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Sulla parità di genere l’Italia va piano e poco lontano

L’Italia fa passi indietro nella parità di genere. Secondo i dati del Global Gender Gap Report 2024 complessivamente la forbice tra donne e uomini è da noi del 30 per cento. E se procediamo così serviranno trenta generazioni per colmare le differenze.

I punteggi del Global Gender Gap Report 2024

Mentre in alcuni paesi europei il divario di genere si sta lentamente riducendo, in Italia ciò non avviene. Anzi, l’ultima edizione del Global Gender Gap Report pubblicata l’11 giugno 2024 ha messo in evidenza un arretramento in termini di parità tra uomini e donne. E le prospettive future non sono incoraggianti. Infatti, la scadenza per realizzare gli obiettivi dell’Agenda 2030 si avvicina e il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), istituito per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia del 2020, sembra avere effetti limitati sull’inversione di questa tendenza. Dal 2006 ogni anno il Global Gender Gap Report dà conto dello stato attuale e dell’evoluzione della parità di genere in 146 paesi attraverso quattro dimensioni: partecipazione e opportunità economiche, istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico. Per ogni dimensione viene attribuito un punteggio sulla base di alcuni indicatori. Il progresso nei livelli di partecipazione economica, per esempio, viene calcolato aggregando i dati relativi al mercato del lavoro, come la differenza tra il tasso di partecipazione maschile e femminile alla forza lavoro. Il divario di genere nell’istruzione è quantificato attraverso il rapporto tra la percentuale di donne e uomini che ricevono un’educazione primaria, secondaria e terziaria, e tra i tassi di alfabetizzazione femminili e maschili. Per misurare il gender gap in termini di salute e sopravvivenza si considerano il differenziale nell’aspettativa di vita e il rapporto tra neonati maschi e femmine. Infine, la distribuzione del potere politico tra uomini e donne è valutata analizzando la quota di donne in Parlamento, in posizioni ministeriali e il numero di anni con un capo dello stato donna.

Figura 1

Il Global Gender Gap Report del 2024 mette l’Europa al primo posto tra i cinque continenti per parità di genere, con un punteggio pari a 0,75 (dove 1 rappresenta una situazione di perfetta parità e 0 il massimo divario possibile), in miglioramento rispetto alla prima rilevazione del 2006 (+0,062). Sette dei dieci paesi con i punteggi più alti per parità di genere sono europei, con l’Islanda in cima alla classifica, seguita sul podio mondiale da Finlandia e Norvegia. Tra le dieci economie dove il divario tra uomini e donne è più ridotto troviamo anche la Svezia, la Germania, l’Irlanda e la Spagna.

In questo contesto l’Italia si distingue negativamente. Infatti, perde ancora posizioni rispetto al 2023 e si classifica all’ottantasettesimo posto su 146 paesi a livello mondiale e al trentasettesimo tra i 40 paesi europei. Peggio dell’Italia fanno solo Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia.

I punti deboli dell’Italia

Il punteggio di 0,703 attribuito all’Italia indica che complessivamente la forbice tra donne e uomini italiani è ancora ampia, pari al 30 per cento.

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Tra le quattro dimensioni valutate, il punteggio più basso è assegnato alla categoria relativa all’empowerment politico (0.24). Diversi sono i dati che giustificano la valutazione e che confermano la sotto-rappresentanza femminile nelle posizioni di potere istituzionale e amministrativo in Italia. Attualmente, solo in un quarto delle posizioni ministeriali troviamo donne, una riduzione lieve rispetto al 2023, ma più significativa rispetto a dieci anni fa, quando la presenza femminile era del 30 per cento. In Parlamento la situazione non è molto diversa: circa un terzo dei seggi sono occupati da donne. Alle ultime elezioni si sono insediate 129 deputate e 72 senatrici contro 271 deputati e 135 senatori. Analizzando l’andamento della presenza femminile in politica dalla I alla XVIII legislatura, si nota che sono stati necessari trent’anni e sette legislature per superare la soglia di 50 donne elette in Parlamento. Alla quota di 300 elette – un terzo del totale dei parlamentari – si è arrivati per la prima volta con le elezioni del 2018. Nonostante questi cambiamenti, il divario rimane ancora ampio. Il paragone con altri paesi europei è spiazzante. In Germania, dove secondo il Global Gender Gap Report 2024 il divario di genere in politica si è ridotto del 60 per cento, quasi una posizione ministeriale su due è occupata da una donna (46,7 per cento) e la quota di parlamentari donne è pari al 35,3 per cento. Anche la Spagna è messa decisamente meglio, con una perfetta equità di genere nei ministeri e un divario di soli 11,4 punti percentuali al Parlamento. Complessivamente, la politica italiana è tra le ultime dodici in Europa per parità di genere, tra la Slovacchia e la Bosnia-Erzegovina. Il problema non è da sottovalutare: la sotto-rappresentanza femminile in politica non solo impedisce la nascita di modelli positivi che potrebbero ispirare le nuove generazioni, ma limita anche la diversità di prospettive e soluzioni nel processo decisionale politico, nonché la capacità di rappresentare gli interessi di tutti i cittadini.

Figura 2

Nella categoria relativa alla partecipazione economica e alle opportunità, l’Italia ha per ora chiuso solo il 60 per cento del divario. Rispetto al 2023 è aumentata, seppur di poco, la partecipazione femminile alla forza lavoro (40,7 per cento contro 40,1 del 2023). Lievi progressi rispetto al 2023 si registrano sul fronte dei vertici aziendali, tradizionalmente dominati dagli uomini: la presenza femminile nei consigli di amministrazione è cresciuta dal 38,8 al 42,6 per cento nell’ultimo anno. Rispetto ai primi anni Duemila la situazione è decisamente migliorata, soprattutto grazie agli interventi legislativi. Tra il 2011 e il 2012 la legge “Golfo-Mosca” ha introdotto quote di rappresentanza di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni e delle società quotate, con modalità poi disciplinate dal Dpr 30 novembre 2012, n. 251. Con l’introduzione delle quote di genere è stata stabilita una partecipazione femminile pari a un terzo del totale dei componenti. Successivamente, la percentuale è stata portata a due quinti dalla legge di bilancio 2020 (legge 160 del 2019) e dall’art. 6 della legge 162 del 2021. Prima dell’adozione di queste misure legislative, la presenza femminile si attestava al 7,4 per cento nelle società quotate e all’11,2 per cento nelle società controllate dalle Pa.

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Se la presenza nei board migliora, secondo i dati della Banca Mondiale la percentuale di aziende a proprietà prevalentemente femminile è rimasta stabile all’11,5 per cento, così come la quota di aziende con donne nei ruoli di top manager (15,3 per cento), e la percentuale di legislatori, alti funzionari e dirigenti donne, pari al 28 per cento.

Figura 3

Le prospettive future

Diciotto anni fa, nel 2006, la prima edizione del Global Gender Gap Report assegnava all’Italia un punteggio di 0,696, non distante dal valore conseguito nell’ultima valutazione. Di questo passo il divario di genere in ogni dimensione – economica, politica, sanitaria e educativa – verrà colmato tra circa 763 anni, il tempo di trenta generazioni. Il Pnrr ha definito l’uguaglianza di genere come un obiettivo trasversale, ossia che interessa tutte le missioni. Tuttavia, i dati attualmente disponibili suggeriscono che la parità di genere rimane più un obiettivo formale che sostanziale. Intanto, l’Agenda 2030 per un futuro sostenibile ha fissato obiettivi ambiziosi in tema di uguaglianza tra uomini e donne. In particolare, il target 5.5 mira a garantire la piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership a tutti i livelli decisionali. In altre parole, l’obiettivo è ottenere un punteggio pari a 1 nelle categorie relative all’empowerment politico e alla partecipazione e opportunità economiche nel Global Gender Gap Report 2030. Per raggiungere una vera uguaglianza di genere occorre che le norme sociali che giustificano le disparità tra uomini e donne mutino. È un processo lento, parte di un profondo cambiamento culturale che certamente non si completerà entro il 2030. Ma sarà davvero necessario attendere trenta generazioni prima che il potere politico ed economico siano distribuiti equamente tra uomini e donne? O a un certo punto anche l’Italia premerà sull’acceleratore?

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  1. Savino

    I posti di lavoro continuano ad avere una qualificazione animalesca e primordiale. Non passa neanche per l’anticamera del cervello un cambio di paradigma e ciò ormai è già stato assorbito dalle giovani generazione catechizzate dall’egoismo di quelle precedenti. I posti di lavoro non sono attrezzati per accogliere mamme, ma nemmeno per accogliere giovani in generale. Chi decide di fare l’imprenditore deve tener presente di queste cose e deve rendere conto alla collettività.

  2. bob

    questo rapporto vergognoso è direttamente proporzionale alla capacità di uno Stato di essere laico. Meno laico minore è la forbice.
    Uno Stato può essere definito « laico » quando non fa propria una morale di matrice religiosa (derivata da una fede). In quest’ottica, esso si contrappone allo Stato « clericale », in cui i precetti propri di una fede sono seguiti dallo Stato medesimo e diventano vincolanti per tutti i consociati.
    Aggiungo che basterebbe ripassare un pò la Storia anche recente per comprendere che la convivenza civile non ha nulla a che fare con la fede ( spesso irrazionale e superstiziosa) della religione.
    Al centro del mondo ( illuminismo docet) c’è l’uomo e non un Signore con la barba bianca. Lo Stato in quanto convivenza tra gli uomini deve rispettare qualsiasi libertà di Fede ma non deve essere minimamente influenzata da essa

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