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Disparità di genere nel mercato del lavoro: come cambiare rotta*

In Italia tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro e tasso di occupazione femminile sono tra i più bassi d’Europa. Una maggiore inclusione delle donne aiuterebbe la crescita economica. Ecco quali politiche potrebbero migliorare la situazione.

Perché studiare l’Italia

Una riduzione dei divari di genere nel mercato del lavoro porterebbe benefici non solo in termini di equità e uguaglianza, ma anche di crescita economica. La questione di genere è infatti prioritaria sia nel dibattito politico sia nelle agende dei ricercatori, come dimostra il recente Premio Nobel per l’economia assegnato a Claudia Goldin, che ha dedicato la sua ricerca a questo tema cruciale (si veda qui e qui).

Il recente rapporto della Banca d’Italia, “Le donne, il lavoro e la crescita economica”, analizza le disparità di genere nel mercato del lavoro italiano sulla base delle evidenze riportate in alcuni lavori di ricerca scritti negli ultimi tre anni dagli economisti della Banca e in relazione alla letteratura esistente.

L’Italia si distingue per avere uno dei tassi più bassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro e il tasso di occupazione femminile più basso nell’Unione europea. È anche il paese con la più alta percentuale di occupazione a tempo parziale involontario tra le donne. Di conseguenza, la crescita economica italiana beneficerebbe fortemente di una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Le stime della Banca d’Italia suggeriscono che, a parità di altre condizioni, un aumento del 10 per cento della forza lavoro – dovuto alla convergenza del tasso di partecipazione femminile italiano al livello attuale dell’Ue – aumenterebbe il Pil di circa la stessa percentuale nel lungo periodo. L’effetto sarebbe ancora maggiore se si tenesse conto dei potenziali guadagni aggiuntivi derivanti dalla conseguente riallocazione dei talenti nell’economia.

Il rapporto identifica tre snodi cruciali per le disparità di genere, su cui concentrare gli interventi di policy.

Scelte di indirizzo di studio e ingresso nel mercato del lavoro

I divari retributivi di genere sono già ampi a solo un anno dal completamento del percorso scolastico. Un lavoro di Bovini, De Philippis e Rizzica, basato su dati amministrativi che collegano le carriere scolastiche e universitarie con gli sbocchi professionali di sette coorti di studenti, rivela che le ragazze, sebbene superino i ragazzi a scuola in termini sia di livello di istruzione sia di risultati scolastici, tendono a selezionare corsi di laurea e indirizzi di studio con rendimenti potenziali peggiori nel mercato del lavoro. La figura 1 mostra i rendimenti potenziali medi (misurati come i guadagni mediani degli uomini nativi che si sono laureati in un dato corso a 5 anni dal conseguimento del titolo) dei corsi scelti da ragazzi e ragazze, a seconda del loro voto finale di diploma. La figura indica che le ragazze scelgono corsi di laurea con rendimenti inferiori rispetto ai ragazzi, e che questa disparità è maggiore per le ragazze con voti più alti alle scuole secondarie di secondo grado. Le differenze nella scelta dei corsi di laurea spiegano da sole il 60 per cento del divario retributivo di genere osservato all’ingresso nel mercato del lavoro tra i laureati.

Figura 1 – Rendimenti potenziali medi dei corsi di laurea scelti da ragazze e ragazzi, per voto di diploma

Fonte: Bovini et al. (2023).
Nota: Campione di laureati di secondo livello o a ciclo unico tra il 2016 e il 2018. Un corso di laurea è una combinazione di istituto e facoltà universitaria. Il rendimento atteso, sia per le ragazze sia per i ragazzi, è misurato dalla retribuzione annua mediana (in migliaia) dei laureati uomini non stranieri a 5 anni dal conseguimento del titolo.

Maternità e conciliazione vita-lavoro

Le disparità di genere all’ingresso nel mercato del lavoro sono persistenti e si ampliano quando le donne diventano madri. Mentre, come in molte altre economie avanzate, la correlazione tra tasso di fecondità e di occupazione femminile in Italia è diventata positiva, riflettendo un miglior equilibrio tra vita lavorativa e privata (come mostrato da un lavoro di Barbiellini Amidei, Di Addario, Gomellini e Piselli), la probabilità che le donne occupate diventino non occupate nei due anni successivi alla maternità raddoppia rispetto a quelle senza figli. Uno studio di De Philippis e Lo Bello mostra infatti che la disparità persiste nel tempo e rimane significativa anche 15 anni dopo il parto. Inoltre, anche per le donne non occupate, la probabilità di trovare un lavoro diminuisce significativamente dopo la nascita di un figlio e rimane più bassa per almeno cinque anni. Ciò contribuisce in modo significativo all’attuale divario di occupazione di genere: secondo le stime degli autori, eliminare la child penalty nei tassi di ingresso e uscita dall’occupazione per le nuove madri aumenterebbe il tasso di occupazione femminile di 6,5 punti percentuali entro il 2040 (cioè chiuderebbe il 38 per cento dell’attuale divario di occupazione di genere). Eliminare la child penalty sia per le nuove madri sia per quelle che hanno già avuto un figlio, e magari lasciato il lavoro, farebbe crescere l’occupazione femminile di 14 punti percentuali già entro il 2030, chiudendo l’85 per cento dell’attuale divario di genere. Un altro studio (Casarico e Lattanzio 2023, si veda anche qui) mostra inoltre che le donne che continuano a lavorare dopo la maternità guadagnano il 40 per cento in meno rispetto alle donne senza figli fino a 15 anni dopo il parto, principalmente a causa di una riduzione delle ore lavorate, attribuibile ad esempio al passaggio a contratti a tempo parziale.

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Figura 2 – Effetti della nascita di un figlio sui flussi di ingresso (destra) e uscita (sinistra) dall’occupazione (child penalty), nel corso del tempo

Fonte: De Philippis and Lo Bello (2023).

Nota: La figura mostra l’evoluzione dei flussi in uscita o in entrata dall’occupazione rispetto all’anno prima della nascita del primo figlio per le donne con figli rispetto a quelle che non hanno figli (assegnando a queste ultime un anno di maternità placebo).

Le norme culturali hanno sicuramente un ruolo importante nello spiegare questi numeri: le child penalties per le madri sono infatti maggiori nelle regioni con una concezione più tradizionale dei ruoli di genere. Tuttavia, alcuni limiti nel sistema italiano di politiche a favore delle famiglie possono aver contribuito a generare questi comportamenti. In particolare, in Italia c’è una disponibilità molto limitata di strutture per l’infanzia rivolte a bambini di età compresa tra 0 e 2 anni; di conseguenza, il tasso di iscrizione ai servizi di assistenza all’infanzia per bambini di 0-2 anni è in Italia uno dei più bassi in Europa (circa il 26 per cento, contro il 33 per cento della media dell’Ue). Inoltre, si riscontra un uso molto limitato dei congedi da parte dei padri. Questo fenomeno dipende non solo da fattori culturali, ma anche dalla scarsa generosità del sistema italiano di congedi per i padri rispetto a quello di altri paesi europei. Secondo l’Ocse, in Italia, solo il 20,5 per cento dei congedi (in termini di settimane equivalenti a tempo pieno) è riservato ai padri; nella Ue la media supera il 30 per cento. Infine, il disegno del sistema di tassazione e dei trasferimenti in Italia – che prevede ad esempio un credito d’imposta per i coniugi a carico – scoraggia l’occupazione delle donne, che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori (si veda Colonna e Marcassa 2013 e un recente studio di Carta e Colonna).

I percorsi di carriera e la sotto-rappresentazione femminile nelle posizioni di vertice

Le donne che rimangono nel mercato del lavoro registrano anche un forte divario salariale rispetto agli uomini, divario che si amplia nel corso della vita lavorativa ed è più marcato tra coloro che guadagnano di più. Le differenze retributive riflettono la forte sotto-rappresentazione delle donne nelle posizioni professionali apicali (il cosiddetto “soffitto di cristallo”). La figura 3 mostra che la quota di donne presenti nei consigli di amministrazione delle aziende italiane, delle banche e delle società pubbliche è aumentata significativamente nell’ultimo decennio, ma solo per le imprese sottoposte all’obbligo di legge relativo alle cosiddette quote di genere (legge 120/2011). Baltrunaite et al., 2022 e Del Prete et al., 2022 mostrano che questi cambiamenti nei consigli hanno portato alcuni benefici, seppure marginali, in termini di performance aziendale (come discusso qui). D’altra parte, vi è scarsa evidenza che politiche simili siano state efficaci nel facilitare la progressione di carriera delle altre donne all’interno dell’azienda (come discusso qui).

Figura 3 – Quota di donne nei consigli di amministrazione

Fonte: Carta et al., 2023.
Note: La linea blu si riferisce alle imprese soggette all’obbligo di introduzione delle quote di genere (legge 120/2011), la linea rossa si riferisce alle imprese non soggette. 

Il soffitto di cristallo osservato nel mercato del lavoro italiano deriva da una combinazione di diversi fattori: le donne, anche a causa delle loro scelte di istruzione, finiscono per lavorare in settori meno produttivi e, all’interno di questi, in imprese che pagano stipendi mediamente più bassi. Secondo Casarico e Lattanzio, (come discusso qui) queste differenze spiegano circa un terzo della differenza salariale media osservata. Inoltre, le donne tendono a cambiare lavoro meno spesso e quando lo fanno ne traggono benefici minori in termini salariali (Di Addario et al., 2023). La inefficiente allocazione delle lavoratrici tra le imprese deriverebbe principalmente da scelte occupazionali improntate al bilanciamento tra i compensi monetari e altre caratteristiche del lavoro, ad esempio una minore distanza da casa o orari di lavoro più flessibili.

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Infine, le donne vengono promosse meno spesso e hanno quindi minore probabilità di raggiungere le posizioni di vertice rispetto ai loro colleghi maschi. Ciò riflette una minore propensione a contrattare le condizioni stipendiali e a rifiutare compiti poco remunerativi, ma anche differenze in altri tratti non cognitivi, come la fiducia in se stesse o le aspirazioni. Queste attitudini non sono innate, ma derivano da norme culturali che influenzano sia il comportamento delle lavoratrici che le reazioni dei datori di lavoro. Come evidenziato da Baltrunaite et al. 2022 (e discusso qui), la presenza di pregiudizi impliciti e stereotipi influenza fortemente la carriera delle donne.

Implicazioni di policy

Affrontare le disparità di genere nel mercato del lavoro italiano richiede un insieme ampio e coordinato di politiche:

1. Contrastare le barriere culturali e gli stereotipi di genere: vi è ormai ampio consenso sul fatto che le ragazze scelgono indirizzi di studio meno remunerativi per via di differenze nelle preferenze che, tuttavia, non sono innate bensì fortemente influenzate dal contesto culturale e sociale. La promozione di modelli di ruolo che propongano figure femminili in ambiti professionali diversi da quelli tradizionali e una maggiore sensibilizzazione sull’esistenza e sull’impatto degli stereotipi impliciti possono essere efficaci nell’incoraggiare le ragazze a scegliere indirizzi di studio anche tradizionalmente dominati dagli uomini.

2. Migliorare le politiche di conciliazione: da un lato, aumentando l’offerta di servizi di assistenza all’infanzia per i bambini piccoli; in questo contesto, un’importante opportunità proviene dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che prevede circa 2,7 miliardi per il potenziamento degli asili nido pubblici. D’altra parte, è molto importante promuovere l’uso dei congedi da parte dei padri, al fine di riequilibrare la ripartizione dei compiti di cura all’interno delle famiglie. Ad esempio, l’introduzione di indennizzi più elevati per i padri, affiancata da campagne di informazione e sensibilizzazione, potrebbe efficacemente incentivare l’utilizzo dei congedi da parte degli uomini.

3. Rivedere il disegno del sistema di tassazione e dei trasferimenti alle famiglie, che deve coniugare gli obiettivi di redistribuzione e di equità con la necessità di non disincentivare l’offerta di lavoro femminile. In quest’ottica, possono risultare efficaci strumenti che prevedano una premialità nel caso in cui le madri lavorino.

4. Promuovere un’organizzazione del lavoro a misura di famiglia: ad esempio, incoraggiando un’organizzazione del lavoro più flessibile che si basi meno sulla presenza fisica in ufficio o offrendo benefit ai dipendenti che includano servizi aziendali di cura per l’infanzia. Anche accrescere la trasparenza riguardo alle disparità di genere all’interno dell’organizzazione – come discusso qui e qui – può ridurre il divario retributivo di genere, migliorando l’allocazione delle donne tra le imprese e aumentando il loro potere contrattuale con il datore di lavoro. La recente direttiva Ue (2023/970) agisce in questa direzione.

5. Rafforzare la presenza femminile nel middle management, anche attraverso l’introduzione di quote: ciò consentirebbe di aiutare le altre donne all’interno dell’organizzazione a raggiungere posizioni di vertice, come indicato in alcuni recenti lavori di ricerca.

*Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o il Sistema europeo di banche centrali. Questo articolo è uscito in contemporanea su VoxEu.

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  1. Giovanni

    Mi ricorda il documentario norvegese Hjernevask.

  2. Mahmoud Abdel

    Risposta: rendendo per tutti i padri obbligatori congedi analoghi a quelli di cui usufruiscono le madri.

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