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L’accademia che piace a Confindustria

Un documento comune delle associazioni imprenditoriali propone una strategia di riforma dell’università italiana. Se è indubbio che gli atenei debbano essere valutati da un organismo indipendente composto da scienziati di fama internazionale, meno chiaro è perché debbano partecipare alla valutazione esperti del mondo produttivo. Le aziende traggono i principali vantaggi assumendo buoni ricercatori in grado di sviluppare innovazioni di processo e di prodotto. Mentre troppa attenzione agli interessi tecnologici di breve periodo, fa male alle imprese stesse.

Confindustria e le più importanti associazioni degli imprenditori hanno firmato lo scorso 21 marzo un Documento comune sull’università“. Il fatto che il mondo produttivo si interessi allo stato di salute del sistema universitario e proponga strategie di riforma è un dato positivo, soprattutto nel nostro paese dove la spesa delle imprese in ricerca e sviluppo è circa la metà della media europea: appena lo 0,43 per cento del Pil rispetto allo 0,95 per cento dell’Unione Europea e in particolare all’1,37 per cento della Germania e all’1,11 per cento della Francia. Anche per questo può essere importante evidenziare, insieme agli aspetti positivi, i punti deboli e alcune ingenuità del documento.

Il meccanismo di finanziamento

Il punto di partenza, assolutamente condivisibile, è che nessuno sembra essere contento dell’università italiana. In particolare, le imprese percepiscono un progressivo deterioramento della qualità della formazione universitaria.
Il documento propone una strategia di riforme articolata in tre punti principali: (1) la valutazione e il finanziamento delle università, (2) la riforma del sistema di governo degli atenei e (3) la differenziazione dello spazio terziario dell’istruzione.
Ci concentriamo qui sul primo punto, che oltre a essere il più importante, è quello affrontato con maggiore precisione.
In Italia, circa il 65 per cento delle entrate del sistema universitario è pubblico, in linea con altri paesi Ocse: in Olanda, per esempio, tale quota è al 65,7 per cento e nel Regno Unito al 60 per cento. La gran parte è erogato dal governo centrale attraverso il Fondo finanziamento ordinario. Il meccanismo attraverso il quale il Fondo viene ripartito fra gli atenei, cambiato dalla legge n. 537/1993, prevede una parte assegnata su base storica, e una quota di riequilibrio che sostanzialmente premia gli atenei capaci di attirare più studenti e di far laureare un numero maggiore dei propri iscritti. Solo recentemente è stato proposto di considerare la produzione scientifica, peraltro utilizzando parametri discutibili, fra le determinanti della quota di riequilibrio. Anche se mancano dati precisi, sembra che finora gli unici effetti delle nuove regole siano stati l’aumento delle spese in pubblicità degli atenei e il progressivo deterioramento degli standard degli insegnamenti. È quindi condivisibile la considerazione centrale della prima parte del documento: occorre “introdurre con gradualità metodi di valutazione dei risultati e delle performance, sulla base del principio che i ‛finanziamenti premiano i risultati’”.

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Come valutare le università

Per passare da enunciati sui quali è difficile essere in disaccordo a proposte concrete è necessario, però, rispondere ad almeno due domande. Quali sono i risultati da premiare? E, in secondo luogo, a chi deve essere affidata la valutazione?
Le risposte a tali quesiti rappresentano la parte più delicata del documento: “La valutazione deve essere affidata a un organismo indipendente, composto da esperti in campo scientifico e tecnologico, provenienti dal mondo accademico e produttivo, italiani e stranieri”. Non ci sono dubbi sul fatto che le università debbano essere valutate da un organismo non politico composto da scienziati e professori di fama internazionale (molto meglio se stranieri). Non è chiaro però perché nella maggior parte delle discipline debbano esserci esperti del mondo produttivo. È difficile infatti che un imprenditore (o un sindacalista) possegga le competenze per valutare la produzione scientifica delle università. Chiedere a uno scienziato un parere vincolante sulla qualità di un prodotto commerciale non è forse il modo migliore per far aumentare i profitti di un’impresa. Simmetricamente è almeno altrettanto paradossale chiedere a un imprenditore un giudizio sulla produzione scientifica in biologia molecolare, fisica teorica, per non parlare di filosofia o letteratura. I risultati ottenuti dalla Luiss, università vicina a Confindustria, nella valutazione della ricerca, sembrano confermare il nostro scetticismo. L’importante ruolo del mondo produttivo nei paesi nei quali le relazioni fra università e impresa funzionano bene non è quello di far parte di commissioni di valutazione. Potrebbe e dovrebbe essere invece quello di selezionare e assumere i laureati che provengono dalle università che offrono una migliore preparazione. In questo gli imprenditori possiedono, o almeno dovrebbero possedere, qualche “vantaggio comparato”.
Per quel che riguarda i risultati da premiare, il documento per prima cosa distingue giustamente fra le due funzioni istituzionali dell’università: “I criteri coi quali valutare l’attività di ricerca devono comprendere sia la rilevanza scientifica sia le potenziali ricadute sul sistema socioeconomico (brevetti, licenze, applicazioni pratiche dei risultati)”; “I criteri per la valutazione delle attività didattiche devono basarsi su parametri qualitativi e quantitativi che debbono essere resi previamente pubblici (…)”.
Il punto che riguarda la didattica è abbastanza generico da essere incontrovertibile (anche se non è chiarissimo cosa siano i parametri qualitativi). La parte relativa alla ricerca, invece, può risultare fuorviante quando si provano a individuare criteri diversi dall’eccellenza scientifica. È sicuramente auspicabile infatti che le scoperte scientifiche abbiano delle ricadute sul sistema socioeconomico. Il problema principale è che la storia della scienza e della tecnologia insegnano che queste ricadute sono molto spesso imprevedibili e si manifestano con grandi ritardi temporali. Oltretutto, persino se si verificano immediatamente, valutarle con parametri oggettivi è quasi impossibile. Infatti, anche ammesso che sia desiderabile incentivare la ricerca in aree del sapere nelle quali si producono più brevetti o prototipi – cosa nella quale crediamo pochissimo -, questi ultimi rappresentano solo una piccolissima parte dell’impatto che le università hanno sul sistema produttivo. (1)
Il documento compie un passo ulteriore: gli “atenei e gli enti pubblici di ricerca devono essere valutati sulla base della loro capacità di collaborare con il sistema produttivo e per le attività di trasferimento tecnologico che realizzano”. Le perplessità esposte nel paragrafo precedente si applicano con ancora più forza a quest’ultimo punto, che sembra definire un nuovo compito istituzionale delle università: collaborare con le imprese e trasferire tecnologie. Tali collaborazioni, sicuramente un fattore positivo per lo sviluppo economico, non possono però essere oggetto di valutazione. Sarebbe come chiedere alle imprese di non pensare a fare profitti, ma di pubblicare su riviste internazionali di fisica teorica o di matematica.
Il trasferimento tecnologico si realizza se le imprese individuano opportunità tecnologiche nelle aree del sapere più vicine ai loro interessi di ricerca applicata, decidono di finanziare progetti e dottorati di ricerca, e più in generale sviluppano capacità di selezione e assorbimento di dottorati top level. In questo modo, le imprese traggono i principali vantaggi assumendo buoni ricercatori in grado di sviluppare innovazioni di processo e di prodotto profittevoli. Al contrario, università incentivate, peraltro con soldi pubblici, a offrire consulenze a basso costo non fanno bene né alla ricerca né all’impresa.
Ormai c’è una deriva lamentata anche dalle grandi imprese internazionali: troppa attenzione agli interessi tecnologici di breve periodo del mondo produttivo fa male alle imprese stesse. L’università deve fare un altro mestiere. Ma deve farlo bene. E in Italia, finora, non è stato così.

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(1) Mansfield, E. (1995) “Academic Research Underlying Industrial Innovations: Sources, Characteristics, and Financing”, The Review of Economics and Statistics, 77(1), 55-65.

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Previdenza professionale tra equilibri ed equilibrismi

  1. Luca Amendola

    Mi sembra che il punto centrale della posizione di Confindustria,
    cioe’ che una grossa frazione del finanziamento delle universita’ debba essere attribuito sulla base di una attenta valutazione della produzione scientifica, sia del tutto condivisibile. Tanto per dirne una, nessuna riforma dei concorsi puo’ funzionare se non c’e’ un incentivo diretto ad assumere i migliori, piuttosto che i tuoi studenti o i tuoi amici. Quando un Dipartimento assume un ricercatore, tutti devono sapere che se quel ricercatore ha buoni titoli, fara’ aumentare la quota di finanziamento; se non li ha, *tutto* il dipartimento ne soffrira’ le conseguenze. Allora forse tutti saranno responsabilizzati e sara’ piu’ difficile far passare il nipote di turno. Quindi, giusto criticare alcuni aspetti della proposta di Confindustria, ma prima di tutto sia detto con chiarezza che lo Stato deve finanziare il merito se vogliamo che il merito emerga.

    • La redazione

      E’ esattamente il punto del nostro intervento: la filosofia di fondo del documento é condivisibile, ma occorre stabilire con chiarezza quali possano e debbano essere i risultati da premiare.

  2. Vincenzo Antonuccio

    Penso che non esista un meccanismo di valutazione che possa andar bene per tutte le discipline, dalla fisica agli studi giuridici.
    Esistono pero’ meccanismi consolidati in settori specifici. Per esempio, la valutazione di un intero dipartimento viene a volte fatta da un comitato di esperti internazionali nominato dallo stesso dipartimento. Questi fanno una valutazione esauriente, inviando i risultati al ministero, che poi decide la divisione dei fondi pubblici sulla base di quste valutazioni. Inutile dire che anche l’autorevolezza internazionale del comitato ha il suo peso: i comitati compiacenti, composti dagli amici degli amici, vengono poco apprezzati.
    E’ un sistema che nel mio settore (Fisica) sembra funzionare. Nota bene: l’impegno burocratico del controllore (il ministero) e’ minimo, e di conseguenza anche l’investimento lo e’.
    Una proposta semplice: una legge che introduca questo meccanismo come facoltativo, e che premi quei dipartimenti che decidono di adottarlo. Basterebbero 3 articoli: credo pero’ che determinerebbe una rivoluzione epocale.

    • La redazione

      Siamo assolutamente d’accordo con lei sul primo punto:
      ciascuna disciplina ha criteri specifici secondo i quali valutare la produzione scientifica. E’ bene quindi che in ciascun settore disciplinare i comitati di valutazione siano composti da personalitá di altissimo livello afferenti a tale settore. Abbiamo peró qualche dubbio sul sitema da lei proposto: introdurre una sorta di doppia valutazione (prima il comitato nominato da ciascun dipartamento e poi il ministero) potrebbe introdurre elementi di arbitrarietá. In molte discipline quando i dipartimenti scelgono i loro “valutatori” , spesso, come si dice a Roma, “se la suonano e se la cantano”.

  3. salvatore de martinoi

    Mi pare che il documento dielle oprganizzazioni industriali sia la testimonianza del fatto che la parte piu’ arretrata del nostro paese sia il sistema industriale ed economico. Questo purtroppo e’ il frutto di una scadente classe di imprenditori. Basta pensare alla vicenda delle privatizzazioni che hanno trasformato interi comparti industriali strategici in produttori di bollette. E’ giustissimo valutare le universita’sopratutto per quanto attiene la produzione scientifica e magari fare azioni mirate di rafforzamento in quei settori strategici che dovessero risultare deboli (proprio cosi’ propongo di investire di piu’ dove siamo meno scientificamente competitivi).Ma perche’ non dobbiamo distribuire i vantaggi del cuneo fiscale sulla base di una valutazione delle aziende?

  4. Enrico Bertini

    Sono sostanzialmente d’accordo con il commento ma mi lascia un po’ perplesso lo scettiscismo di fondo sulla stretta collaborazione fra universita’ e industria e la volonta’ di esorcizzare la possibile valutazione in funzione delle ricadute industriali. Capisco che la cosa non sia applicabile (forse) a varie discipline, ma per molte, specialmente hi-tech e ICT, lo trovo normalissimo e salutare. Molti ingeneri nell’accademia italiana affrontano problemi inventati, che non hanno una base reale e ragionata ma che risultano simpatici o interessanti solo a una cerchia ristretta di persone che si compiacciono a vicenda. La ricerca applicata e’ una cosa seria, al pari di quella teorica e per farla bene c’e’ bisogno di conoscere i problemi reali (non quelli immaginari) che solo il mondo produttivo puo’ offrire. E’ partendo da problemi concreti, con una ricaduta sul reale che poi paradossalmente si finisce per trovare problemi piu’ astratti che ha senso esplorare a fondo. Inoltre, mi piacerebbe capire invece cosa pensa Confindustria del ruolo della ricerca nelle aziende. Mi ha colpito il vostro commento: “… Sarebbe come chiedere alle imprese di non pensare a fare profitti, ma di pubblicare su riviste internazionali di fisica teorica o di matematica.” Ma non e’ questo quello che succede in imprese come Google, IBM, Microsoft, etc.? Le piu’ grandi aziende innovatrici pensano eccome alle riviste internazionali! Google ad esempio ha una sezione intera nella quale fa sfoggio delle pubblicazioni dei suoi dipendenti (http://labs.google.com/papers.html). Un esempio europeo notevole e’ la Nokia che fa tantissima ricerca. Mi e’ capitato spessissimo di seguire presentazioni di paper molto validi alle migliori conferenze internazionali del settore. Mi sembra normale. Piuttosto bisognerebbe capire perche’ non esiste la consueta e salutare competizione fra ricerca industriale e accademica in Italia. Sarebbe bello che Confindustria proponesse qualcosa di concreto in questo senso.

    • La redazione

      Nessuno scetticismo sulla collaborazione fra universitá e industria. L’unico problema é che tali collaborazioni non devono secondo noi diventare la finalita’ dei compiti istituzionali delle universitá (per intenderci quelli per i quali ricevono finanziamenti pubblici). Analogamente il fatto che ricercatori privati pubblichino su riviste scientifiche é positivo e succede come lei giustamente ricorda nei paesi in cui le imprese innovano nei settori ad alto contenuto tecnologico. Ma i profitti di queste imprese non dipendono direttamente da tali pubblicazioni.
      Infine facciamo nostro il suo appello finale a Confindustria.

      Grazie per la collaborazione,

      Mauro

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