Il sussidio di disoccupazione per le madri che si dimettono preserva il loro reddito alla nascita di un figlio. Ma potrebbe ripercuotersi sulla qualità delle opportunità di lavoro delle donne, spingendole a uscire dal mercato del lavoro dopo la maternità.
Imprese e dimissioni delle madri lavoratrici
Nonostante gli importanti progressi registrati nei decenni passati, la parità di genere nel mondo del lavoro è ancora lontana. La maternità comporta un costo lavorativo per le donne ovunque, anche nelle economie più all’avanguardia per l’uguaglianza tra uomini e donne. I dati raccontano che la nascita di un figlio cambia le traiettorie delle carriere femminili (ma non maschili): le donne lavorano meno dopo essere diventate madri e spesso abbandonano del tutto il mondo del lavoro. Ma le imprese hanno qualche ruolo nel determinare questi esiti? Come reagiscono all’evento maternità?
In un recente lavoro analizziamo come l’uscita dal mercato del lavoro delle donne appena diventate madri si ripercuote sulle politiche occupazionali delle imprese. Se una madre decide di dare le dimissioni dal suo lavoro, come si comporta l’impresa che l’aveva assunta? Potrebbe decidere di ridurre l’occupazione delle donne in età fertile, nel timore di dover affrontare con frequenza delle sostituzioni, preferendo l’assunzione di uomini o di donne più anziane. In alternativa, potrebbe scegliere di offrire alle donne giovani condizioni contrattuali peggiori, dando loro meno garanzie al momento della maternità.
L’analisi si avvale di una prescrizione dell’ordinamento italiano secondo cui l’indennità di disoccupazione è riconosciuta alle madri nel primo anno di vita del figlio anche in caso di dimissioni volontarie (e non solo in caso di licenziamento). Nel 2015, con l’entrata in vigore della nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi; decreto legislativo 22 del 4 marzo 2015), la durata del periodo di fruizione dell’indennità di disoccupazione è sensibilmente aumentata, potenzialmente inducendo più madri a dimettersi. Questo ci offre un’opportunità per valutarne le ripercussioni a livello di impresa.
Lo studio
Utilizziamo i dati amministrativi dell’Inps sull’universo dei lavoratori nel settore privato non agricolo, abbinati alle informazioni sulle imprese in cui sono occupati. L’analisi si concentra sulle aziende con meno di 35 dipendenti, per le quali i costi per la sostituzione dei lavoratori sono verosimilmente più elevati, e segue i risultati di lavoratrici e imprese per 36 mesi dopo la nascita. Per studiare la reazione delle aziende, confrontiamo quelle in cui lavorano madri che, a seguito dell’introduzione della Naspi, hanno mostrato aumenti marcati nei tassi di dimissione dopo la nascita di un figlio, con le imprese che invece impiegano madri che hanno mostrato risposte meno rilevanti al cambio della durata dell’indennità di disoccupazione.
Guardiamo innanzitutto come si comportano le donne che diventano madri. Dopo la riforma (figura 1), le madri che rispondono maggiormente alla stessa mostrano tassi di dimissione e di non occupazione più elevati (rispettivamente di 2,9 e 1,9 punti percentuali a 3 anni dalla nascita del figlio). Contestualmente, e con un plausibile – seppure parziale – intento di compensazione, le imprese interessate riducono il tasso di licenziamento delle madri.
Figura 1 – Tassi di dimissione, licenziamento e non occupazione
Nelle imprese in cui crescono le dimissioni delle madri, il saldo tra assunzioni e cessazioni di posizioni lavorative alle dipendenze aumenta significativamente solo tra le donne (del 6,1 per cento), soprattutto tra quelle nella classe di età tra i 20 e i 45 anni (figura 2). Non succede molto invece nella fascia di età più avanzata. L’espansione del saldo netto tra chi viene assunto e chi smette di lavorare è trainata da una crescita delle assunzioni superiore a quella delle cessazioni, con un incremento del turnover femminile – ossia del totale delle posizioni lavorative attivate e terminate.
Figura 2 – Assunzioni nette cumulate per età e genere
Per la sostituzione delle dipendenti che si dimettono, le aziende più colpite dalla riforma si rivolgono quindi al mercato del lavoro esterno più che a quello interno o alla riorganizzazione delle mansioni tra i lavoratori già in azienda. Nel farlo, le imprese preferiscono utilizzare contratti temporanei o comunque di breve durata: l’aumento del turnover si associa infatti a una riduzione permanente (fino a 36 mesi dopo la nascita) della quota di lavoratrici assunte con contratti a tempo indeterminato (figura 3). Per gli uomini non ci sono invece cambiamenti.
Figura 3 – Quota di contratti a tempo indeterminato per età e genere
Il sussidio con possibili ripercussioni negative
Come interpretare questi risultati? Potrebbero segnalare la volontà delle imprese di ottenere nuovamente il controllo sul momento della cessazione del rapporto di lavoro, attraverso l’utilizzo di contratti di durata inferiore – quindi di minore qualità – per le donne. Risultato? Contratti peggiori offerti alle donne, in particolare a quelle in età fertile, suffragano l’ipotesi di discriminazione statistica nei loro confronti, ossia l’attribuzione a tutte le donne di un costo in termini di qualità del lavoro. Potrebbe quindi innescarsi un circolo vizioso in cui le donne, avendo meno opportunità di occupazione a tempo indeterminato, sarebbero ancora più propense a uscire dal mercato del lavoro dopo la maternità.
Sebbene la previsione di un sussidio di disoccupazione per le madri che si dimettono miri a preservare il loro reddito in prossimità della nascita di un figlio, potrebbe avere ripercussioni negative sulla qualità delle loro opportunità lavorative.
* Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o il Sistema europeo di banche centrali.
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Savino
L’arretratezza culturale che abbiamo rende tutto distante anni luce da come dovrebbe essere. I posti di lavoro dovrebbero essere luoghi più accoglienti, confortevoli ed inclusivi. Non è come dice la Meloni per la quale bisogna lasciar fare a chi vuole fare, perchè, invece, bisogna fare bene impresa, garantendo alle lavoratrici conciliabilità con la vita quotidiana, benessere organizzativo e welfare aziendale. Non è come dice Valditara, perchè fare scuola tra giugno e settembre in Italia è una chimera, siamo a livelli di 60-70 anni fa, tra mancanza di strutture e iper corporativismo di alcune categorie.
Fausto Tagliabue
Questa norma andrebbe modificata. Spesso capita che una lavoratrice si dimetta pochi giorni prima che scada l’anno dalla nascita del bambino al fine di avere la Naspi e vedersi pagato il preavviso, anche se l’azienda non intende licenziare la lavoratrice ma farla rientrare al lavoro. In questo caso non credo sia giusto che l’azienda debba pagare il ticket per la naspi ed il preavviso, non essendo l’azienda che licenza ma la lavoratrice che si dimette. Se poi lo stato vuole riconoscere la naspi ed il preavviso non lo faccia pagare alla impresa.
Roberto Nardini
Ma non vi passa per l’anticamera del cervello che il non tornare al lavoro possa essere una scelta di comodo? Eh si, perché lavorare è fatica e stare a casa a crescere i figli è un privilegio. Privilegio che agli uomini non è concesso altrimenti ce ne starebbero parecchi!
Savino
Anche crescere i figli è lavoro e fatica e, se devi recarti al lavoro e non hai un familiare in buona salute e disponibile, chi si occupa di loro, in estate ancora di più? Le istituzioni devono prevedere forme di assistenza e ciò non significa che gli italiani debbono approfittarsene e vedere queste situazioni come privilegio da utilizzare. Per alcune persone e fattispecie, per fare un esempio, meno male che ci sono forme previdenziali di invalidità ed accompagnamento. Sono nel torto quegli italiani che pensano di fare i furbi, approfittando di quegli assegni pur non avendone bisogno, ma lo Stato non per questo deve togliere queste forme di assistenza per chi soffre. Sono gli italiani da colpevolizzare perchè hanno una visione distorta e malandrina del welfare, che, se applicato il giusto, è civiltà.
Dave
Ormai é chiaro mondialmente che l’unico modo per combattere la disuguaglianza di genere non é di attribuire ulteriori bonus alle donne, ma di dare agli uomini uguali condizioni (p.ex. 4 mesi obbligatori di congedo paternità). Questa é una vera misura sociale per avvicinare i padri alla genitorialità, avvicinare le donne fertili o le giovani mamme al mondo del lavoro e anche aiutare la natalità senza dover versare contributi a pioggia.