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LE RETRIBUZIONI PERVERSE DELL’UNIVERSITA’ ITALIANA

Contrariamente ad una interpretazione diffusa, un’ analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualità della produzione scientifica Italiana e’ modesta. Ma la leggenda secondo cui in media i docenti italiani siano poco produttivi perché poco pagati in media non ha fondamento. E’ vero però che il sistema italiano premia generosamente l’ anzianità, indipendentemente dalla produttività, generando incentivi perversi, allontanando i talenti, e lasciando poche risorse per i ricercatori giovani e più produttivi. Il contributo termina con una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.

La “fuga dei cervelli” dall’Italia ha recentemente trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani ed è stata ampiamente confermata da numerose analisi statistiche. Tuttavia, ciò che forse dovrebbe fare riflettere maggiormente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Nei corsi di Dottorato Italiani soltanto il 2% degli studenti proviene dall’estero e, in tutto, meno di 3,500 persone provenienti da altri paesi dell’Unione Europea lavorano nel settore scientifico-tecnologico in Italia. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei) il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e piu’ di 42,000 cittadini della U.E. (non Britannici) lavorano come ricercatori in quel paese.
Il nostro obiettivo in questo contributo (che si basa su Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti, 2005) e’ di illustrare tre punti fondamentali. Primo, mostrare che – contrariamente ad una interpretazione diffusa – un’ analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualita’ della produzione scientifica Italiana e’ modesta. Secondo, discutere come l’attuale sistema di remunerazioni e carriere induca incentivi sbagliati e allontani i “talenti”. Terzo, formulare una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.

Produttivita’ Scientifica dei Ricercatori Italiani

La prima e la seconda colonna della Tavola 1 mostrano il numero medio di pubblicazioni e di citazioni per ricercatore (nei settori di Scienza e Ingegneria) durante il periodo 1997-2001 (i dati sul numero dei ricercatori si riferiscono al 1999). L’Italia risulterebbe avere un rapporto “pubblicazioni / ricercatore” e “citazioni / ricercatore” tra i piu’ alti in assoluto (si vedano le colonne 1 e 2 della Tavola 1). Questi risultati, apparentemente incoraggianti, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, in particolare nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004. C’è tuttavia qualcosa di strano in questi dati: gli Stati Uniti appaiono agli ultimi posti di questa classifica – un risultato assai implausibile. Il mistero è facilmente svelato: la definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei paesi sud europei inclusa l’ Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) in quasi tutti gli altri paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici l’Italia ha rapporti “pubblicazioni / ricercatore” (colonna 4) e “citazione / ricercatore” (colonna 5) ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca.
Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro fattore di impatto, cioè dal numero di citazioni che essa riceve. La colonna 6 della Tabella 1 mostra il numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001. L’Italia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.

 

Retribuzioni

Il sistema retributivo italiano ha tre caratteristiche. Primo, la progressione retributiva dipende quasi esclusivamente dall’ anzianità di servizio: all’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha un’influenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria. Secondo, il profilo temporale della progressione salariale è molto “ripido”: si guadagna poco a inizio carriera, ma l’ anzianità viene remunerata molto bene. Consideriamo un giovane che diventi ricercatore a 25 anni, associato a 35 anni e ordinario a 45 anni: tra inizio e fine carriera il suo salario aumenta di un fattore pari a 5, sostanzialmente per effetto della sola anzianita’ (vedi Tabella 2).
Terzo, per effetto di questa progressione, e contrariamente ad una credenza assai diffusa, un ordinario italiano con 35 annni di anzianità è ben pagato anche rispetto ai suoi colleghi statunitensi. Come si vede confrontando la Tabella 2 con la Tabella 3, egli riceve un salario superiore a quello dell’ 80 percento dei professori ordinari nelle migliori università statunitensi (quelle con un programma di PhD), e superiore a quello del 95 percento degli ordinari nelle università con al più un corso di master (la stragrande maggiornaza delle università americane).
Il sistema retributivo dei docenti universitari negli Stati Uniti segue regole assai diverse. Il salario è negoziato individualmente, ed è quindi funzione delle opportunità di lavoro alternative, cioè, essenzialmente, dalla produttività di un professore. In conseguenza, a qualsiasi livello di anzianità la dispersione salariale è molto elevata (mentre in Italia è nulla). Ad esempio il rapporto tra i salario massimo (113,636 euro nelle piu’ prestigiose università con corsi di Ph.D.) e minimo (27,273 euro in un community college) di un assistant professor (ricercatore) è pari a circa 4.2. E un assistant professor di 25 anni molto produttivo e promettente può benissimo guadagnare ben più di un ordinario a fine carriera ma poco produttivo. D’altro canto, la progressione salariale in carriera è sempre ancorata alla produttività scientifica e non così accentuata come in Italia: a fine carriera un ottimo professore guadagna tra 1.5 e 2 volte il suo salario iniziale.
Questa è esattamente la struttura salariale che ci si apetterebbe se il salario fosse usato come strumento per incentivare la produttività e per premiare gli anni di ricerca più produttivi, che tipicamente sono quelli da inizio fino a metà carriera.

Proposte per una Riforma

La causa principale dei problemi dell’ università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì l’esistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse. Le nostre proposte sono quindi volte a modificare il sistema di incentivi in modo che, a parità di risorse, nell’accademia italiana venga premiata l’eccellenza scientifica secondo parametri condivisi dalla comunità internazionale. Il nostro lavoro “Lo Splendido Isolamento dell’ Università Italiana” discute queste proposte in maggiore dettaglio.

1. Liberalizzare le retribuzioni del personale accademico.
2. Liberalizzare le assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole; di conseguenza, è abolito l’attuale sistema concorsuale.
3. Liberalizzare i percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole.
4. Liberalizzare completamente la didattica: ogni università è libera di organizzare i corsi come vuole e di offrire i titoli che preferisce.
5. Liberalizzare le tasse universitarie: ogni università si appropria delle tasse pagate da i propri studenti.
6. In alternativa alla proposta precedente, mantenere il controllo pubblico sulle tasse universitarie aumentandole però considerevolmente.
7. Utilizzare i risparmi statali così ottenuti per istituire un sistema di vouchers, borse di studio e prestiti con restituzione graduata in base al reddito ottenuto dopo la laurea.
8. Allocare ogni eventuale altro finanziamento statale alle università in modo fortemente selettivo sulla base di indicatori di produttività scientifica condivisi dalla comunità internazionale.
9. Consentire l’accesso a finanziamenti privati senza limitazioni.
10. Abolire il valore legale del titolo di studio.

Tabella 1. La produttività e la qualità dei ricercatori italiani

pubblicazioni / ricercatori tot

citazioni / ricercatori tot

Ricercatori accademici / ricercatori tot

pubblicazioni / ricercatori accademici

citazioni / ricercatori accademici

impact factor

medio

impact factor

standardizzato

1

2

3

4

5

6

7

USA

1.00

8.60

0.15

6.80

58.33

8.57

1.48

Germania

1.25

8.64

0.26

4.77

32.98

6.91

1.33

Regno Unito

2.17

15.86

0.31

6.99

51.00

7.30

1.39

Francia

1.45

9.43

0.35

4.09

26.68

6.52

1.12

Italia

2.26

14.81

0.38

5.88

38.57

6.56

1.12

Spagna

1.68

9.09

0.55

3.06

16.54

5.41

.97

Portogallo

0.86

3.99

0.52

1.65

7.62

4.62

.82

Danimarca

1.96

15.57

0.30

6.50

51.56

7.93

1.48

Olanda

2.29

18.79

0.31

7.41

59.58

8.20

1.39

Canada

1.68

11.79

0.33

5.04

35.28

7.00

1.18

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Definizioni: Colonna 6: impact factor: definito come numero totale di citazioni / numero totale di pubblicazioni, entrambe per il periodo 1997-2001;. Colonna 7: impact factor standardizzato, 2002; vedi testo per la definizione.
Fonti: Pubblicazioni e citazioni: King (2004), dati riferiti agli anni 1997-2001; Impact factor standardizzato: King (2004), dati riferiti al 2002; Numero di ricercatori: OECD, Main Science and Technology Indicators database, dati 1999 (1998 per Regno Unito). Il numero di ricercatori è espresso in unità full time equivalent.

Tabella 2. Distribuzione dei salari accademici in Italia

Anzianità di servizio

in anni

Professore Ordinario

a tempo pieno

Professore Associato

a tempo pieno

Ricercatore

a tempo pieno

0 (non conf.)

47631

36053

20225

3

50412

37999

29244

5

54207

40684

31150

7

56900

42596

32516

9

60696

45280

34422

11

63388

47192

35788

13

67184

49876

37694

15

70979

52560

39601

17

73968

54683

41117

19

76957

56806

42633

21

79946

58928

44149

23

82935

61051

45665

25

85924

63174

47181

27

88913

65296

48698

29

91902

67419

50214

31

94891

69542

51730

33

96735

70851

52665

35

98578

72160

53600

37

100421

73469

54535

39

102264

74778

55470

Media

77242

57020

42415

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati aggiornati all’anno 2004. La tabella riporta il salario annuo in euro al lordo delle tasse per le tre categorie di docenti italiani al variare della anzianità di servizio, secondo la tabella elaborata dal CNU di Bari e pubblicata sul sito http://xoomer.virgilio.it/alpagli/. Poiché non disponiamo della distribuzione dei docenti italiani per anzianità, le retribuzioni medie nell’ultima riga sono calcolate ipotizzando una distribuzione uniforme.

Tabella 3. Distribuzione dei salari accademici negli Stati Uniti

Università con corsi undergraduate

e corsi di dottorato

Università con corsi undergraduate

e corsi di master

College senza corsi graduate

Percentile

Full

Associate

Assistant

Full

Associate

Assistant

Full

Associate

Assistant

1

49,091

38,182

30,909

41,818

34,545

29,091

36,364

29,091

27,273

5

56,364

43,636

36,364

47,273

40,000

32,727

41,818

34,545

32,727

10

68,969

52,678

44,994

53,526

44,728

38,386

42,749

37,871

32,906

20

73,139

55,133

46,742

56,721

47,005

40,217

47,956

40,698

35,404

30

77,091

57,091

48,378

59,075

48,733

41,338

51,109

42,951

37,047

40

79,738

58,875

50,493

61,465

50,515

42,336

53,589

44,857

38,552

50

83,820

61,747

51,825

63,913

51,879

43,435

56,944

46,835

39,592

60

89,466

63,622

54,266

66,523

53,535

44,788

59,843

48,796

40,931

70

94,616

65,989

55,896

70,540

55,623

46,265

63,037

50,730

42,147

80

98,730

69,816

58,476

75,203

58,567

48,661

67,198

53,529

44,383

90

108,003

73,599

63,804

81,060

63,645

51,465

78,941

59,007

48,832

95

119,212

79,177

65,953

86,323

66,372

53,279

86,854

64,672

51,373

99

195,455

122,727

113,636

122,727

92,727

80,000

122,727

83,636

69,091

Media

91,529

62,400

53,251

69,193

54,555

45,417

65,293

50,392

41,901

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati riferiti all’anno accademico 2003-04. La tabella riporta i percentili in euro della distribuzione del salario annuo al lordo delle tasse per i Full Professor, gli Associate Professor e gli Assistant Professor in tre categorie di università degli Stati Uniti. La fonte è il rapporto della AAUP (2004), in particolare le Tabelle 4, 8 e 9a. I dati si riferiscono a 1446 università per un totale di 1775 campus. Per la conversione della valuta abbiamo utilizzato il tasso di cambio corretto per Purchasing Power Parity pari a 1.11 dollari per euro.

 

Bibliografia:

Checchi, D., 1999, Tenure. An Appraisal of a National Selection Process for Associate Professorship, Giornale degli Economisti ed Annali di Economia, 58 (2), 137-181.

Gagliarducci S., A. Ichino , G.Peri e R. Perotti (2005) “Lo Splendido Isolamento dell’ Universita’ Italiana” Working Paper, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Milano,

www.igier.uni-bocconi.it/perotti.

Kalaitzidakis P., Stengos T. e Mamuneas T.P., 2003,

Rankings of Academic Journals and Institutions in Economics, Journal of the European Economic Association, 1 (6), 1346-1366.

Perotti, R., 2002, The Italian University System: Rules vs. Incentives, www.igier.uni-bocconi.it/perotti

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La direttiva che non svela segreti

  1. Federico Mucciarelli

    Sono un ricercatore dell’Università di Bologna e mi sento di condividere quasi interamente quanto scritto. Non sono del tutto daccordo, però, che la questione stia esclusivamente nel modo dispendere i soldi e non anche nella loro quantità.
    Premesso che è indubbiamente vero che il meccanismo italiano non premia i migliori e non penalizza chi non pubblica, resta un problema di risorse, non solo dell’Università ma dell’intero mercato. Si propone, infatti, di liberalizzare gli stipendi e, quindi, di legarli al merito e, implicitaente, alla negoziazione tra il docente e l’università. Di conseguenza, come l’articolo chiarisce, l'”outcome” della negoziazione dipenderà dal costo opportunità sul mercato del docente: se vale molto, allora potrà guadagnare molto fuori dall’università e quest’ultima per averlo dovrà pagare di più.
    Ebbene, questa riflessione è astrattamente efficiente, ma credo che in Italia non funzionerebbe per due ordini di ragioni. La prima riguarda il potenziale docente ed il suo mercato: questo il più delle volte semplicemente non esiste, nel senso che per molte materie (penso a quelle letterarie) spesso non esiste un mercato alternativo alla ricerca o all’insegnamento. L’assenza di sviluppo e di ricchezza fuori dall’università rischia di fare fallire questo meccanismo e di creare di nuovo un sistema che tende al ribasso.
    La seconda questione riguarda l’Università: che incentivo ha essa ad assumere il professore che “fuori” ha un mercato e pagarlo in maniera competitiva? Questa è la vera domanda e può essere risolta non solo, ma anche aumentando le risorse (spendendo di più e, direi, molto di più). Si pensi a mestieri che hanno un mercato fuori dall’università: avvocato, ingegnere o architetto: alcuni avvocati potrebbero guadagnare, se collocati negli studi giusti e con un certo grado di formazione teorica, anche cifre considerevoli sin da giovani. Può l’Università competere? E se anche avesse risorse, perchè dovrebbe farlo? Perchè assumere quello bravo e costoso (sul mercato esterno) e non uno che si accontenta di meno? Ovvio che dovranno intervenire vincoli legali che inducano forme di competitività per incentivi economici dell’ateneo o del dipartimento, ma resta il fatto che se l’Italia non aumenta le risorse dedicate alla ricerca da questo circolo vizioso non si esce.

  2. Lorenzo Marrucci

    Condivido gran parte dei contenuti di questo articolo, ma tra le 10 proposte avanzate per riformare l’università italiana ne manca a mio parere una fondamentale, la più importante di tutte: la riforma della governance di ateneo.
    Con un’analogia solo apparentemente paradossale, un ateneo italiano è strutturato oggi come un ministero in cui il ministro (il rettore) è eletto dagli impiegati del ministero (i docenti) e solo a loro rende conto, anziché ai cittadini tramite il parlamento. E le divisioni interne del ministero (le facoltà o i dipartimenti) sono a loro volta governate da dirigenti (presidi o direttori) eletti dai dipendenti di quella divisione (i docenti). Assurdo, no? E invece è considerato dai più come un assetto normale e “democratico”!
    Se ora in tale sistema si introducessero le misure di liberalizzazione proposte dagli autori di questo articolo senza riformare la governance, le università pubbliche italiane si trasformerebbero in una sorta di cooperative private, cioè sempre sotto il controllo dei loro dipendenti (i docenti), ma che dovrebbero sopravvivere in un regime di (più o meno) libero mercato dell’istruzione superiore. Sarebbe sufficiente questo a farle funzionare? Ho molti dubbi.
    Infatti, per arrivare ad una situazione veramente analoga a quella delle cooperative, gli incentivi-disincentivi da applicare dovrebbero assumere una forza equivalente a quella di un vero libero mercato (incentivi meno forti non basterebbero infatti a prevalere sugli interessi personali o corporativi dei docenti), inclusa la possibilità di giungere al fallimento di un ateneo. Anzi, uno dei principali meccanismi con cui un libero mercato ottimizza il proprio funzionamento è proprio il costante ricambio dei soggetti che vi operano.
    Ma si crede davvero possibile che in Italia si lascino fallire atenei come Roma “La Sapienza”, o Napoli “Federico II”, ma anche uno qualsiasi dei tanti atenei di provincia? E anche se questa eventualità fosse davvero accettata, quanto tempo ci vorrebbe per “ottimizzare l’intero sistema universitario” con una successione di fallimenti e istituzioni di nuove università? E quanto costerebbe questa transizione?
    Come ho già scritto su Lavoce.info un anno e mezzo fa (in “lezioni dall’estero”), impariamo da quanto già avviene all’estero: in tutti i sistemi universitari del mondo in cui gli atenei sono dotati di grande autonomia decisionale (che sono peraltro anche tutti quelli che funzionano meglio: USA, UK, Svezia, Olanda, Australia), la governance di ateneo NON è affidata in modo dominante ai docenti (forse l’unica eccezione degna di nota è data da Oxford e Cambridge, che certo non sono università normali, e su cui peraltro c’è attualmente una certa pressione a cambiare perché evidentemente il loro modello non soddisfa più così tanto). Perché noi italiani dovremmo essere speciali?

  3. federico

    Volevo chiedervi alcuni chiarimenti e porvi alcuni quesiti sui dati.

    (1) So già che avete fatto qualche correzione anche alla luce del dibattito che è scaturito dalla presentazione del vostro lavoro alla giornata in memoria di Innocenzo Gasparini (in particolare sui costi della ricerca e sul rapporto tra fondi per la ricerca e docenti). Di questo non parlo dunque.

    (2) prima domanda: quando confrontate le pubblicazioni, confrontate quelle in inglese o quelle effettuate in qualsiasi lingua ? A me sembra infatti che un dato (allarmante, per certi versi) che potrebbe spiegare le diverse performance in termini di pubblicazioni (e loro qualità), quantomeno in alcune aree disciplinari, è una scarsa conoscenza dell’inglese scritto, e/o la scarsa utilità di scrivere in inglese di certi argomenti (questo è il caso del diritto, ma non solo).

    (3) Salari: voi parlate di un ordinario con 35 anni di anzianità. Ma l’anzianità, rispetto a quegli stipendi, si acquisisce a partire dal momento in cui si consegue l’idoneità e si è effettivamente chiamati da una università. Di fatto, in media non esistono ordinari con 35 anni di anzianità perché in Italia ordinari lo si diventa tra i 40 e i 50 anni e si va in pensione massimo a 70.

    Di conseguenza, lo stipendio sale almeno in media meno o molto meno di quanto le tabelle ci direbbero. O ho capito male qualcosa ?

    Se è vero, rimane certamente intoccato il dato di fondo per il quale la crescita del nostro salario è indipendente dalla produttività (anche se dovrebbero essere i concorsi ad attestare che abbiamo prodotto e siamo capaci di farlo; ed in taluni casi lo fanno) ma non è più tanto evidente il fatto che i nostri ordinari abbiano salari simili a quelli dei loro colleghi americani.

    In altri termini – scusate l’esempio giuridico – è vero che (limitatamente all’attività universitaria) Guido Rossi guadagnava lo stesso stipendio di un anonimo e svogliato professore ordinario di diritto commerciale, e questo è certamente un male; ma vi assicuro che non è affatto vero che Guido Rossi guadagni (guadagnasse, ora è in pensione) come Gilson, Macey, Roe, Eisenberg o Calabresi, che dal punto di vista scientifico e didattico non gli sono certo superiori.

    (4) Sempre su questo fronte. Un’altra domanda. Il confronto con la media di 1770 campus americani non è un po’ fuorviante ? Il dato infatti tende a comprimere la media dei salari, perché prevede che siano considerate anche molti college di serie “f”, nei quali i salari vanno di pari passo Da questo punto di vista, penso andrebbe introdotta una sorta di variabile di aggiustamento che tenga conto al rapporto tra numero di università e popolazione.

    L’esperienza salariale dei miei amici storici che pur lavorano (poco) in università non di eccellenza – per non far nomi, ad esempio texas tech, Lubbock – e sono assistant professor, dice che loro a circa 28 anni hanno un salario di 70-80 mila dollari. Uno storico con dottorato in Italia a 28 anni (sempre che riesca ad ottenere un posto di dottorato), se va tutto benissimo (e non è mai così), riesca a conseguire un assegno di ricerca. Ossia 15 mila euro, o qualcosa del genere. Questa è almeno l’esperienza vissuta dalla grande massa delle persone che vivono nell’università italiana, che forse si coglie anche dal (relativamente) basso numero di docenti di ruolo rispetto ad altre realtà.

    Capisco che a dei dati certi oppongo sensazioni e osservazioni soggettive. Sarò forse in torto, ma forse su quei dati si potrebbe ragionare ancora un po’, perché talvolta inducono a qualche perplessità.

    Scusate l’intrusione. Ciao federco

    • La redazione

      Caro Federico,
      grazie per l’attenzione: speriamo che le risposte sintetiche qui sotto siano esaurienti. Altrimenti contattaci pure direttamente per ulteriori chiarimenti.
      1) Quando analizziamo i dati sui dipartimenti di economia analizziamo le pubblicazioni sulle migliori riviste al mondo, che sono per la quasi totalita’ in lingua inglese (ma non necessariamente americane o inglesi). La comparazione per una disciplina come il diritto, pone effettivamente maggiori problemi, perche’ la letteratura e’ molto “country-specific”.

      2)Gli anni di anzianita’ come ricercatore e associato non si azzerano quanto si diventa ordinari. Per quanto a nostra conoscenza continuano a valere per tre quarti: ossia 8 anni come ricercatore contano 6 anni di anzianita’ come ordinario. Quindi 35 anni e’ una posizione di fine carriera raggiungibile.

      3)Questo e’ perfettamente compatibile con quello che diciamo. E’ perfettamente possibile che le superstar americane guadagnino molto di piu’ che gli ordinari piu’ anziani Italiani. Il problema e’ che gli ordinari anziani italiani guadagano di piu’ della maggior parte degli ordinari (non superstar) americani. E se Guido Rossi andasse in america guadagenrebbe come una superstar americana (stando a quanto tu mi dici) mentre in Italia questo non puo’ succedere perche’ la produttivita’ non conta (sempre limitatamente alla attivita’ universitaria …).

      4) La ricerca americana che utilizziamo come fonte (http://www.aaup.org/surveys/04z/04z.pdf ) e’ attenta a distinguire tra universita’ con dottorato, solo con master, solo college. E noi ne teniamo conto nel riportare i nostri paragoni (vedi il nostro il paper (http://www.frdb.org/images/customer/gipp_declino_18.pdf )
      Anche questo e’ perfettamente in linea con quanto diciamo nel nostro paper: i giovani sono pagati troppo poco in italia a vantaggio degli anziani meno produttivi. In america accade il contrario: La differenza tra stipendi degli ordinari e degli assistenti e’ molto bassa in america, molto alta in italia.

      Speriamo di aver chiarito le perplessita’

  4. Francesco Garofalo

    Una premessa generale è che apprezzo l’attenzione del sito per l’università, e in generale lo segnerei dal lato dei buoni sulla lavagna. Tuttavia lavoce.info riflette il punto di vista di una categoria di professori, quelli di economia, che hanno una tendenza alla semplificazione dei problemi, e ad assumere il modello americano come riferimento privilegiato (e su questo potremmo anche essere d’accordo – ne parlerò dopo). Ma credo di avere individuato un altro problema: l’interesse è soprattutto per la ricerca, e non per la didattica, la condizione generale degli studenti, e per la dimensione sociale del disastro dell’università italiana. E infatti noto che nel sito sono praticamente assenti gli articoli sulla questione della riforma, del 3+2, che agita in modo differenziato i vari gruppi di facoltà (una guerra nel settore di ingegneria e architettura; un lamento regressivo nel settore umanistico, ma forse poco sentita nelle facoltà di economia e statistica).
    Il vostro articolo contiene dati utili utili e interessanti. Consentitemi ancora di notare però che nel decalogo è riflesso il problema di cui sopra. Al punto 8 si propone di allocare tutti (tutti!) i finanziamenti statali sulla base degli indicatori di produttività scientifica. E gli indicatori della produttività didattica? E quelli dei servizi? E quelli degli spazi?
    Una frase che avete scritto mi pare comunque la sintesi giusta: “la causa principale dei problemi dell’università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì l’esistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse”. Dopo aver letto il saggio comparativo Europa-USA di Pietro Reichlin su “Italiani Europei”, sono giunto alla conclusione che, nel sistema italiano, la ricerca è certamente sottofinanziata, ma il funzionamento dell’università non lo è, tranne che per l’edilizia, su cui varrebbe la pena di riflettere di più. Vorrei dimostrarlo con questo aneddoto. La scorsa estate sono andato a pranzo con il Dean della Facoltà di architettura dell’Università di Toronto. Parlando di programmi mi ha detto di voler organizzare un convegno per quest’anno, ma che aveva difficoltà a trovare 5-7000 dollari (canadesi, badate bene) di sponsorizzazioni “to match” i fondi di cui disponeva. Facciamo il confronto con la mia facoltà. I quattro dipartimenti di Pescara dispongono nei loro bilanci per attività di quel tipo (tra fondi di funzionamento e di ricerca) di almeno 40.000 Euro ciascuno. E’ vero che la facoltà di Pescara conta 5 volte il numero degli studenti e 8 volte il numero di professori di ruolo rispetto a Toronto, ma la sproporzione rimane enorme.
    Il sistema canadese è particolarmente interessante in riferimento al dibattito italiano, e al vecchio luogo comune di sinistra che è inutile guardare all’università americana perché è privata. Le dieci facoltà di architettura del Canada sono tutte pubbliche, e sono finanziate nello stesso modo di quelle italiane: tasse degli studenti (più alte delle nostre, ma molto, molto più basse di quelle americane), trasferimenti del governo federale e degli enti locali in base al numero degli studenti e a progetti specifici. Ciò non impedisce un regime di autonomia e una forma organizzativa del tutto comparabile a quella statunitense, nei suoi aspetti positivi, inclusa la contrattualizzazione di tutto personale a livello di facoltà.
    Con riferimento anche all’articolo di Gallotti, ancora una parola sull’edilizia universitaria che è in tutti i paesi il fiore all’occhiello della committenza: una ricerca spasmodica di qualità e di innovazione, che sia essa in mano alle stesse università o al mecenatismo. Dappertutto tranne che in Italia. Le università non hanno piani, contrattano al ribasso con i poteri pubblici e i privati, aree ed edifici dentro e fuori il mercato. Gli uffici tecnici sono covi di corruzione, e non sanno nemmeno fare la manutenzione ordinaria.
    Almeno un settore del tutto negletto si potrebbe affidare a programmi privati incentivati: quello degli alloggi per studenti. Invece di costruire case dello studente, che peraltro non si costruiscono, meglio sarebbe fare dei bandi per costruttori assoggettandoli a procedure di qualità per la scelta degli architetti e gli standard dei progetti, e a canoni predefiniti per l’affitto e la fornitura dei servizi. Il numero dei posti letto sarebbe molto maggiore, e potrebbe calmierare i prezzi degli slumlord che prosperano in ogni città sede di ateneo.

  5. madmax

    Premesso che ritengo utile parametrare le retribuzioni alla produttività (e in questa includerei anche quella didattica e l’impegno prestato in attività istituzionali) siamo sicuri che questo meccanismo così come è applicato nelle università americane non sia foriero di enormi distorsioni nella produzione, distribuzione e fruibilità della conoscenza? Negli ultimi anni su moltissime tematiche vi è stata una esplosione di pubblicazioni il cui livello non è sempre eccelso. Noto che molti colleghi d’oltre atlantico assillati dal publish or perish ricliclano sotto varie forme e su diverse riviste sempre lo stesso articolo. Ciò certamente incrementa la loro produzione scientifica (produzione di carta a mezzo carta potrebbe dire qualcuno) ma crea una ridondanza informativa nella quale è ormai quasi impossibile districarsi e discernere l’ottimo dal discreto o dal già letto…

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