L’occupazione è in leggera crescita e non sembra essersi verificata la crisi delle collaborazioni autonome. Ma la normativa non sembra essere riuscita a scremare le collaborazioni fasulle. Né si sono avuti risultati nell’emersione del sommerso. Restano da definire ammortizzatori sociali e regime previdenziale adatti ai lavoratori precari e un nuovo quadro delle tutele. Va dunque perfezionato in ogni sua parte un progetto di regolazione del mercato del lavoro, adeguato alle nuove sfide della competitività e del rilancio del paese.

Tracciare, a un anno di distanza, un bilancio della riforma del mercato del lavoro (decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276), è compito tutt’altro che facile. La riforma, anzitutto, è ancora un “cantiere aperto”, pur essendo stati emanati quasi tutti i rispettivi decreti di attuazione.

Qualche prima indicazione

Per alcune novità già in tutto o in parte operative (agenzie per il lavoro, somministrazione, appalto e distacco, part-time, lavoro intermittente, contratto di inserimento, lavoro a progetto), ve ne sono altre che indugiano ai blocchi di partenza (le commissioni di certificazione e l’apprendistato, per il quale alcune Regioni stanno cominciando a muoversi), e altre ancora le cui prospettive sono più remote (la mitica Borsa continua del lavoro, in via di sperimentazione in alcune Regioni, ma della quale pare lontana una realizzazione completa). Ma, anche per gli istituti teoricamente già operativi, di una completa attuazione si potrà parlare soltanto quando la normativa sarà stata metabolizzata da una contrattazione collettiva che appare non così entusiasta, anche perché penalizzata dall’incertezza, ormai cronica, sulle regole del sistema contrattuale. In un contesto così fluido, non stupisce la mancanza di dati disaggregati sull’impatto del decreto e soprattutto delle diverse tipologie contrattuali. Ciò non impedisce di tentare, in attesa della verifica ufficiale prevista per il maggio 2005, qualche riflessione. Il tasso di occupazione è ancora abissalmente distante dai sogni di Lisbona: l’ultima rilevazione Istat lo colloca al 56,5 per cento (quello femminile al 45,2 per cento). Tuttavia l’occupazione continua a crescere, pur ad un tasso più ridotto che in passato.  Non è escluso, tra l’altro, che sia cresciuta nelle fasce più passive della popolazione (pressate, nel frattempo, dal caro-vita), la percezione di poter trovare lavoro in tante forme e modi diversi da quello canonico, e che ciò le abbia riavvicinate, quantomeno psicologicamente al mercato. È lecito dubitare, invece, che i nuovi contratti flessibili abbiano sinora dato qualche risultato in termini di emersione del sommerso. Quanto alla distribuzione interna fra le tipologie contrattuali, non sembra essersi verificata la paventata crisi delle collaborazioni autonome, a causa delle rigidità del lavoro a progetto. Ciò perché il decreto Biagi ha consentito la sopravvivenza transitoria, tramite accordo sindacale, delle vecchie co.co.co. (peraltro non oltre il 24 ottobre 2005), e perché la prassi ha saputo riassorbire la novità e trasportare la maggior parte delle collaborazioni sotto l’ombrello del nuovo istituto. Quel che è rimasto fuori è fuggito, di solito, non verso il lavoro subordinato, ma verso la partita Iva o il sommerso. Ma ciò significa pure che la nuova normativa non sembra essere riuscita nello scopo di “scremare” le collaborazioni fasulle, per quanto si debba riconoscerle di aver incentivato le parti a una maggiore trasparenza formale nella redazione dei contratti.

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Alla ricerca di una regolazione

Se la questione vera è come adeguare le regole del mercato del lavoro alla realtà del postfordismo, la direzione di fondo additata dal decreto (in sostanziale continuità, mutatis mutandis, con un trend legislativo che risale sino alla legge Treu del 1997), rivolta al rafforzamento della posizione del lavoratore sul mercato, è quella giusta. O, quantomeno, non si vedono in giro progetti alternativi. Ciò non toglie che vi siano ancora aspetti discutibili, e almeno tre grandi incognite. Le prime due concernono le altre indispensabili “gambe” della riforma: i nuovi ammortizzatori sociali e un regime previdenziale da “tarare” anche sui lavoratori precari del postfordismo; il futuro e ancora fumoso Statuto dei lavori, del quale sta discutendo una commissione ministeriale, volto a ridisegnare organicamente il quadro delle tutele, alla luce della centralità acquisita dai lavori flessibili ampiamente intesi. In generale, si tratta di perfezionare in ogni sua parte un progetto di regolazione del mercato del lavoro, adeguato alle nuove sfide della competitività e del rilancio del paese. E si tratta di capire, una volta smaltita la pur inevitabile sbornia della flessibilità, che una compiuta modernizzazione non potrà che passare, nello specifico della realtà italiana, attraverso un’idea condivisa di collaborazione istituzionale fra tutti gli attori del sistema: imprese, lavoratori, sindacati ed enti bilaterali, enti pubblici territoriali, apparati statali. Tale disegno cooperatorio dovrà svilupparsi e articolarsi soprattutto sul territorio, con un auspicabile rincorrersi di best practice, e mirare a un circolo virtuoso fra sviluppo e sostenibilità sociale. Le componenti dovranno esserne una contrattazione collettiva tanto giuridicamente solida quanto capace di rapportarsi alle necessità dei vari settori e distretti, efficienti servizi per l’impiego, una formazione professionale riqualificata, reti di sicurezza per la precarietà, e ovviamente la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori.  Sulla realizzabilità di una siffatta prospettiva regolativa, intesa come possibile “vantaggio istituzionale comparato” del nostro paese, si giocano scommesse forse decisive, oltre che per il diritto del lavoro, per la stessa economia italiana.

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