Acque agitate al Fondo monetario internazionale. Già da tempo si discute su come adeguare l’assetto della dirigenza. Ora arriva la proposta di aumentare il peso dei paesi asiatici. Naturalmente, a scapito degli europei che crescono molto più lentamente. Ma che all’interno del Fondo, insieme agli Stati Uniti, hanno maggior potere. Una riforma passa allora per una revisione del sistema delle quote e delle circoscrizioni che portano alla nomina dei direttori. Mentre anche il tacito accordo che vede sempre un europeo al vertice è ormai superato dalla storia.

Il Fondo monetario internazionale è in agitazione. Qualche mese fa il governatore della Banca d’Inghilterra aveva lanciato un segnale: auspicava che si rivedesse l’assetto della dirigenza del Fondo. Già da tempo, almeno dalla crisi asiatica del 1997-1998, gli osservatori erano giunti alla medesima conclusione, ma a livello ufficiale si manteneva un atteggiamento più che prudente rispetto a un argomento che scalda gli animi. Ma ecco che ora Anne Krueger, il numero due del Fondo, avanza suggerimenti concreti: propone di aumentare il peso dei paesi asiatici. Il che, in sostanza, significa ridimensionare il ruolo degli altri.
Naturalmente, nessuno si offre volontario, e qui sta tutta la difficoltà della questione. Certo, Anne Krueger è al termine del suo incarico e forse è proprio questa la ragione di una presa di posizione che irrita più di un governo.

Le quote dell’Fmi

Di cosa si tratta? L’Fmi appartiene ai paesi che ne sono membri e che in esso investono, in ragione del loro peso economico. I capitali versati sono poi utilizzati per concedere prestiti ai paesi che affrontano difficoltà nei pagamenti internazionali. Il Fondo è una sorta di “pompiere” internazionale che cerca di estinguere i focolai delle crisi finanziarie.
Alla base di tutto, c’è il principio per cui a ogni paese viene assegnata una quota, che dà diritto a chiedere prestiti, prevede l’obbligo di versare fondi nella cassa comune, ma dà anche il diritto di voto. Di conseguenza, i “giganti” sul piano economico sono quelli che hanno più potere.
La logica è quella azionaria: più si paga, più si controlla. Il peso della Francia equivale al 5,1 per cento, gli Stati Uniti sono al 17,5 per cento, la Cina ha il 3 per cento e l’India il 2 per cento. In linea di principio, le quote vengono ridefinite ogni cinque anni per tenere conto dell’evoluzione della situazione, essenzialmente della crescita del Pil e delle esportazioni di ogni paese.
L’ultima revisione risale al 1998. Quella del 2003 è saltata proprio a causa dell’inasprirsi della controversia. Si è perciò deciso di rimandare l’appuntamento al 2008, ufficialmente per lasciare il tempo di riconsiderare l’insieme della questione. Ma quello che sembrava un tentativo di insabbiare le cose, potrebbe dar luogo, alla fine, a un vero dibattito.

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Il mondo cambia

La prima questione è appunto quella delle quote. Dal 1998 il Pil della Cina è aumentato dell’80 per cento, e non accenna a fermarsi. A rigor di logica, il peso del paese asiatico dovrebbe perlomeno raddoppiare, e altrettanto si dovrebbe fare per gli altri paesi emergenti quali l’India, la Corea, il Brasile, e così via. Se si sommano tutti questi incrementi, si arriva facilmente al 10 per cento dei voti, che bisognerà dunque sottrarre a quei paesi che crescono più lentamente, per esempio quelli europei. Ma la revisione delle quote deve essere approvata dall’85 per cento dei voti: poiché i paesi membri dell’Unione Europea raggiungono complessivamente quasi il 29 per cento dei voti, non è difficile immaginare come andrà a finire.
Ma non basta. Giacché non si possono riunire i rappresentanti dei 184 paesi membri attorno a un tavolo, le decisioni sono prese da un consiglio di amministrazione composto da ventiquattro direttori generali. Otto paesi hanno un proprio direttore generale: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Cina, Russia e Arabia Saudita. Gli altri paesi sono riuniti su base geografica in circoscrizioni, ciascuna delle quali ha un suo direttore generale che vota per il gruppo di paesi da lui rappresentati. I direttori generali europei sono otto, contro i cinque asiatici. Per esempio, il direttore generale olandese rappresenta, oltre al suo paese, dodici Stati tra cui Israele, Ucraina e Georgia. Un accidente della storia, senza dubbio, ma il dominio europeo fa digrignare i denti a molti, tanto più che il numero di voti controllati dai direttori generali europei rappresenta quasi il 36,4 per cento del totale. Una vera forza d’urto diplomatica che, curiosamente, evita di esprimersi sulle critiche di chi accusa l’Fmi di essere uno strumento nelle mani degli Stati Uniti.
Un altro accidente della storia è la nomina del direttore generale, il quale ha un potere notevole. Dalla conferenza di Bretton Woods, nel 1944, un accordo non scritto prevede che a dirigere il Fondo sia un europeo e la Banca Mondiale sia affidata a un americano. Sessant’anni più tardi, questa spartizione del mondo continua ancora. Uno spagnolo, Rodrigo de Rato, è succeduto nel 2004 al francese Michel Camdessus alla testa dell’Fmi. I denti stridono. E va aggiunto che il numero due, oggi Anne Krueger, è sempre uno statunitense.
Dopo la crisi asiatica, che aveva mostrato le numerose lacune nel funzionamento e nella dirigenza dell’Fmi, sono fioccate le proposte di riforma. Alcune hanno furore iconoclasta: l’ala destra del Partito Repubblicano ha suggerito di sopprimere il Fondo che, ai suoi occhi, “mette le mani nelle tasche” del contribuente. Il Giappone ha proposto di creare un Fondo monetario asiatico, per contrastare un Fmi davvero troppo occidentale. Altri osservano che ormai nessun paese dell’Ocse ha bisogno degli aiuti del Fondo, e dunque per quale ragione questi paesi, molto semplicemente, non si ritirano lasciando gestire ai potenziali beneficiari quello che è sempre stato concepito come uno strumento di aiuto reciproco? Tutto ciò renderebbe liberi molti voti e molte poltrone.
Le proposte di Anne Krueger riprendono molte idee espresse dai più moderati. Si tratterebbe innanzitutto di rivedere le quote. Attualmente, si parte da una formula complessa (che calcola il Pil, le esportazioni e le importazioni, le riserve di cambio), dopodiché si negozia. L’idea sarebbe quella di semplificare tale formula e di non negoziare più: povera Europa.
Si dovrebbero poi ridisegnare le circoscrizioni, costituite disordinatamente, a mano a mano che il numero dei paesi membri passava da 29 a 184. Poiché si tratta soprattutto di aiutare i paesi a tutelare la loro valuta, alcuni hanno proposto di far confluire tutti quelli della “zona euro” in una sola circoscrizione. In altre parole, la Francia perderebbe il suo posto esclusivo, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna conserverebbero il loro: povera Francia.
Naturalmente, non avrebbe più ragione d’esistere il monopolio europeo sul posto di direttore generale. Si tratterebbe di scegliere questa figura tra i diversi candidati proposti in virtù delle sue competenze. Ah, com’è faticosa la globalizzazione.

*La versione originale dell’articolo è disponibile sul sito www.telos-eu.com. Traduzione a cura di Laura Danieli

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