Con le tecniche econometriche attuali si riesce a misurare quanto sistematicamente migliora l’apprendimento di uno studente esposto all’attività didattica di un insegnante, indipendentemente dalle caratteristiche ricorrenti nella famiglia e nella scuola frequentata. Un incremento del dieci per cento nella qualità del docente equivarrebbe all’effetto di un dimezzamento del numero di alunni per classe. Come migliorare allora la qualità degli insegnanti? Pensando a un più stretto legame fra rendimenti e premi. Ma anche attraverso una formazione dentro la classe. È da poco apparsa su Econometrica una importante ricerca sulla qualità della scuola, alla quale hanno lavorato studiosi che si occupano di scuola da trent’anni. Le due questioni che l’articolo affronta sono queste: quanto contano gli insegnanti nel determinare la qualità dell’apprendimento? E cosa determina la qualità degli insegnanti? Un insegnante vale laltro? A giudicare dall’alacrità con cui i genitori si informano sui possibili insegnanti dei figli, e da tutto quello che sono disposti a fare per ottenere che i figli entrino nelle classi degli insegnanti che vengono giudicati bravi, sembrerebbe del tutto evidente che la risposta alla prima domanda non possa che essere: “gli insegnanti contano quasi più di tutto il resto”.
Il problema è che quando per la prima volta, negli Stati Uniti con il Coleman Report del 1966 si cominciarono a misurare gli effetti delle caratteristiche principali degli insegnanti, quali per esempio la loro esperienza di insegnamento e il loro livello di istruzione, sui risultati degli alunni, si trovò che risultavano sorprendentemente deboli. Da allora, le ricerche si sono ovviamente moltiplicate, gli strumenti di misurazione raffinati, sono poi cominciati ad arrivare risultati dei test sulla qualità dell’apprendimento, si sono evolute le tecniche econometriche di analisi dei dati, e così via. Tutte queste ricerche non hanno fatto altro che riconfermare quelle strane conclusioni del Coleman Report: le caratteristiche che comunemente si pensa stiano alla base della qualità degli insegnanti non influenzano più di tanto la qualità dell’apprendimento. Pochi credo abbiano pensato di potersi basare su questa pur schiacciante evidenza per dire convinti a un genitore “Rilassati, in fin dei conti un insegnante vale l’altro”. Ma come dimostrare il contrario?
La svolta è arrivata con lidea di un gruppo di ricerca della University of Texas, guidato da
Il principale risultato osservato è che la correlazione era alta fra i rendimenti scolastici di due coorti esposte allo stesso insegnante (entrambe buone o entrambe scarse), mentre nello stesso anno solare la correlazione era praticamente zero (il risultato di una coorte non diceva nulla su quello dell’altra). (2)
Questa era finalmente un’evidenza forte, anche se indiretta: i dati erano perfettamente compatibili con una realtà sottostante in cui l’elemento che fa la differenza è l’insegnante. Tuttavia, fino a questo punto, avrebbe potuto trattarsi di correlazione spuria, ovvero di un legame solo apparente tra fenomeni, in realtà spiegabili da eventi esterni non osservabili.
Le tecniche econometriche correntemente utilizzate permettono però l’identificazione diretta dell’effetto dell’insegnante sull’apprendimento, grazie allutilizzo di modelli a effetti fissi, che tengano conto delle regolarità ricorrenti associate ai fattori familiari, a quelli della scuola e per lappunto quelli relativi allinsegnante. In un modello di questo tipo, in pratica, si riesce a misurare quanto sistematicamente migliora lapprendimento di uno studente esposto allattività didattica di un insegnante, al netto delle caratteristiche ricorrenti sia nella famiglia dello studente che nelle caratteristiche della scuola frequentata. Solo così ci si pone al riparo della classica obiezione che dice “non si può confrontare il contributo allapprendimento dovuto a diversi insegnanti, perché gli insegnanti operano in contesti socio-culturali molto diversificati”. È evidente che uno studente del liceo in media possiede più competenze di uno studente della scuola professionale, ma è meno evidente che le sue competenze crescano relativamente di più quando viene esposto a un buon insegnante, di quanto non possa per esempio accadere allo studente delle scuole professionali.
Con questa metodologia i risultati attesi sono emersi: l’insegnante risulta influenzare il rendimento dello studente in misura apprezzabile. È difficile ottenere misure precise, ma il paragone con la numerosità delle classi rende l’idea: un incremento del dieci per cento nella qualità dell’insegnante equivarrebbe all’effetto quasi di un dimezzamento del numero di alunni per classe.
Risultato addizionale, anche quello non inatteso, e che l’effetto insegnante va scemando con l’età dello studente.
La qualità della classe docente
Allora tutto a posto? Purtroppo niente affatto. Perché siamo rimasti che la qualità dell’insegnante è certamente importante, ma non dipende dalle variabili che si possono influenzare più facilmente, tipo il suo livello di istruzione. L’insegnante brava è brava perché è brava, punto e basta; ognuno può dire la sua (la mia è che è brava quando ci mette il cuore), ma niente che sia facile da tradurre in misure concrete di intervento pubblico.
Cosa suggerisce il gruppo di Hanushek? Testualmente, loro osservano che “the substantial differences in quality among those with similar observable backgrounds highlight the importance of effective hiring, firing, mentoring and promotion practices”. Elegantemente, “segnalano l’importanza di” una politica del personale di tipo privatistico. I termini usati sono molto americani, ma in sostanza vogliono solo suggerire che “un più stretto legame fra rendimenti e premi alzerebbe alla lunga il livello della classe insegnante”. Questo piaccia o no è difficile da contestare, sicché sembrerebbe più utile cominciare subito a pensare come farlo meglio, piuttosto che discutere se sia giusto farlo o meno. Il che non è una faccenda da poco, perché la “azienda scuola” ha centinaia di migliaia di dipendenti, non una dozzina.
Resta la legittima aspirazione dell’insegnante a far bene, che è fra l’altro completamente in linea con gli interessi dei beneficiari del servizio da loro fornito. E a questa non si può semplicemente rispondere “Se ce la fai bene, altrimenti a casa”.
Come migliorare la qualità dell’insegnante è l’altro tema su cui potrebbe essere utile (ri)focalizzare la discussione alla luce della nuova evidenza empirica. Anche qui la strada è lunga e sarà inevitabile procedere in modo sperimentale. Giusto per dirne una, se qualcosa di impalpabile sta sotto la capacità di insegnare, cioè di trasmettere, comunicare nuova conoscenza, allora potrebbe essere utile mandare i giovani insegnanti a vedere da vicino, cioè da dentro la classe, cosa/come fanno i docenti più bravi, non per dieci ore, ma per mille (due al giorno per due anni).
(1) In pratica, negli esperimenti cui i dati si riferiscono c’è un insegnante per anno (per eliminare l’effetto scuola i dati utilizzati riguardano solo scuole nelle quali esistono osservazioni per entrambi gli anni), e si procede così: si registrano i risultati di N classi “prime” ed N “seconde”, in N scuole, per esempio nellanno 2000, siano essi P(1), P(N) ed S(1), S(N). Poi nel 2001 si registrano i risultati delle ex-prime diventate seconde, diciamo SS(1), SS(N). Si noti che essendoci un insegnante per anno in ogni scuola, P ed S non hanno lo stesso insegnante, mentre S ed SS sì. Le correlazioni misurate sono fra P ed S e fra S ed SS.
(2) In termini delle variabili sopra definite, la correlazione fra S ed SS è alta (cioè in genere S(n) e SS(n) sono entrambe alte — possibilmente linsegnante della scuola è bravo — o entrambe basse — possibilmente linsegnante è scarso; mentre la correlazione è bassa fra P e S (la relazione fra P(n) e S(n) non è regolare possibilmente perché in alcune scuole è più bravo linsegnante di P, in altre quello di S).
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Dorigo Giacomo
Un’ altro contributo allo sviluppo del sistema sarebbe quello di concentrare risorse finanziarie e umane sullo studio stesso delle metodologie di insegnamento e di apprendimento, cioè sui metodi utili a rendere più efficienti entrambi i lati della comunicazione del sapere.
Intendo dire focalizzare dei centri di ricerca di eccellenza a livello universitario che studino come migliorare il rendimento sia di insegnamento ed apprendimento e che poi diffondano il frutto di tali ricerche in tutto il sistema.
Spesso si trascura il livello che potremmo chiamare del ‘metainsegnamento’ e del ‘metapprendimento’, cioè dell’imparare ad insegnare e ad imparare, e si tende a pensare che ciò dipenda da un qualche misterioso dono di natura. Personalmente sono scettico su ciò, e ritengo che tranne i livelli estremi (genialità e deficit patologici) tutti noi abbiamo la possibilità di migliorare le nostre capacità con un adeguato allenamento ed un sistema di accorti incentivi (e disincentivi).
elena
Sono un’insegnante.Il mio contributo spero tuttavia non sia di parte. Voglio riferire qualche mia osservazione, maturata in tanti anni di insegnamento.
L’insegnante di qualità è quello che sa coinvolgere, che fa capire a ogni ragazzo che è unico e degno del massimo interesse, che deve stimarsi e darsi delle possibilitò,che cerca strade per interessarlo,che gli fa trovare il metodo di lavoro più adatto alle sue caratteristiche.
Alle medie, dove io insegno, è molto importante anche la qualità della relazione umana che s’instaura tra docente e discente. Infine se le famiglie non seguono le medesime strade, non danno valore alla cultura e alla scuola…l’insegnante più bravo el mondo può fare ben poco.Quanto a incentivare i migliori, credetemi è solo fonte di odi e di sgomitamenti tanto che i migliori non si mettono in gara con gli ambiziosi mediocri e a questi ultimi resta lo scalpo del modesto ma agognato vantaggio economico o di carriera!