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Separati in banca

I problemi posti dall’intreccio tra istituti di credito e imprese riguardano essenzialmente la possibilità di un eccessivo trasferimento del rischio finanziario sugli investitori. Ma le misure di riforma fin qui ipotizzate non sembrano cogliere appieno l’essenza del problema, mentre introducono distorsioni alle scelte del mercato. Andrebbe invece rafforzata la concorrenza nel settore del credito, migliorata la trasparenza sulle attività di finanziamento e introdotto il divieto di vendita al pubblico per un determinato periodo di tempo di titoli collocati a investitori professionali.

Le proposte di riforma del quadro normativo del sistema finanziario che emergono a seguito delle recenti crisi societarie (Cirio, Parmalat) danno una particolare enfasi ai rapporti banca-impresa.

Viene riproposta la questione di definire nuove regole volte a garantire la loro “separatezza”.

In questa direzione va la proposta di legge La Malfa – Tabacci, ma anche le anticipazioni sul disegno di legge del ministro dell’Economia “Provvedimenti per la tutela del risparmio”.
Entrambi introducono il divieto per un’impresa indebitata in misura superiore a determinati limiti verso una banca, di partecipare alla vita societaria di tale banca. Prevedono perciò la sospensione degli eventuali diritti di voto detenuti dall’impresa nella banca e l’impossibilità per i soggetti che svolgono nell’impresa funzioni di amministrazione, direzione e controllo a svolgere analoghe funzioni nella banca creditrice.

La legge bancaria del 1936

Anche negli anni Trenta, si individuò nei rapporti banca-impresa una delle cause principali delle drammatiche crisi societarie di allora e si procedette alla costruzione di una regolamentazione basata sul principio di una rigida separazione.
Si era infatti creato un intreccio tra partecipazioni azionarie delle banche nelle imprese e l’attività di finanziamento di quelle banche verso quelle stesse imprese che determinava problemi di stabilità. Della singola banca e dell’intero settore: le banche infatti erano indotte a finanziare in maniera eccessiva le imprese di cui detenevano le azioni per evitare il rischio di fallimento. Il rischio era che le banche compromettessero il loro equilibrio patrimoniale. Da un lato attraverso l’accumulazione di crediti inesigibili per importi estremamente rilevanti; dall’altro, per la perdita di valore delle partecipazioni detenute nelle stesse imprese.

Nella efficace sintesi di Donato Menichella, le banche erano portate a “finanziare, finanziare e continuare a finanziare il dolo o il marcio solo perché non si possa diffondere il sospetto che le condizioni della banca siano meno floride”. (1)
Ne poteva derivare la compromissione della “copertura” dei depositi bancari delle banche, con effetti di contagio al sistema bancario e all’intero sistema economico. Le regole di separatezza erano quindi volte principalmente a proteggere i depositanti, tramite la tutela della stabilità delle singole banche.

Il divieto per le banche di detenere partecipazioni in imprese non bancarie, insieme alla separazione dell’attività di credito a breve termine da quella di credito a medio lungo termine e alle attività di merchant banking, rispondeva allo scopo di interrompere il circolo vizioso che era alla base dell’instabilità.

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La crisi attuale

Profondamente diversa è la situazione che si è andata determinando con la riforma degli anni Ottanta e Novanta , culminata nel Testo unico bancario del 1993. Ha abolito le vecchie regole di separatezza, ma ha lasciato alla Banca d’Italia il potere di autorizzare l’acquisizione di partecipazioni rilevanti nelle banche da parte di soggetti non bancari.
I problemi che l’intreccio tra banche e imprese, nella nuova versione, sta provocando riguardano essenzialmente la possibilità di un eccessivo trasferimento del rischio finanziario sugli investitori.
Le banche possono essere indotte a favorire un massiccio collocamento di titoli di debito presso il pubblico sia per ridurre la loro esposizione creditizia nei confronti di una impresa poco affidabile, sia per i maggiori vantaggi di percepire le commissioni sul collocamento (elevate, certe e immediate) rispetto agli interessi su un credito (contenuti da una maggiore concorrenza nel mercato del credito rispetto a quello dei collocamenti, incerti e differiti nel tempo). Parafrasando la frase di Menichella, in tale situazione si presenta il rischio che le banche siano portate a “Collocare, collocare e continuare a collocare…”.
Tali problemi sono in parte “strutturali“, in quanto dipendono dalla natura polifunzionale delle attività svolte dalle banche. In parte, possono però essere esasperati da particolari legami tra banche e imprese che possono spingere le prime a finanziare le seconde in misura maggiore di quanto sarebbe in linea con le fisiologiche politiche di credito.

Verso una nuova regolamentazione dei rapporti banca-impresa

Le proposte attualmente sul tappeto si basano sul presupposto che il finanziamento eccessivo possa essere indotto, o almeno mantenuto, dalla influenza che le imprese possono avere sulle decisioni delle banche attraverso la loro partecipazione al capitale o agli organi di governo delle banche stesse.
Di qui la previsione del divieto di esercitare tali forme di partecipazione per le imprese indebitate in misura rilevante con una banca.
Si possono però avanzare alcune osservazioni.
La prima è sulla logica interna delle proposte. Se il nesso causale che si intende interrompere è quello tra il potere dell’impresa nel governo della banca e la decisione di quest’ultima di finanziare eccessivamente l’impresa, i divieti proposti rischiano di essere strutturalmente in ritardo rispetto all’evento che si voleva evitare.
Sarebbe pertanto più coerente vietare alle banche di finanziare, in misura superiore a determinati limiti, le imprese che abbiano un ruolo rilevante nella governance della banca (le disposizioni attuali sono molto blande). (2)

Una seconda osservazione riguarda la dipendenza dei divieti dalla individuazione di una soglia di indebitamento “eccessivo”: ciò comporta, da un lato, un effetto soglia, cioè una probabile concentrazione delle situazioni a livelli immediatamente inferiori al limite stabilito. Dall’altro, una spinta alla diversificazione delle fonti di finanziamento bancario, rafforzando la tendenza al pluriaffidamento. Con possibili conseguenze negative sulla funzione di monitoring svolta dalle banche.
Infine, il principale interesse pubblico che si dovrebbe tutelare è quello di evitare un improprio spostamento del rischio di credito dalle banche agli investitori. Questo appare solo in parte legato a possibili influenze dell’impresa sulle scelte della banca attraverso gli strumenti di governo societario che si intendono sterilizzare. Si tratta infatti di un fenomeno limitato: le banche quotate nelle quali imprese italiane detengono partecipazioni rilevanti (superiori al 2 per cento del capitale) sono undici su un totale di trentacinque e solo in cinque casi tali imprese partecipano anche a patti di sindacato.
In conclusione, la strada dei divieti ipotizzati dalle proposte di riforma non sembra cogliere appieno l’essenza del problema, introducendo d’altro canto distorsioni alle scelte del mercato.

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È invece possibile pensare a un sistema di interventi con misure che:

– rafforzino la concorrenza nel settore del credito, evitando comportamenti collusivi tra le banche che consentano di tollerare fenomeni di overfinancing
– migliorino la trasparenza sulle situazioni di conflitto di interesse delle banche, prevedendo ad esempio una piena disclosure di tutte le attività di finanziamento a parti correlate (quindi a soggetti che partecipano al loro governo societario)
– aumentino la tutela degli investitori nella diffusione di obbligazioni, introducendo ad esempio il divieto di vendita al pubblico per un determinato periodo di tempo di titoli collocati a investitori professionali (la rule 144 dell’ordinamento statunitense).

 

(1) Donato Menichella “Il riordinamento del sistema bancario italiano del 1933-36” in “Scritti e discorsi scelti, 1933-1966”, Banca d’Italia 1986.

(2) Le istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia prevedono che le banche devono contenere ciascuna posizione di rischio riferite a soggetti collegati entro il limite del 25 per cento del patrimonio di vigilanza. Nella definizione di soggetti collegati rientrano i soggetti che detengono più del 15 per cento del capitale della banca.

 

 

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Gennaio

  1. n. forcheri

    Giusto per sapere da che parte sta lavoce, quel che sciocca profondamente nel testo sopra è che si parli dello "scandalo" delle partecipazioni societarie nelle banche, mentre il problema è semmai attualmente esattamente e acutamente il contrario: l’onnipresenza delle banche e pargoletti nelle imprese, in particolare nella grande distribuzione, supermercati, assicurazioni, telecomunicazioni, Enel, Eni, acqua, e in tutte le piccole e medie imprese da esse strangolate – con la complicità della mafia – e ricomprate per farne rilevanti lucri nelle svariate fusioni e acquisizione consigliate dalle stesse banche…

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