Non sono pochi i pensionati che decidono di continuare a lavorare. Chi sono e perché lo fanno? Per i più giovani il lavoro post-pensionamento è spesso legato a pensioni modeste, per i più anziani è favorito da buone condizioni economiche e professionali.
Chi lavora dopo la pensione
In un’Italia che invecchia e in cui la sostenibilità del sistema pensionistico è sotto pressione, c’è un fenomeno in crescita che merita attenzione: i pensionati che scelgono di restare attivi sul mercato del lavoro.
La nostra analisi, estensivamente discussa anche nel XXIV Rapporto annuale Inps e basata su un campione di circa 124mila pensionati con decorrenza del trattamento nel 2021 o 2022, rivela che, a un anno dal pensionamento, ben l’8,5 per cento di loro è attivo nel mercato del lavoro. Tuttavia, dietro la media si nasconde una forte eterogeneità: se nel settore pubblico solo lo 0,9 per cento dei pensionati risulta attivo, la quota sale al 21,6 per cento tra gli ex lavoratori agricoli e al 27,4 per cento tra coloro che provengono da casse professionali autonome come Enpam. Anche tra gli ex-artigiani e commercianti l’incidenza è elevata (19,2 per cento), così come tra i lavoratori parasubordinati (9,5 per cento), per i quali la transizione verso il lavoro autonomo appare più frequente. A rientrare più spesso nel mercato del lavoro sono dunque coloro che hanno svolto attività autonome, grazie a una maggiore flessibilità nel rientro e a causa di una contribuzione media più ridotta rispetto ai lavoratori dipendenti, in cui non sono da trascurare gli sgravi contributivi fino al 50 per cento per artigiani, commercianti e lavoratori agricoli (legge 449 del 27/12/1997) che decidono la prosecuzione dell’attività.
Tabella 1 – Pensionati 2021-2022: quota attiva nel mercato del lavoro nell’anno successivo

Il tipo di attività svolta mostra un certo grado di persistenza: il 79 per cento degli ex artigiani e commercianti rimane nello stesso settore, così come l’85 per cento degli ex agricoli; tra i liberi professionisti, molti passano a ruoli da dipendenti (66 per cento, verosimilmente come consulenti) o ad attività commerciali.
Perché si continua a lavorare
La letteratura scientifica in materia di unretirement, come è chiamato il fenomeno del re-impiego post-pensione, è piuttosto concorde nel definire la prevalenza delle motivazioni di tipo personale rispetto a quelle di ordine economico, in merito alla scelta di reimpiegarsi dopo la pensione.
Ad esempio, secondo Nicole Maestas, la decisione di reimpiegarsi dopo la pensione viene nella maggioranza dei casi pianificata a priori e non in conseguenza di imprevisti shock finanziari negativi, mettendo in secondo piano le motivazioni prettamente economiche. Anche secondo Bettina Falckenthal e coautori, le motivazioni prettamente economiche della scelta di reimpiego restano sullo sfondo, in favore di aspetti legati a ragioni personali come la volontà di raccogliere nuove sfide intellettuali, mettere a frutto l’esperienza raccolta, compensare la perdita di un certo status sociale raggiunto o il contrastare la percezione pubblica che si ha dei pensionati.
Del resto, sembra difficile non scorgere forti motivazioni di carattere personale, sociale, professionale e relazionale tra coloro che a fronte di una carriera lavorativa che in media conta 1931 settimane (poco più di 37 anni), optano per la prosecuzione dell’attività lavorativa.
Chi guadagna di più
Al di là delle analisi sulle motivazioni sottostanti alla scelta, resta comunque interessante chiedersi in che misura e con quali differenze tra categorie di lavoratori la convenienza economica incida sulle scelte di re-impiego.
Nella tabella 2 sono riportate le mediane di rapporti che sintetizzano la situazione reddituale e di tempo di lavoro della transizione tra pensionamento e reimpiego. Il primo indicatore è il rapporto tra il reddito da lavoro post-pensione e la pensione maturata; il secondo è il rapporto tra le settimane di contribuzione nell’impiego pre e post-pensione; il terzo è il rapporto tra la somma dei redditi percepiti dai lavoratori/pensionati rispetto all’ultimo reddito da lavoro precedente al pensionamento. La prima colonna mostra una certa polarizzazione dei valori: considerando il solo reddito da lavoro post-pensione, le gestioni riconducibili al lavoro autonomo sembrano presentare un maggiore indice di redditività rispetto agli ex dipendenti dei settori pubblico e privato.
Il dato riproduce la dinamica, già presentata in tabella 1, sulle quote di pensionati attivi per gestione pensionistica. Tuttavia, se consideriamo tutti i redditi percepiti dai lavoratori/pensionati (colonna 3) rileviamo non solo una forte riduzione dell’eterogeneità tra le diverse gestioni (le quali superano tutte il 100 per cento rispetto al livello dell’ultimo reddito da lavoro prepensionamento) ma notiamo come gli ex dipendenti – sia pubblici che privati – riescano a raggiungere valori di redditività simili a quelli degli autonomi, pur con un numero di settimane lavorate decisamente inferiore (colonna 2). Mentre agricoli, artigiani e commercianti e professionisti continuano a lavorare lo stesso numero di settimane anche dopo la pensione, per i dipendenti privati ne sono sufficienti circa la metà per raggiungere lo stesso livello relativo di reddito complessivo. Se si considera il reddito complessivo, dunque, sembrerebbe che la gestione pensionistica di partenza sia un fattore non secondario nella scelta della combinazione tempo-reddito che possa massimizzare il benessere dei pensionati-lavoratori.
Tabella 2 – Pensionati/lavoratori 2021-2022: indici di redditività e intensità di lavoro

È anche quello che emerge analizzando l’intensità dell’attività lavorativa: le settimane retribuite un anno dopo il pensionamento rappresentano in mediana il 100 per cento (mediamente sono l’85 per cento di quelle precedenti). Non si tratta quindi di lavoretti occasionali, ma di un proseguimento quasi lineare della carriera, magari in forma ridotta ma con un impegno continuativo e stabile.
Le differenze tra pensionati “giovani” e “più anziani”
Ma chi sceglie davvero di continuare a lavorare? E cosa incide sulla probabilità di farlo? La combinazione tra età al pensionamento e importo della pensione gioca un ruolo chiave. Un modello logit consente di stimare la probabilità di restare attivi in base a questi due fattori. Il risultato è sorprendente: tra i pensionati più giovani (meno di 64 anni), chi ha una pensione bassa ha una probabilità lievemente superiore di continuare a lavorare rispetto a chi ha trattamenti più elevati, segno che in questa fascia la spinta economica può avere un ruolo importante. Ma con l’aumentare dell’età, il meccanismo si inverte: tra chi si pensiona dopo i 70 anni, la probabilità di proseguire nel lavoro è significativamente più alta (oltre 1,5 punti percentuali) per chi ha pensioni medio-alte rispetto a chi ha pensioni basse. In questo caso, la prosecuzione sembra legata a migliori condizioni socioeconomiche, maggiore capitale umano, ruoli professionali meno faticosi e più flessibili, tipici del lavoro autonomo o della consulenza.
Grafico 1 – Probabilità stimata di rientro nel mercato del lavoro per età di pensionamento e fascia di pensione

I riflessi sull’aumento dell’età di pensionamento
Questi risultati portano a una conclusione importante: mentre tra i pensionati più giovani il lavoro post-pensionamento è spesso una risposta a pensioni modeste, tra quelli più anziani è una scelta facilitata da condizioni favorevoli, economiche e professionali.
In entrambi i casi, tuttavia, il lavoro dopo la pensione si configura come una realtà strutturale del nostro sistema, che merita attenzione non solo in chiave previdenziale, ma anche sotto il profilo del mercato del lavoro e dell’invecchiamento attivo. Serve quindi una riflessione più ampia su come sostenere chi vuole o deve continuare a lavorare oltre l’età pensionabile, anche in termini di regole, incentivi e tutela.
È bene riflettere, tuttavia, su come le politiche pensate per sostenere il lavoro post-pensionamento possano interagire con l’aumento, già avvenuto e ancora atteso, dell’età di pensionamento. In questo contesto, diventa essenziale, da un lato monitorare le reali probabilità di re-inserimento in età più avanzata e rafforzare le tutele in materia di sicurezza sul lavoro per coloro che scelgono di proseguire, soprattutto se dipendenti. Dall’altro, occorre tenere alta l’attenzione sui meccanismi di turnover tra pensionamenti e nuove assunzioni, considerando che una parte, ancorché ridotta, delle “nuove entrate” riguarda in realtà lavoratori della vecchia guardia.
* Le opinioni espresse sono da attribuire esclusivamente agli autori e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza.
L’articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.
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Savino
E’ un fenomeno da combattere. Non mi pare economicamente normale che ci sia una generazione che specula più che può, a fronte della situazione dei NEET. Rimangono al lavoro, banalmente, perchè, senza fare nulla di faticoso, continuano a guadagnare tanto, ma restano un peso improduttivo per il sistema Paese. Produttività è anche fatica, cari signori, e oltre 43 anni di qualsiasi lavoro dovrebbero pesare.