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Dal vicolo cieco alla stabilità

La manifestazione di sabato ha riportato al centro del dibattito di politica economica il mercato del lavoro e la sua regolamentazione. E rischia di acuirsi lo scontro sociale proprio mentre una complessa Finanziaria inizia il suo iter parlamentare. Si può evitarlo cercando di garantire alle imprese la flessibilità in entrata e ai lavoratori un percorso ben definito verso la stabilità. Attraverso un disegno complessivo che preveda un ingresso al lavoro in tre fasi (prova, inserimento e stabilità), salario minimo e contributo previdenziale uniforme.

Dal vicolo cieco alla stabilità

La manifestazione di sabato non ha proposto nulla per combattere il precariato, ma ha avuto il pregio di riportare i temi del mercato del lavoro e della sua regolamentazione al centro della politica economica. Il ministro Damiano, bersagliato dai manifestanti, ha annunciato un’’imminente stretta sulla possibilità delle imprese di assumere con contratti a tempo determinato, a meno che le parti sociali trovino entro tre mesi un accordo a riguardo. Ma Confindustria sostiene che ridurre la facoltà delle imprese di assumere a termine sarebbe come portare il paese indietro di un decennio. Mentre molti manifestanti di sabato chiedevano l’’abolizione della normativa in materia, dal Pacchetto Treu alla Legge Biagi. Insomma, siamo di fronte a un ennesimo vicolo cieco, destinato solo ad acuire lo scontro sociale e a dividere il paese proprio mentre la criminalità di Napoli dilaga e una “complicata” legge Finanziaria comincia il suo difficile cammino in aula.

Un percorso sempre aperto

La situazione è intricata, ma riteniamo che ci sia una via d’uscita: è possibile garantire alle imprese la flessibilità in entrata e ai lavoratori un percorso ben definito verso la stabilità, evitando psicodrammi collettivi da precarietà. Vediamo come.
Le riforme del mercato del lavoro di questi anni hanno reso più facile il primo ingresso nel mercato, come dimostrato dal calo strutturale della disoccupazione giovanile (circa 6 punti percentuali nel periodo 1998-2005). Ma hanno creato un canale parallelo, una specie di mercato del lavoro secondario. E il passaggio dal mercato del lavoro secondario a quello primario è terribilmente incerto, senza sentieri e percorsi stabiliti.
Inoltre, ci sono problemi di sostenibilità: in assenza di correttivi, ce ne accorgeremo fra venti-trenta anni quando le prime generazioni di lavoratori temporanei arriveranno all’’età di pensionamento con contributi insufficienti ad alimentare una pensione superiore ai minimi sociali. Nel nuovo regime previdenziale, i contributi pagati dai co.co.co, uniti a salari di ingresso che sono spesso al di sotto della soglia di povertà (secondo i dati di Banca d’’Italia, c’’è quasi un 10 per cento di lavoratori atipici che riceve meno di 4 ore all’’ora)

e a frequenti periodi di disoccupazione non coperti da assicurazioni-ammortizzatori sociali e contribuzioni figurative, sono insufficienti a garantire una pensione adeguata.
Bisogna allora definire un percorso che funzioni indipendentemente dall’’età, non solo per entrare, ma anche per rientrare nel mercato del lavoro. Non deve comportare salti nel vuoto, né costi per lo Stato. Non vorremmo che, domani, esigenze di bilancio imponessero di cambiare il percorso, come avvenuto con il taglio al bonus assunzioni introdotto nel 2000. Il percorso di ingresso deve valere per tutti ed essere sempre aperto.

Le proposte

Ecco dunque le nostre proposte. Bisogna attuarle simultaneamente perché fanno parte dello stesso disegno, volto ad assicurare un ingresso sostenibile nel mercato del lavoro.
Il sentiero a tappe verso la stabilità. Il canale principale di entrata nel mercato del lavoro deve prevedere un sentiero di lungo periodo per i lavoratori, e, al tempo stesso, permettere alle imprese un’’assunzione “flessibile”. Nella nostra proposta, il sentiero ha tre fasi: la prova, l’’inserimento e la stabilità. Chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato, è soggetto a un periodo di prova di sei mesi, come oggi avviene già per alcune categorie. Serve a non scoraggiare il datore di lavoro che vuole essere garantito circa le qualità del lavoratore. Successivamente, dal sesto mese al terzo anno dopo l’’assunzione, il lavoratore è coinvolto in un periodo di inserimento in cui viene tutelato dall’’articolo 18 per quanto riguarda il licenziamento disciplinare e discriminatorio e dalla protezione indennitaria (da due a sei mesi di salario) nel caso di licenziamento economico. È questo il periodo in cui datore di lavoro e lavoratore investono in capitale umano specifico all’’azienda. Al termine del terzo anno, la cosiddetta tutela reale (reintegra) viene estesa anche ai licenziamenti economici. A questo punto per l’’azienda, che ha già investito nel capitale umano del lavoratore, sarebbe comunque molto costoso interrompere il rapporto di lavoro. Quindi, questa forte protezione dell’’impiego non è tale da dissuadere il datore di lavoro dall’’assumere il lavoratore. Al contempo, riteniamo che la durata massima del contratto a tempo determinato (Ctd) debba essere ridotta a due anni, mentre si dovrebbero aumentare i contributi per l’’assicurazione contro la disoccupazione versati da chi assume con Ctd, per coprire i costi, altrimenti scaricati sulla collettività, legati al pagamento di sussidi di disoccupazione agli ex-dipendenti il cui contratto non sia stato rinnovato alla scadenza . Un’’impresa che trasforma un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato non potrà comunque fruire del periodo di prova. Insomma, i contratti temporanei devono essere utilizzati soltanto per prestazioni lavorative veramente a termine, mentre il periodo di prova lungo permetterà alle imprese di decidere con maggior flessibilità l’’assunzione a tempo indeterminato.
Salario minimo. Coprirebbe i lavoratori oggi lasciati fuori dalla contrattazione. Rimediando a una situazione in cui i datori di lavoro hanno un potere di mercato eccessivo, potrebbe finire per creare più occupazione. Come mostrato dall’’esperienza dei paesi latino-americani, non è affatto ovvio che crei lavoro nero. Potrebbe avvenire esattamente il contrario.
Contributo previdenziale uniforme. Qualunque prestazione lavorativa deve avere la stessa copertura previdenziale, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro, il che significa uniformare le aliquote contributive tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, a partire dai contratti a progetto. Questi standard devono garantire un’’adeguata copertura previdenziale. La Finanziaria compie un primo passo in questa direzione. Il legame fra contributi e pensioni future va reso più trasparente mandando a tutti i lavoratori rendiconti che documentino l’’evoluzione dei propri diritti previdenziali, così
come avviene in Svezia. Questo permette che contributi più alti non vengano percepiti come tasse, ma come risparmi, accantonamenti obbligatori per garantirsi una pensione adeguata. Non avrebbero così effetti negativi sull’’occupazione.

Stabili per legge, di Riccardo Del Punta

Il ministro Damiano ha ragione, ovviamente, a dolersi degli slogan verbalmente violenti che gli sono stati rivolti nella manifestazione pro-precari del 3 novembre scorso. Si rimane un poco stupiti, nondimeno, del suo stupore. Quando era all’’opposizione, la maggioranza della quale il ministro fa parte aveva scagliato ripetuti anatemi contro il decreto Biagi, additato come responsabile della precarizzazione, naturalmente “selvaggia”, del mercato del lavoro italiano. L’’inserimento, nel programma dell’Unione, dell’’obiettivo di una profonda revisione della legge, era sembrato null’’altro che la logica conseguenza di tale campagna d’’opinione, che aveva trovato sponde anche in settori, oggi per lo più silenziosi, della dottrina giuslavoristica.
Tuttavia, al recente convegno “riformista” di Venezia, con l’’aria di dir cosa ovvia, ma senza curarsi della contraddizione con le valutazioni precedenti, Cesare Damiano ha affermato che il decreto Biagi non ha avuto un significativo impatto concreto. Nulla di male, naturalmente, o quanto meno nulla di nuovo. Salvo che v’era chi, quella demonizzazione, l’’aveva presa sul serio, tanto si prestava ad alimentare le emozioni classiste delle quali si nutre l’’immaginario della sinistra “antagonista”.

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Gli effetti della drammatizzazione

Le odierne difficoltà del centrosinistra, e del ministro in particolare, sui temi del lavoro, sono anche figlie, dunque, di un’’analisi falsata delle politiche della passata legislatura, delle quali è stato largamente drammatizzato l’’effetto, con una deformazione speculare a quella del governo di allora. Per vero, il numero dei precari è effettivamente in crescita (pur restando inferiore alla media europea), e stanno purtroppo profilandosi anche fenomeni di cronicizzazione della precarietà. Ma onestà vuole che si riconosca che queste tendenze sono in atto da tempo, soltanto accentuate, e non in grande misura, dal decreto Biagi e dalle altre leggi del periodo. Così, ad esempio, il ricorso al lavoro a termine non è granché aumentato a seguito dell’’introduzione, nel 2001, di una disciplina potenzialmente più flessibile; e tutto il male si potrà dire del lavoro “a progetto”, ma non che abbia liberalizzato i già flessibilissimi co.co.co, avendone irrigidito, piuttosto, il regime normativo.

Modifiche sì. Ma quali?

Non per questo quelle leggi vanno esenti da critiche, e non sono opportune revisioni. Ma il punto è: in quale direzione, e in nome di quale modello sociale? La vox populi propone di concentrare gli sforzi sulla lotta alla precarietà, in un ideale sviluppo espansivo della tradizionale logica protettiva del diritto del lavoro. In questa chiave, è stata riproposta l’’idea di modificare la nozione legale di lavoro subordinato, così da farvi rientrare, in massa, tutti i co.co.co.
Ma la fragile economia italiana sarebbe in grado di reggere uno shock del genere, o non si moltiplicherebbero le fughe nel sommerso? E siamo poi certi che la lotta alla precarietà si possa combattere con un ennesimo intervento sulle tipologie contrattuali, che sono, per incidens, molte meno delle quaranta talora favoleggiate? O non invece con una più realistica flexicurity, ossia portando avanti la riforma dei servizi per l’’impiego (a proposito, a che punto è?) e predisponendo una rete di sicurezza sociale “attiva”, finalmente adeguata ai nuovi bisogni, ma anche alle nuove esigenze di responsabilizzazione individuale delle persone in cerca di occupazione, del post-fordismo? Perché abbandonare, insomma, le migliori idee emerse nella XIII, così come nella XIV legislatura, molte pagine del Libro bianco comprese, a cominciare dallo Statuto dei lavori, in nome dell’’illusione di abolire il precariato per decreto, che oltretutto sopravvaluta la forza della hard law?
Questo non significa che si debba rinunciare a orientare il sistema verso la stabilità dei rapporti, ma la difficile quadratura fra essa e la necessità competitiva di non sottrarre flessibilità in entrata alle imprese, richiederebbe, come nella ragionevole proposta avanzata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi , di profanare, in qualche misura, il sancta santorum del rapporto a tempo indeterminato.
L’’impressione è che il ministro del Lavoro sia ben consapevole di tutto ciò, e che le sue prime mosse siano andate nella giusta direzione. (1) Ma l’’accusa di fare poco per i precari, nutrita dalla trasversale demagogia italica, è evidentemente insopportabile, e già l’’annunciata revisione della disciplina del contratto a termine, sebbene preceduta da una sollecitazione – che riuscirà probabilmente vana – alle parti sociali, sembra il segno di un cedimento alle pressioni da sinistra.

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Le critiche da fare

Per tacere del fatto che le vere critiche alla pur ancora sfuocata politica governativa, dovrebbero essere, semmai, di segno opposto. L’’idea di un diritto del lavoro abbarbicato attorno alla sua vocazione “protettiva” sembra, infatti, ormai “datata”: manca l’’appuntamento con quell’’istanza di modernizzazione della disciplina, che si trova sottolineata anche da una comunicazione, ancora in bozze, della Commissione europea. Eppure, tale vocazione potrebbe persino acquistare nuova linfa, se si avesse il coraggio politico di coniugare le preoccupazioni sociali con l’’obiettivo del recupero dell’’efficienza e della competitività del sistema, e in primis della produttività del lavoro, i cui andamenti sono da tempo deludenti, se non, nel settore pubblico e para-pubblico, mediamente sconfortanti. Più diritti, anche di nuova generazione (ad esempio, a una formazione continua), ma nel quadro di uno sforzo comune proteso alla crescita economica. Questo sarebbe fare regolazione in senso moderno.
Ma per “mordere” davvero su questi temi sarebbe indispensabile una fattiva collaborazione dei sindacati, della quale tuttavia non si coglie, nel declino progettuale che caratterizza tali organizzazioni, alcuna traccia. Fra pressioni massimalistiche e resistenze conservatrici, la missione del riformismo sembra dunque, anche in questa legislatura, quasi impossibile. Al punto da consigliare ai “volenterosi”, quanto meno, una minore cautela verbale, giacché il tempo utile, per il paese, potrebbe essere prossimo ad esaurirsi.

(1) Come la circolare sui call center e le misure “zapateriane” di incentivo alla stabilizzazione.

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  1. Federico Salis

    Concordo con l’affermazione che ” i contratti temporanei devono essere utilizzati soltanto per prestazioni lavorative veramente a termine” tuttavia, a mio personale parere, nella costruzione di un meccanismo che traghetti il lavoratore verso la stabilità del rapporto di lavoro occorre ricordare che interi settori produttivi vivono di lavoro stagionale o di lavoro extra. Nel comparto turismo le imprese avrebbero non poche difficoltà a sostenere un aumento dei contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione versati, come da Voi sostenuto, “da chi assume con contratti a termine, per coprire i costi, altrimenti scaricati sulla collettività, legati al pagamento di sussidi di disoccupazione agli ex-dipendenti il cui contratto non sia stato rinnovato alla scadenza”.
    Quella che può essere considerata precarietà in alcuni comparti è, nel turismo, nella maggioranza dei casi necessità per le aziende e opportunità di impiego per i lavoratori.

  2. Maria Rosa Gheido0

    Credo debba essere affrontato con urgenza un ulteriore vincolo dato dall’assimilazione (previdenziale) dei lavoratori a progetto con i lavoratori autonomi, dalla quale deriva: il non riconoscimento dell’automaticità delle prestazioni – particolarmente iniquo essenso il versamento dei contributi delegato al committente – e il criterio di cassa, che condiziona l’accredito pensionistico al pagamento dei compensi e non alla loro maturazione.

  3. Claudio Resentini

    Ci potreste spiegare, per favore, quale meccanismo nella vostra proposta dovrebbe convincere TUTTE le imprese (di questo si parla, no?) e non solo quelle “illuminate” ad investire sul cosiddetto “capitale umano” dei propri dipendenti nei primi tre anni di rapporto invece di utilizzare la possibilità di licenziamento a basso costo come l’ennesimo “ammortizzatore (a)sociale” per i loro fallimenti imprenditoriali e/o manageriali?
    Insomma alla stregua di co.co.co., co.co.pro., lavoro somministrato, lavoro a tempo determinato, false partite IVA, false cooperative, caporalato, lavoro nero, outsourcing e subappalti, delocalizzazioni e “scatole cinesi” varie, ecc., tutti i dispositivi, legali, paralegali o illegali, che hanno ridotto il lavoro in mero input di produzione ed i lavoratori a meri fornitori di tale input invece che soggetti che su un’occupazione stabile potrebbero fondare sogni, speranze, progetti e che invece sono costretti a vivere alla giornata.
    Ritenete davvero necessario estendere la precarietà a tutti trasformando l’eccezione in regola (il tempo indeterminato in tempo determinato) per eliminare il dualismo del mercato del lavoro? Qual è la filosofia sottesa a questa visione del mercato del lavoro? Giustizia sociale? Ma a chi giova questa giustizia? Mal comune mezzo gaudio? Ma è davvero “comune” questo male o è collocato in modo preciso e puntuale dal punto di vista sociale?
    Cordiali saluti

    • La redazione

      Gli imprenditori cercao opportunità di profitto, non amano torturare i propri dipendenti. Se il contratto non ha una scadenza, saranno indotti a investire nel capitale umano del dipendente, soprattutto se questi si dimostra disposto ad apprendere. cordiali saluti

  4. Paolo Bortolini

    Faccio fatica a capire. Si parla di usare la legge per indurre assunzioni a tempo indeterminato. Che io sappia, le imprese assumono a tempo indeterminato se ne hanno un motivo economico, cioè se le loro aspettative di mercato sono positive. Perchè un’impresa, e penso anche a chi ha pochissimi dipendenti, ad esempio uno studio professionale, dovrebbe sostenere un costo del lavoro elevatissimo, quello del tempo indeterminato, e una burocrazia relativa a mio avviso vergognosa (si veda la quantità di documenti che si accumulano presso i datori di lavoro a seguito dell’intrattenimento di un rapporto di lavoro dipendente)? Perchè non si affronta il vero nodo che è quello di una contribuzione insostenibile per la maggioranza delle attività? Perchè non si contesta al Governo che il taglio del “cuneo” è cosa ridicola in rapporto a quanto rimane da versare al fisco e alla previdenza?

  5. giovanni

    La manifestazione di sabato, pur avendo avuto il merito di riportare in auge il dibattito sulla precarità, ha mostrato pienamente tutti i limiti di un dibattito ideologico, sfruttato in campagna elettorale e prontamente “sfrattato” dal dibattito politico dopo le elezioni. Come lavoratore atipico vorrei porre l’attenzione su due questioni:
    1) l’ampio utilizzo di cooperative di servizi nella pubblica amministrazione consente sicuramente di coniugare flessibilità (quindi maggiore efficienza nelle P.A) e un discreto livello qualitativo, quindi più che sull’abolizione della Leggi Biagi o 30, sarebbe meglio puntare all’introduzione di un mimimo salariale e a strumenti legislativi che inducano le aziende(opps..le coop!) a investire nella formazione delle Risorse umane. Un giro di vite sui contratti atipici, vanificherebbe i risultati occcupazionali ottenuti negli ultimi anni.
    2) Mi sembra che i Sindacati Conferali, siano e siano stati del tutto latitanti, incapaci di coinvolgere nel dibattito sulla riforme(che hanno contribuito a varare…) del mercato del lavoro degli ultimi anni proprio quei lavoratori (soprattuto giovani precari) che abbiamo visto sfilare a Roma il 4 novembre.
    Forse bisognerebbe, (azzardo) aprire un dibattito sul funzionamento delle Rappresentanze Sindacali e sull’ eccessiva ideologizzazione delle politiche dl lavoro che altro non ottengono se non di lasciare molti giovani come me con stipendi da 500-600 euro al mese. Grazie e Buon Lavoro.

  6. Paolo Gabriele

    Purtroppo non si riesce a tenere dietro ai nuovi modelli di business applicati nelle aziende. Le aziende in grado di far aumentare notevolmente l’occupazione sono quelle a più alto tasso di crescita, che seguono percorsi di sviluppo del tutto differenti da una grande conglomerata manufatturiera tradizionale. I lavoratori necessari sono altamente specializzati e tecnicamente, oltre che culturalmente, molto preparati. Per questi lavoratori il lavoro “non stabile” e, sottolineo, ben pagato, potrebbe essere una scelta per lo sviluppo delle proprie professionalità e per il mercato che li richiede. Pertanto anche se la difesa del lavoro “stabile” ad oltranza venga sostenuta per ragioni puramente ideologiche o di consenso politico, va detto che questo tipo di “garanzia” va bene per un lavoratore senza qualità che non riesce a mettere in gioco se stesso e le proprie competenze. Per tutti gli altri è una specie di autolimitazione. L’economia americana così come quella anglossassone in generale, fatte le debite differenze con l’Italia, cresce anche per la grande mobilità dei lavoratori specializzati, che si badi bene, in gran parte è dovuta a scelte operate dallo stesso lavoratore che impegnato in un lavoro, ottiene offerte migliori da altre imprese. In un mercato bloccato come il nostro, certo, non si può richiedere una rivoluzione culturale di questo genere. Ma il rimuovere troppi lacci allo sviluppo non è questo uno degli obiettivi del PROGRAMMA, ed è fissando tariffe, limiti alla mobilità dei lavoratori e tarpando el ali alle aziende più promettenti e che possono investire di più in ricerca e rsorse umane che si recupera competitività? O si crede che solo alleggerendo il costo contributivo-fiscale dei lavoratori impiegati si potrà far fronte ad un’economia in rapidissima evoluzione?
    Forse sviluppo e mercato del lavoro nel nostro Paese sono variabili di una stessa equazione: più liberta nel monfo del lavoro= più competitività, almeno nel 2007.

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