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Quali sono i pericoli dell’autonomia differenziata

Con l’autonomia differenziata non diminuiranno le risorse per il Sud. Preoccupa invece la mancanza di criteri per l’attribuzione delle materie. E il fatto che in futuro a decidere sui finanziamenti sia una commissione paritetica tra governo e singola regione.

Le critiche alla legge Calderoli

Nell’ultima settimana abbiamo assistito a un vivace confronto tra maggioranza e opposizione sulla legge approvata recentemente sull’autonomia differenziata, la n. 86/2024. L’opposizione si è già mobilitata per un referendum abrogativo. Le motivazioni e preoccupazioni sembrano riguardare essenzialmente la possibilità che una parte maggiore di risorse rispetto a quella attuale vada alle regioni del Nord: visto che la legge impone assenza di aggravio per le finanze pubbliche, ciò implicherebbe che diminuiscano i fondi per le regioni del Sud. Un’ attenta analisi della legge, tuttavia esclude questa possibilità, a meno che non si contempli la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge. Se lo facesse, sarebbe ben grave. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni).

Ma i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri, di cui poco si discute. Vediamo i due principali.

Le commissioni paritetiche

Un primo tema riguarda la previsione, contenuta nella legge, di commissioni paritetiche bilaterali che ogni anno, e ciascuna in modo indipendente dall’altra, definiscono in una contrattazione tra stato e la singola regione la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa. Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme.

Per esempio, nel caso in cui si convenga su un aumento del fabbisogno per una particolare funzione attribuita a una particolare regione, questo dovrà essere riflesso nelle risorse da destinare a tutte le altre regioni, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria e dovrà tenere conto anche del vincolo di bilancio nazionale. Come può funzionare un sistema simile con potenzialmente 15 diverse commissioni paritetiche su 15 insiemi differenziati di funzioni su diverse materie? E in realtà, 21, perché da un punto di vista logico si dovrebbero considerare nella partita anche le cinque regioni a statuto speciale (con il Trentino-Alto Adige diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano). Le regioni a statuto speciale hanno funzioni tutte diverse e anche un sistema di finanziamento diverso (le compartecipazioni sono ad aliquota fissa, benché anch’esse partecipino al consolidamento delle finanze pubbliche), ma anch’esse dovranno rispettare i Lep, una volta che questi siano definiti. Come minimo, parrebbe necessaria una struttura nazionale che coordini il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitori la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia.

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Inoltre, come decidono queste commissioni paritetiche? La legge non lo specifica. Ma è rischioso, perché si può ben immaginare che una regione che veda le entrate dalle proprie compartecipazioni superare la spesa per le funzioni devolute resista all’ipotesi di restituirle allo stato, come in teoria dovrebbe fare sulla base della legge. Chi decide in questo caso, lo stato o la regione?

Le materie da affidare alle regioni

Il secondo tema, forse ancora più importante, riguarda l’opportunità di decentrare funzioni nelle ventitré materie potenziali. La teoria economica suggerisce che una politica dovrebbe essere decentrata quando 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi 2) le preferenze dei cittadini residenti sono simili all’interno dei diversi territori, mentre differiscono da un territorio all’altro e infine 3) quando non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale. Ora, anche un rapido sguardo alle materie potenzialmente «decentrabili» dopo la quantificazione dei Lep, che dovrebbe avvenire nei prossimi due anni, suggerisce che ce ne siamo molte che non soddisfano questi criteri e che dovrebbero essere decise a livello nazionale, se non addirittura europeo.

Si pensi ad esempio alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. È chiaro che non si può pensare a una normativa per l’ambiente che sia valida solo all’interno dei confini regionali, se si vuole che sia efficace. Vi sono poi altre materie come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, che hanno tutte pesanti ricadute sul territorio nazionale. Vale soprattutto quando, per la fornitura di un servizio, è necessaria una rete che si estende su tutto il territorio nazionale. In questo caso spezzettare la responsabilità della rete nelle varie regioni potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale.

Ma anche tra le nove materie su cui si è deciso che non sono necessari i Lep e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità. Per esempio, il trasferimento del potere di regolamentazione nel commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, banche di interesse regionale. In un paese con un tessuto economico territorialmente integrato, un’impresa che operi a livello nazionale, magari con diverse succursali nelle varie regioni, si potrebbe trovare ad affrontare situazioni con diversi accordi commerciali con l’estero a seconda della regione ove opera o a differenti normative sulla sicurezza del lavoro e di previdenza complementare. Ciò creerebbe confusione e difficoltà nel raggiungere equilibrate decisioni di investimento. Si potrebbe inoltre innescare un processo di competizione tra regioni, che spinga per esempio alcune ad abbassare gli standard sulla sicurezza sul lavoro o a proporre regolamentazioni più convenienti per attrarre investimenti. Per non parlare degli istituti di credito, dove addirittura dal momento dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V la regolamentazione è in buona parte transitata a livello europeo; non avrebbe molto senso trasferirla a livello regionale. E si potrebbe continuare a lungo.

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Il problema è che la legge non contempla alcun criterio per decidere se ha senso o meno delegare una particolare funzione alle regioni; tutto è demandato alla contrattazione politica tra gli esecutivi, con il Parlamento che si limita ad approvare le intese raggiunte. Il rischio che si decentri troppo e male è dunque molto serio.

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  1. Savino

    Già le materie concorrenti si dà per scontato che siano cedute alla Regioni, ma può non essere così perchè la legislazione è, appunto, concorrente e non regalata dallo Stato alla Regione per una sua sconfitta ai dadi. Poi, in una forma di Stato che non è federale (nemmeno con il rafforzamento del Titolo V) si decide che ciascuna Regione può ottenere delle deleghe in base alla propria morfologia o in base a ciò che garba nel sentiment della propria cittadinanza. Con le intese, infine, si chiede ad organi dello Stato di avallare questa sconfitta alla mercè delle Regioni. Sono tutte forme cavillose per decretare la fine dello Stato repubblicano unitario.

    • Linda sandulli

      Dice semplicemente come stanno le cose. Ma se vogliamo entrare nel presupposto storico ambientale che ha consentito la modifica del titolo V nel 2001 basta ricordare la forte spinta secessionista della Lega e l’illusione della politica di allora di metterla a tacere in quel modo. Miopia del centro sinistra dell’epoca e cinismo associato a ottusità nella lega di adesso

  2. Renzo Risato

    Una difficoltà potrebbe essere superata associando più regioni in unità macroregionali il più possibile omogenee, anche non territorialmente contigue, in modo da avere 3-4 interlocutori con il governo. Non staterelli autonomi ma interlocutori forti in grado di far rispettare le regole comuni. Regole per distribuire le risorse non solo in base alle necessità ma fortemente condizionate dagli indicatori di efficienza amministrativa e fiscale, e correttezza nella spesa pubblica. In modo da premiare il merito e contrastare lo spreco e il voto di scambio.
    Il vantaggio potenzialmente enorme di una riforma di questo tipo potrebbe essere quello di sottrarre lo stato centrale al “ricatto elettorale” volto a ottenere risorse senza merito. Una riforma che non divide ulteriormente il nostro paese, già diviso dalle regole attuali che tollerano, di fatto, l’ inefficienza nell’amministrazione pubblica, lo spreco, l’evasione fiscale, l’assistenzialismo. Una riforma che se migliorata con altre potrebbe unire l’Italia degli onesti.

  3. Franz

    Non dovrebbero esistere ne le regioni ne le province,è un sistema per rubare i soldi e basta, lo stato è uno!!!

  4. bob

    io credo che stiamo facendo ridere il mondo intero. Mi auguro che un residuo di civile società metta al bando questa orda di mediocri per ridare dignità a questo Paese che non conta più nulla ( se non le carezze sulla testa della Meloni di un vecchio Biden )

  5. Davide

    Il sistema italiano è squilibrato. Alcune regioni hanno prerogative che altre non hanno. Non c’è parità di diritti.
    Se vi fa tanta paura l’autonomia differenziata, proponete lo statuto di autonomia speciale alle regioni che lo richiedono. Vedrete che qua in Veneto lo accetteremo immediatamente.

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