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Referendum sulla cittadinanza: un ritorno al passato per andare avanti

La vittoria del “sì” nel referendum sulla cittadinanza ripristinerebbe una norma del 1912. Per la politica migratoria dell’Italia sarebbe però un passo avanti. Favorirebbe l’integrazione degli immigrati e aiuterebbe a contrastare l’inverno demografico.

Un bel salto indietro negli anni

L’8 e 9 giugno i cittadini italiani saranno chiamati a votare su cinque quesiti referendari. Uno di questi (il quinto, scheda gialla) propone di abrogare la lettera (f) dell’articolo 9, comma 1, della legge 91 del 5 febbraio 1992 su “Nuove norme sulla cittadinanza”. L’abrogazione della lettera – che prevede che la cittadinanza italiana possa essere concessa “allo straniero (extra-Ue) che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica” – riporterebbe in vigore parte dell’articolo 4 della legge n. 555 “Sulla cittadinanza italiana” del 13 giugno 1912, secondo cui la cittadinanza può essere concessa (e per decreto reale) “allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel Regno”.

Detto così sembra un po’ una follia. Un anacronismo che ci riporterebbe ai tempi in cui l’Italia era una monarchia. Di fatto, il successo del “sì” nel referendum ridurrebbe il requisito minimo di residenza legale e ininterrotta necessario ai cittadini stranieri non comunitari per potere presentare domanda di ottenimento della cittadinanza italiana da dieci a cinque anni. E questo sarebbe un esito auspicabile e tutt’altro che folle, per molti motivi.

Un quadro normativo datato

Esperti e commentatori della realtà migratoria italiana sono pressoché tutti d’accordo sul fatto che l’Italia avrebbe bisogno di un quadro normativo aggiornato e attuale che definisca la sua politica migratoria, esattamente come avviene negli altri paesi europei. Invece, da noi, di immigrazione si discute continuamente, ma si riforma pochissimo: tanto rumore per nulla.

Una rapida visita sul sito del ministero dell’Interno alla pagina relativa alla disciplina degli ingressi mostra che “La normativa di riferimento sull’immigrazione e la condizione dello straniero è il Testo unico sull’immigrazione”. Si tratta di una legge del 1998 (n. 286),  la cosiddetta Turco-Napolitano, varata durante il primo governo Prodi, che istituì il sistema dei decreti flussi che regola tuttora gli ingressi (o presunti tali) di lavoratori stranieri in Italia. Il governo Berlusconi II approvò nel 2002 una legge di parziale modifica del sistema – la “Bossi-Fini” (n. 189) – che irrigidiva alcuni aspetti e inaspriva alcuni elementi sanzionatori della Turco-Napolitano, ma ne manteneva intatto l’impianto generale.

Cosa è successo dopo il 2002? Si sono succeduti altri undici governi, ci sono state numerose sanatorie e tanta decretazione d’urgenza (spesso inutile), ma nessuna seria riforma.

Per la legge della cittadinanza, occorre andare ancora più indietro nel tempo, arrivando a una legge del 1992, che riformò, appunto, la legislazione che risaliva al 1912. Nei primi anni Novanta in Italia risiedevano circa 600mila cittadini stranieri, il numero è quasi decuplicato nel frattempo, arrivando agli attuali 5.4 milioni di stranieri residenti, ma le regole sulla cittadinanza non sono state riviste. Poiché sono mancati concreti passi avanti nella legislazione migratoria, siamo alla situazione paradossale per cui ritornare a una normativa del 1912, riducendo il requisito di residenza minima a cinque anni, permetterebbe all’Italia di fare passi avanti nella direzione presa da altri paesi europei: la legislazione italiana verrebbe modificata per tenere conto che ormai da anni siamo saldamente un paese di immigrazione, non uno di emigrazione.

In effetti, come segnalato più volte su lavoce,info – anche da noi in un articolo dello scorso anno – l’Italia è tra i paesi europei che richiede il più alto numero di anni di residenza per potere accedere alla naturalizzazione. Non solo, mentre nel corso degli ultimi trent’anni molti paesi europei hanno gradualmente abbassato il numero minimo di anni di soggiorno necessari per potere presentare la domanda di naturalizzazione, in Italia nulla è cambiato.

Come si vede nella figura 1, tra i paesi dell’Europa occidentale, solo Austria e Spagna prevedevano nel 2024 almeno dieci anni di residenza per l’accesso alla cittadinanza. Nel 1992, il numero era ben più alto. Da allora, però, la maggior parte dei paesi ha gradualmente abbassato il requisito, di pari passo con l’aumento della popolazione straniera e con la necessità quindi di integrarla anche politicamente. Peraltro, la riduzione progressiva del requisito minimo di residenza è stata spesso accompagnata dall’aggiunta di altre condizioni, quali la conoscenza della lingua e della cultura del paese di residenza e alla dimostrazione di un soddisfacente inserimento economico e sociale – previste anche in Italia. La diffusione dei requisiti complementari rende più selettivo l’accesso alla cittadinanza, ma ha anche un effetto incentivante.

Gli effetti economici della naturalizzazione

La riduzione del tempo necessario per potere presentare domanda di naturalizzazione potrebbe avere effetti positivi per l’integrazione socio-economica dei migranti, e in particolare proprio di quelli che hanno inizialmente più problemi. La letteratura economica e politologica ci fornisce diversi casi studio, nei quali i ricercatori hanno potuto identificare l’effetto causale della naturalizzazione sull’inserimento economico dei migranti. Per esempio, in Svizzera, fino al 2003 le domande di naturalizzazione erano sottoposte a referendum comunale. Un gruppo di ricercatori ha confrontato gli esiti occupazionali di immigrati che avevano superato di poco la soglia del 50 per cento dei voti favorevoli con quelli che l’avevano mancata. I due gruppi avevano caratteristiche simili e redditi comparabili prima del voto, ma solo il primo aveva ottenuto la cittadinanza. Negli anni successivi, i naturalizzati hanno visto mediamente crescere il proprio salario, a differenza di chi era rimasto escluso dalla cittadinanza. L’effetto è più marcato per i migranti più marginalizzati, per esempio soggetti a discriminazione etnica o religiosa.

Un altro esempio viene dalla Germania: i ricercatori hanno analizzato due riforme della legge sulla cittadinanza tedesca che nel 1990 e nel 2000 hanno ridotto da quindici a otto anni il requisito di residenza, con effetti variabili in base all’età di arrivo. La riduzione del periodo minimo ha aumentato l’occupazione e i salari tra le donne immigrate, in particolare quelle provenienti dai paesi extra-Ue più poveri; gli uomini, invece, hanno beneficiato meno della riforma. Infine, in una nostra recente ricerca – di cui avevamo già parlato su lavoce.info – su oltre 100mila lavoratori immigrati provenienti da venti paesi europei (1965–2021), abbiamo mostrato che la cittadinanza aumenta significativamente l’occupazione e la qualità del lavoro tra i rifugiati, un gruppo particolarmente vulnerabile, mentre l’effetto è più contenuto tra i migranti economici. Nel complesso, questi studi – pur diversi per contesto e metodologia – convergono sull’esistenza di un effetto causale positivo della naturalizzazione sull’integrazione economica, in particolare per chi si trova inizialmente in condizioni svantaggiate. Per gli immigrati già ben inseriti, l’impatto appare più limitato o assente.

Un vantaggio per l’Italia, non solo per gli immigrati

Semplificare le regole di accesso alla cittadinanza per i cittadini stranieri che vivono e lavorano in Italia – senza imporre lunghissime attese (i dieci anni previsti sono una durata minima, che spesso si prolunga per qualche altro anno a causa della presenza degli altri requisiti e dei ritardi burocratici) – va certamente nella direzione di migliorare le loro condizioni di vita e il loro benessere. Ma nel favorire la loro integrazione economica, ne guadagna anche il paese che ha un bisogno estremo di più lavoratori e di più contributi pensionistici per contrastare la morsa dell’inverno demografico (l’invecchiamento della popolazione), come mostrato da un recente studio della Banca d’Italia. Non c’è bisogno di essere empatici con gli immigrati per scegliere di votare “sì” al referendum. Un voto puramente egoistico andrebbe comunque nella direzione giusta.

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  1. Fabrizio Merli

    Ho purtroppo letto un gran pastrocchio di concetti:
    1) TUTTI i rifugiati in Italia (titolari di status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra riconosciuto) già ora possono richiedere la cittadinanza italiana dopo soli 5 anni di regolare residenza. Gli apolidi pure da subito
    2) NESSUN beneficio in merito al mercato del lavoro dipendente (quanto collegabile a contributi pensionistici da “inverno demografico”) è dato dall’ottenimento della cittadinanza italiana rispetto al permesso di soggiorno di lungo periodo. Studi rilevano che i cittadini naturalizzati guadagnano di più di chi non lo è? Studi rilevano anche che gli anziani guadagnano più dei giovani: aumentiamo gli anni anagrafici ai giovani così guadagneranno di più… mi sembra lapalissiano.
    3) i requisiti complementari per ottenere la cittadinanza da stranieri residenti in Italia sono una barzelletta (Italiano livello B2? For real? Forse Suarez quando doveva firmare per la Juve lo padroneggiava meglio)
    4) il vero lato negativo nel dare la cittadinanza a chi già è inevitabilmente da anni residente e regolare soggiornante è l’impossibilità dell’espulsione in caso venga condannato per reati. Incredibile come si sottovaluti sempre l’inespellibilità in caso di reati quale unica vera differenza tra l’essere burocraticamente cittadino del Paese in cui si risiede oppure no.

    • flavio

      La normativa non garantisce alcun “diritto certo” alla cittadinanza per rifugiati o apolidi dopo 5 anni: si tratta di una facoltà discrezionale dello Stato, non di un automatismo, e le pratiche spesso incontrano ostacoli amministrativi significativi.
      Il paragone sarcastico con “aumentare l’età dei giovani per farli guadagnare di più” è fallace: non si tratta di mera correlazione con l’età, ma di effetti causali reali, analizzati attraverso metodi statistici avanzati. L’ottenimento della cittadinanza è correlato in modo causale e significativo con un miglioramento delle condizioni lavorative. Il beneficio non è solo simbolico, ma OGGETTIVAMENTE economico, sociale e strutturale.
      I requisiti linguistici richiesti (livello B1) sono perfettamente in linea con gli standard europei. La loro banalizzazione è fuorviante e denota solo superficialità.
      L’inespellibilità non è un “problema”, ma un principio di diritto fondamentale. Le pene si scontano nel proprio Stato: l’espulsione non è né può essere uno strumento di giustizia penale in uno Stato di diritto.
      Mettetevelo in testa: oltre ad avere un bisogno disperato di persone disposte a diventare parte attiva del capitale umano di questo Paese, l’immigrazione non è una novità. C’è sempre stata e continuerà ad esserci, indipendentemente dalle vostre lagne paleo-fascistoidi. L’unico modo per gestirla in modo efficace è una politica attiva e dinamica, che dia a chi lo desidera la possibilità di mettersi in gioco e contribuire alla crescita e al benessere collettivo.

      Le alternative sono due:

      Continuare in questo limbo dove i migliori e i più volenterosi se ne vanno, perché non hanno alcuna intenzione di continuare a farsi prendere a pesci in faccia da un Paese che non offre loro possibilità di riscatto sociale, ostaggio di cafoni xenofobi con il risultato naturale che ne consegue: questi se ne vanno in Paesi più civili, mentre restano clandestini e disgraziati, privi di prospettive, che finiscono per sopravvivere nella marginalità, contribuendo alla criminalità e al degrado.

      Sigillare le frontiere, con un dispendio insostenibile di risorse, fino al default, per poi essere comunque sopraffatti dalla realtà: una massa crescente di persone continuerà a spostarsi, sempre di più, perché la mobilità umana non si ferma con le fantasie securitarie, ma si governa con intelligenza e visione politica lungimirante e in continua evoluzione.

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