, industriali e della concorrenza coordinate fra loro potrebbero ora dimostrarsi più efficaci della politica monetaria.

L’inflazione da profitti

Le banche centrali dei principali paesi avanzati hanno deciso di continuare ad aumentare i loro tassi ufficiali, nonostante la rapida discesa dell’inflazione dovuta alla forte caduta dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari, nonché alla normalizzazione delle catene produttive. Ritengono infatti che le tensioni sul mercato del lavoro, assieme alla forte crescita dei profitti, possano innescare una spirale prezzi-salari, che potrebbe rallentare la discesa della core inflation. Quest’ultima fatica a scendere e rimane ancora ben sopra gli obiettivi delle banche centrali, aumentando il rischio di una destabilizzazione delle aspettative degli operatori che finora sono rimaste sotto controllo.

A queste considerazioni vanno tuttavia aggiunte due precisazioni, messe in luce dalla recente ricerca economica. In primo luogo, negli ultimi mesi la Banca centrale europea, l’Ocse e la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) hanno pubblicato studi che mostrano come i profitti abbiano rappresentato una componente molto importante dell’inflazione. Circa il 40-45 per cento, secondo le stime del Fmi.

In altri termini, le imprese sono riuscite non solo a scaricare sui prezzi finali tutti gli aumenti subiti dall’incremento dei costi, ma anche ad aumentare i loro margini. Nel frattempo, i salari nominali si sono mossi molto poco, così i salari reali hanno registrato una drastica riduzione.

Se durante la grande fiammata inflazionistica degli anni Settanta i lavoratori dipendenti hanno saputo difendersi dagli shock petroliferi e i profitti delle imprese hanno subito una drastica riduzione, oggi è successo l’opposto. Certo, non tutte le aziende sono riuscite a tenere o addirittura ad aumentare i margini, ma molte hanno visto crescere i loro profitti, anche con volumi in discesa.

Nulla di nuovo sotto il sole, se già Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni scriveva: “In realtà alti profitti tendono a far salire i prezzi molto di più degli alti salari” (Libro Primo- Capitolo Nono).

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Il motivo, poi, perché è occorso tanto tempo per arrivare a questa conclusione, ce lo spiega Christine Lagarde nel suo intervento al Parlamento europeo del 5 giugno. Il problema sta nel fatto che i dati sui profitti non sono così accurati e tempestivi come quelli sui salari o sulle materie prime.

In una situazione di alti profitti, le imprese sono meno dipendenti dal credito e pertanto la politica monetaria diventa meno efficace, a differenza di quelle fiscali e industriali che possono giocare un ruolo rilevante. Interessante in proposito è il caso spagnolo, dove il governo Sànchez è riuscito a ottenere risultati considerevoli con politiche economiche non convenzionali quali lo sganciamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità, la riduzione della tassazione indiretta, l’imposizione di limiti ai prezzi dell’energia, la tassazione dei super-profitti delle banche. Così l’inflazione in Spagna è oggi vicina al 2 per cento, mentre la crescita dei profitti è in linea con il costo unitario del lavoro.

Le aspettative di inflazione

La seconda precisazione ha a che fare con le aspettative d’inflazione che stanno giustamente a cuore alle banche centrali. Anche in questo caso, la recente ricerca economica fornisce interessanti spunti di riflessione. Un lavoro appena pubblicato da quattro economisti europei ha mostrato come la formazione delle aspettative degli operatori è più influenzata dagli shock di offerta che da quelli di domanda. In particolare, le famiglie citano spesso quali cause dell’inflazione le interruzioni delle catene degli approvvigionamenti, le carenze di manodopera e la crisi energetica, trascurando invece il ruolo delle politiche monetarie. Inoltre, le narrazioni evocate dalle famiglie sono fortemente influenzate dal loro background e dal loro credo politico. Negli Stati Uniti, ad esempio, i repubblicani sono sostanzialmente più propensi dei democratici a credere che l’inflazione sia causata dalla cattiva amministrazione pubblica e dai deficit di bilancio.

In conclusione, la politica monetaria potrebbe dimostrarsi molto meno efficiente di quanto comunemente ritenuto nell’influenzare le aspettative d’inflazione e, in ultima istanza, anche l’inflazione stessa. Importante, invece, è la cooperazione con politiche fiscali redistributive, industriali e della concorrenza.

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Il Punto

  1. Savino

    L’articolo dimostra che i Governi possono e debbono prendere dei provvedimenti per sfiammare l’inflazione. Peraltro, il consenso che conta non è solo quello di parte imprenditoriale. Se viene a mancare del consenso popolare per causa del caro-vita, non credo che i Governi e le maggioranze che li sostengono possano sopravvivere agevolmente. Quindi non fila nemmeno il discorso che sia una convenienza politica non intervenire contro l’inflazione.

  2. Carmine Meoli

    Quanto mai vero! Si pensi ad esempio alla struttura delle tariffe per le public utilities! Utili annuali per il 2022 e utili semestrali 2023 superiori alle attese e non certo dovuti ad efficienze confermano che le logiche tariffarie ( assicurare la esistenza di pluralità di operatori specie di quelli marginali ) dimostrano che le tariffe sono procicliche!
    Per non dire del confusion pricing diffusissimo in una fase in cui il consumatore poco esperto e con redditi falcidiati dalla inflazione è esposto a scelte assai problematiche/dannose.

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