Difficile che nel 2025 l’offerta di lavoro riesca a colmare i posti vacanti. Probabile quindi che i livelli dell’occupazione salgano ancora. Ma non è detto che ciò si trasformi in un recupero dei salari reali, perché molti settori sono in crisi.
Due anni di crescita dell’occupazione
Nel corso degli ultimi due anni tutti i paesi europei si sono caratterizzati per aumenti occupazionali particolarmente sostenuti, con risultati sorprendenti soprattutto se si considera la bassa crescita del Pil dello stesso periodo.
I record raggiunti sono stati anche al centro del dibattito politico, con frequenti polemiche fra quanti enfatizzano il rilevante aumento dei posti di lavoro e quanti ne circoscrivono la portata alla luce di altri dati, meno positivi.
Per provare a valutare le condizioni del mercato del lavoro italiano, abbiamo selezionato nel grafico della figura 1 dodici variabili, ponendo a confronto i dati del 2024 con il momento migliore e quello peggiore degli ultimi venti anni: il 2007, subito prima della grande crisi finanziaria, e il 2014, al termine della crisi dei debiti sovrani.
Le variabili sono standardizzate per essere confrontabili negli ordini di grandezza e modificate nei segni in modo che a un valore maggiore corrisponda sempre una situazione migliore.
Il mercato del lavoro in sei dimensioni
Il mercato del lavoro è analizzato guardando a sei dimensioni: l’offerta di lavoro (descritta in base al tasso di attività e alla quota di giovani laureati), la quantità di lavoro (descritta dal tasso di occupazione e dalla quota di lavoratori part-time); gli squilibri fra domanda e offerta (descritti dal tasso di mancata partecipazione, una definizione allargata della disoccupazione, e dal tasso di posti vacanti, che misura i posti di lavoro non coperti per problemi di reperimento di candidati); la qualità del lavoro (descritta dalla quota di lavori a termine e dalle attese delle famiglie sulla disoccupazione, una misura questa della percezione di fragilità delle condizioni del mercato), le condizioni salariali (misurate dal livello dei salari reali e dalla quota di lavoratori il cui contratto non è scaduto) e due indicatori di coesione (i divari – di genere e territoriali – nei tassi di occupazione).
Naturalmente, il set di variabili non è esaustivo dei diversi aspetti, ma la rappresentazione del grafico consente comunque di cogliere come vi siano diversi elementi positivi del nostro mercato del lavoro, ma anche aspetti ancora problematici.
Figura 1 – Il mercato del lavoro italiano: tre anni a confronto
Come si vede, la linea rossa del 2024 in molti casi corrisponde al valore più alto, confermando la fase positiva del mercato del lavoro italiano. La situazione appare invece problematica soprattutto su due variabili: il livello dei salari reali e i posti di lavoro vacanti.
La questione salariale e il mantenimento dei livelli occupazionali
Innanzitutto, la modesta risposta salariale agli aumenti dei prezzi degli ultimi anni è uno dei fattori che secondo diverse analisi hanno concorso a spiegare la vivace crescita occupazionale in Europa. La contrazione del costo del lavoro in termini reali avrebbe favorito quindi la sostituzione di altri fattori produttivi con il fattore lavoro. In generale, nel confronto fra le maggiori economie dell’area euro, l’Italia ha evidenziato dinamiche salariali più basse, determinando così un incentivo alle assunzioni per le imprese, ma anche problemi al potere d’acquisto dei lavoratori.
Un altro aspetto, molto enfatizzato nel dibattito più recente, è rappresentato dal cosiddetto “labour hoarding”. Con tale espressione ci si riferisce all’esigenza avvertita dalle imprese di preservare il capitale umano di cui dispongono, evitando in tutti i modi che venga disperso, anche al costo di tenere una quota di personale sottoutilizzato in alcuni periodi. La strategia si spiega solitamente con i costi di selezione di nuovo personale e con l’incertezza riguardo alla disponibilità sul mercato di figure che siano in possesso delle competenze ricercate.
Il labour hoarding è stato un fenomeno molto diffuso nel corso della pandemia. In quel periodo questo comportamento ha assunto dimensioni del tutto straordinarie, che si spiega anche con le misure di sostegno introdotte dai governi, che hanno promosso l’ampio utilizzo dei cosiddetti schemi di lavoro a orario ridotto, rendendolo dunque poco costoso per le imprese.
I posti vacanti
Nel periodo di uscita dalla pandemia il labour hoarding si è ridimensionato. Tuttavia, le imprese hanno continuato ad adottare strategie conservative degli staff con un andamento dell’occupazione che è rimasto crescente anche nei settori dell’industria caratterizzati da riduzioni dei livelli produttivi. L’ipotesi interpretativa del labour hoarding potrebbe quindi rendere conto di tali andamenti in presenza di un mercato del lavoro molto stretto e segnato da diffuse difficoltà di reperimento di manodopera.
Le difficoltà sono state accentuate, per un certo periodo, anche dalla riduzione dell’offerta di lavoro indotta dalla stessa pandemia (che ha limitato soprattutto la mobilità dei lavoratori, in particolare con effetti sui flussi migratori) in una fase in cui le riaperture richiedevano in alcuni settori di riorganizzare in tempi brevi gli organici delle imprese.
Non a caso sono emersi in quel periodo in molti paesi dei problemi di scarsità di manodopera, segnalati da diversi indicatori, come per l’appunto il tasso di posti vacanti misurato dall’Istat. Anche altri indicatori puntano nella stessa direzione: ad esempio, la percentuale di imprese che segnalano ostacoli alla produzione per scarsità di manodopera, soprattutto nei settori dei servizi. La presenza di posti vacanti è un dato negativo alla luce del basso tasso di occupazione dell’economia italiana.
L’aumento del tasso di posti vacanti rappresenta in genere un andamento coerente con quello del tasso di disoccupazione: fra le due variabili esiste una relazione inversa comunemente descritta attraverso la cosiddetta “curva di Beveridge”. I dati del periodo della pandemia avevano mostrato un irrigidimento della curva, una situazione che solitamente descrive un peggioramento del funzionamento del mercato del lavoro. Nel corso dell’ultimo anno, il tasso di posti vacanti ha iniziato a ridursi contemporaneamente a un tasso di disoccupazione in flessione, configurando quindi un miglioramento delle condizioni generali del mercato del lavoro.
Figura 2
I problemi di scarsità di manodopera hanno quindi iniziato ad attenuarsi, ma ancora vi sono diverse figure professionali per le quali vi sono difficoltà di reperimento, soprattutto nei comparti della ristorazione, in quello alberghiero e nella sanità.
Ricerca di nuove competenze e pensionamenti
Dal punto di vista dei livelli occupazionali, è probabile che le strategie delle imprese in questa fase siano ancora orientate da aspettative di fabbisogni professionali futuri relativamente elevati. Tali aspettative possono essere ricondotte a due aspetti: il primo è rappresentato dalla necessità di modificare la struttura occupazionale, introducendo nuove competenze; il secondo dalle esigenze di sostituzione di personale prossimo all’età di pensionamento.
Sul tema delle nuove competenze, sono in corso cambiamenti significativi legati a importanti innovazioni nei processi di produzione: la transizione ambientale e quella digitale avrebbero generato in una prima fase l’esigenza di figure con nuove qualifiche, senza necessariamente innescare processi di sostituzione della forza lavoro già presente della stessa entità. Poiché gli investimenti legati ai cambiamenti guardano al lungo periodo, una quota delle nuove assunzioni sarebbe legata a esigenze che non si modificano in maniera sostanziale con l’alternarsi delle fasi del ciclo economico. Basta pensare a tutti i lavoratori con livelli di istruzione elevati nelle discipline Stem, rispetto alle quali le imprese italiane, ma anche il settore pubblico, evidenziano forti ritardi.
La questione demografica è legata invece al fatto che le coorti prossime all’uscita dal mercato del lavoro per sopraggiunti limiti dell’età di pensionamento sono molto ampie. Le imprese si starebbero quindi preparando a fronteggiare queste uscite, iniziando percorsi di affiancamento dei nuovi assunti, proprio in previsione di una riduzione spontanea degli organici nei prossimi anni. D’altra parte, sempre per ragioni demografiche, le coorti dei giovani all’ingresso nel mercato del lavoro si sono ridotte, rendendo più difficile la sostituzione dei lavoratori anziani.
In definitiva, le tendenze degli ultimi anni suggeriscono politiche delle imprese che in tutti i paesi avrebbero portato i livelli occupazionali su valori superiori a quelli necessari per le esigenze della produzione, nella previsione di potere andare incontro a limiti futuri nella disponibilità di manodopera. Naturalmente, resta il fatto che i limiti si stanno già manifestando, come suggerisce l’indicatore dei posti vacanti, e potrebbero anche allargarsi in futuro.
È quindi difficile stabilire se tutti i lati del grafico della ragnatela si muoveranno verso l’esterno nel 2025, un anno che sarà ancora segnato da forti incertezze sulla capacità dell’offerta di lavoro di colmare i posti vacanti, aumentando così ulteriormente i livelli dell’occupazione, mentre allo stesso tempo nulla garantisce che la disoccupazione più bassa spinga verso un recupero dei salari reali, alla luce delle difficoltà che pesano su da diversi settori, soprattutto manifatturieri.
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