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Contratto fiscale tradito

La delega fiscale non cambia il disegno di un sistema tributario fortemente squilibrato e nel quale si trascura ogni ragione di giustizia distributiva. Pagano solo alcuni, e sempre gli stessi. Ma i benefici dei beni e servizi pubblici sono per tutti.

La delega che non cambia la situazione

La delega al governo per la riforma fiscale (legge 111/2023) introduce un certo numero di possibili revisioni dei più importanti tributi. In particolare, si prevedono rimodulazioni delle aliquote Irpef e aggiustamenti specifici per i redditi di specie (dipendente, autonomo, agrari, di natura finanziaria e altro), revisioni del numero e del livello delle aliquote dell’imposta sul valore aggiunto, variazioni delle aliquote Ires in relazione a nuovi investimenti, la graduale riduzione dell’Irap e altri interventi su tributi minori.

Tutto ciò non cambia – anzi consolida – il disegno di un sistema tributario fortemente squilibrato in cui è compromesso il contratto fiscale e nel quale si trascura ogni ragione di giustizia distributiva, cioè di corrispondenza tra onere delle imposte e benefici dei beni e servizi pubblici, tra chi le imposte è chiamato a pagarle e chi non lo è per beni e servizi pubblici di cui però tutti godono.

La delega fiscale consolida un principio che appare ormai definitivamente acquisito dai riformatori di varia specie, cioè che il nostro sistema tributario non debba più rivestire un carattere di generalità, non debba fondarsi sul principio di equità orizzontale, e possa invece essere manovrato a piacere, per esigenze contingenti, senza alcuna relazione con le esigenze strutturali di spesa pubblica, presenti e future.

Su chi ricade il peso di Irpef e di Iva

Nel nostro sistema tributario il 60 per cento del gettito deriva da due imposte, Irpef e Iva. Nell’Irpef, sono ormai tante le categorie di reddito che sfuggono alla progressività del prelievo e godono di regimi agevolativi differenziati, di natura generalmente proporzionale. E la delega fiscale incoraggia questa tendenza.

Dall’Irpef non possono fuggire lavoratori dipendenti e pensionati: 83,5 per cento del reddito complessivo dichiarato nel 2021, come già in anni pre-pandemici. Il 77 per cento dei contribuenti in Italia dichiara meno di 29 mila euro e appena il 2,2 per cento dichiara più di 75 mila euro; i dichiaranti “super ricchi”, con un reddito tra 75 e 300 mila euro, sono per circa il 60 per cento lavoratori dipendenti e pensionati. Eppure, l’immagine fiscale di un paese di poveri si rovescia guardando alla Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, che rileva una propensione all’evasione pari a meno del 3 per cento per il lavoro dipendente e a due terzi del reddito per i redditi da lavoro autonomo e di impresa, con tendenza all’aumento, al 23,4 per cento (in media 2018-2020) per l’imposta sulle società di capitali (Ires), e con una evasione complessiva misurata intorno agli 80-90 miliardi di euro annui.

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Il combinato della costante fuga dalla progressività di molte basi imponibili e dello scarso adempimento fiscale di specifiche categorie di reddito restituisce un quadro piuttosto polarizzato: il peso dell’Irpef raggiunge circa l’11 per cento del Pil, mentre il peso dell’Ires sfiora appena il 2,5 per cento del Pil. E anche a voler considerare l’aggregato delle principali imposte che ricadono su profitti e capitale, si resta sotto il 5 per cento del Pil. È un contributo al gettito di cui si deve tenere conto nella misura in cui la quota dei salari sul Pil, dal 1975, tende a ridursi (dati Ameco), anche se in misura minore negli ultimi anni, ma solo perché nella quota salari rientrano le retribuzioni dei top manager, il cui importo tende ad allontanarsi dal salario medio più che in passato.

D’altro lato, nello stesso periodo, si è verificata una crescita della quota dei rendimenti del capitale. Se queste tendenze dovessero essere confermate nel futuro, si renderebbero necessari aggiustamenti anche dal lato del prelievo.

Nel caso dell’Iva, poi, l’intreccio tra aliquote ridotte, esenzioni e trattamenti agevolativi fa di questa imposta una delle meno efficienti in Europa, con livelli di evasione assai elevati: 20,6 per cento in media tra il 2018 e il 2020, con un effetto di riduzione che sembra parzialmente sostenuto dalla diminuzione intervenuta nel 2020 durante la pandemia.

Le prestazioni restano universali

Ma come può un sistema tributario di questo tipo essere compatibile, nel futuro, con un sistema di spesa che pretende di essere “universale” dal punto di vista della fruizione dei diritti? In un sistema universale, l’uscita dal prelievo (inclusa l’evasione) non comporta l’uscita dalle prestazioni universali. Al contrario, coloro che pagano interamente le imposte divengono oggetto di un paradosso: subiscono una crescente riduzione delle prestazioni pubbliche (in primo luogo quelle sanitarie), finanziariamente condizionate da risorse limitate, mentre alimentano un sistema di prelievo che alle altre categorie di contribuenti distribuisce esenzioni, agevolazioni e riduzioni di imposta.

In questa condizione, cosa si intende effettivamente dire quando si afferma che non ci sono risorse, ad esempio, per la sanità e l’istruzione? Cosa si intende fare nel momento in cui si disegna un futuro fosco dal lato della sostenibilità della spesa pubblica e dall’altro si conservano e si ampliano le possibilità di uscita dal prelievo? E come si può conciliare, in termini prospettici (quantomeno per gli anni che ci distanziano dal demograficamente fatidico 2040), un sistema tributario concentrato su lavoratori e consumatori in relazione alle proiezioni dell’inverno demografico che riguardano il nostro paese, alla pressoché nulla dinamica dei salari e al livello inevitabilmente più basso delle future pensioni pubbliche basate sul metodo contributivo?

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Ci sono pochi dubbi sugli esiti che emergeranno da questo scenario. Occorrerà prendere finalmente coscienza del fatto che l’unico sistema tributario dinamicamente compatibile con l’evoluzione della spesa di carattere universale sia un sistema altrettanto universale e onnicomprensivo, che richiederà l’abbandono della frammentazione del prelievo e della legislazione tributaria di favore, e un riequilibrio del contributo al gettito tra lavoro e capitale. In altri termini, prendere le risorse dove sono e non solo dove si possono prendere senza rischiare (ma fino a quando?) la reazione politica e sociale del contribuente. In caso contrario, la dissoluzione della generalità del prelievo provocherà una sorta di “tragedia dei beni pubblici”, ovvero la dissoluzione del carattere universale di gran parte della spesa sociale, che finirebbe per essere sostituita dalla fornitura privata di molti servizi essenziali. Il che è forse l’intento sottaciuto dei tanti riformatori tributari, i quali però non considerano che le basse dinamiche salariali attese per i prossimi anni impediranno a molti di sottoscrivere estese polizze sanitarie o generosi piani pensionistici privati.

Per affrontare l’inverno demografico non basterà mettere mano alla spesa pubblica se prima non si metterà mano a un sistema tributario che da tempo ha tradito il contratto fiscale, quell’articolo 53 della Costituzione che chiede a tutti di contribuire alla spesa pubblica, e non solo ad alcuni e sempre agli stessi. 

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  1. Savino

    Articolo ben fatto che centra i temi inerenti il fisco quale leva redistributiva, l’uguaglianza sociale, il welfare da rimodulare, l’universalità dei beni pubblici. Ciò che temo e che oramai si governa per ottenere solo la continuità di consenso di alcune categorie di privilegiati. Questo è un pericolo per la democrazia, poichè restano escluse e ignorate dal ciclo economico, decisionale e del benessere ampie fasce di numerosa popolazione.

  2. Alberto Sdralevich

    Finalmente! Purtroppo la voce degli esperti di scienza delle finanze non si sente più. Stiamo andando verso una frammentazione ad hoc delle regole fiscali che renderà il sistema ingestibile, oltre che ingiusto. Ed è facile prevedere che si comincerà a dire che è giusto che chi ha di più paghi i servizi pubblici – spingendo i ricchi al servizio privato e lasciando il pubblico ai poveri, con le conseguenze che è facile immaginare.

  3. lorenzo

    Mi meraviglia che non sia stata presa in considerazione la tassazione flat. Ripeto da sempre che è criminogeno equiparare chi guadagna €15k (che andrebbe tassato di meno) e chi guadagna anche €80k

  4. Lantan

    Articolo interessante e ben corredato di numeri e considerazioni. Dovrebbe essere letto dagli attuali decisori politici che stanno smantellando sia il Patto fiscale che il Patto Sociale, con conseguenze che alla lunga saranno assai preoccupanti per la tenuta democratica e per la coesione sociale del Paese.

  5. f.mario parini

    Articolo illuminante, ma alcune osservazioni osservazione .Esiste una via per recuperare sia i fondi per la sanità sia le risorse pensionistiche; l’abolizione del denaro contante. E’ il solo modo per trovare
    le disponibilità per soddisfare i bisogni dello stato e bisogna introdurre delle tassazioni di scopo elevate( Alccolici,sigarette,zucchero, grassi). Anche le sanzioni del codice della strada devono essere aumentate poiché sia le conseguenze umane sia i costi sanitari sono elevatissimi.

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