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PRECARIATO: UNA PERCEZIONE?*

L’uso del termine precariato, forma deteriore della parola flessibilità, si è venuto a sviluppare negli ultimi dieci anni.
La percezione di un mondo del lavoro precarizzato non è supportata dai dati quantitativi che la statistica ci propone, ma l’economia è fatta di analisi anche qualitativa, ed è bene fare delle osservazioni sul perché nella società italiana si avverta quello del “lavoro” come un problema, che causa insicurezza nei giovani (e non solo).
Chi scrive pensa spesso alla storia dello statistico che annega nel lago alto mezzo metro, in media, ed il povero statistico oggi rischia spesso di trovarsi dal lato del fondale alto due metri, e rischia quindi di non vedere i fenomeni nella loro interezza, in una società sempre più variegata, nella quale le forme del lavoro sono tante.
Gli indicatori statistici sono indizi per comprendere i fenomeni, informazioni, e per comprendere le problematiche nella loro interezza occorre considerarli nel tempo e non isolatamente, per costruire così la “conoscenza” dei fenomeni.

Ad esempio, l’osservazione dei dati forniti dagli ultimi dati dell’indagine ISTAT sulle Forze Lavoro (concernente il trimestre  che va dal 2 aprile all’1 luglio 2007) ci indica che il tasso di disoccupazione si è posizionato al 5,7 per cento (6,5 per cento nel secondo trimestre 2006) e si è ridotto in tutte le ripartizioni geografiche (Nord, Centro, Mezzogiorno). A tale dato si contrappone però la discesa su base annua dell’occupazione nel Mezzogiorno (-0,9 per cento), mentre a livello Italia essa cresce dello 0,5 per cento.
Occorre quindi chiedersi se la normativa sul mercato del lavoro esistente riesca a produrre effetti in una situazione complessa come quella del Sud, dove forse le problematiche prioritarie da risolvere (come la legalità e le infrastrutture) sono altre.
Senza entrare nel merito del diritto di ogni lavoratore a migliorare, perché un paese “felice” è probabilmente un paese con alta mobilità sociale, e l’Italia non vive questa situazione, il tempo determinato può essere talvolta un’esigenza aziendale legata anche alla produttività.
La quota di contratti a termine sul totale dell’occupazione, aumentata dal 12 al 14% nel corso degli anni ‘90, è rimasta stazionaria tra il 2001 ed il 2005.
Penso che la flessibilità sia vista in Italia come precariato per i seguenti motivi che cerco di sintetizzare:

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-   l’economia è abbastanza ferma, infatti i consumi concernenti la spesa delle famiglie residenti, ai prezzi dell’anno precedente, crescono con percentuali vicine allo 0,5 per cento nel secolo in corso, con una ripresa  nel 2006 (+0.9%); i lavoratori precari ne possono risentire psicologicamente più degli altri, perché al problema dell’insicurezza del lavoro si aggiunge quindi quello della difficoltà a fare la spesa;
-        gli ammortizzatori sociali nel nostro paese sono ridicoli (ad oggi il 40% dell’ultimo stipendio per 6 mesi) come percentuale dell’ultimo stipendio e come durata, che andrebbe almeno triplicata. Per fare ciò bisogna ovviamente ridurre la spesa previdenziale, ed il sistema a capitalizzazione è ideale per ciò, perché ognuno ottiene al ritiro in proporzione a quanto ha versato. Poiché il sistema a capitalizzazione dipende dal rendimento del capitale, ci si potrebbe assicurare contro i rischi ricorrendo all’aiuto dello Stato. Un sistema a capitalizzazione sarebbe però da proporre a livello europeo, perché più ampio è il mercato dei capitali, maggiore è la diversificazione e minore il rischio;
-        i centri dell’impiego non fanno incrociare domanda e offerta di lavoro, che rimangono spesso sole nella ricerca di professionalità l’una e di impiego l’altra: i centri dell’impiego dovrebbero, tramite selezioni adeguate, creare il legame di fiducia e rimediare all’asimmetria informativa nella rispettiva del lavoratore e del lavoro, e potrebbero così permettere ai dipendenti a tempo determinato di migliorare, dal punto di vista dei salari e/o della stabilità del lavoro;
-        l’esistenza di onerosità ed impedimenti nella ricongiunzione contributiva tra esperienze lavorative appartenenti a gestioni diverse, per la stessa persona  (e   mi richiedo se non converrebbe passare ad un sistema pensionistico a capitalizzazione, usando il TFR a tale scopo per una fase di transizione);
-        le scelte economiche a favore degli svantaggiati, dei bassi redditi e delle imprese, da parte dei governi “precari”, perché incapaci di decidere, sono omeopatiche, a seguito dei vincoli di Maastricht, ed a causa della volontà di accontentare un po’ tutti, senza così compiere atti significativi per alcuno; le decontribuzioni per assunzioni a tempo indeterminato, ad esempio, dovrebbero essere più visibili e quindi consistenti. Con Maastricht cambia la politica economica dei governi che devono considerare i vincoli della politica monetaria (stabilita dalla BCE) e del deficit pubblico (in particolare) intervenendo su altre variabili a disposizione per fare politica economica (politica fiscale, industriale, del welfare). 
-        l’assenza di un chiaro ed automatico pacchetto di prestazioni gratuite automatiche per precari e  disoccupati (in sintonia con i Servizi per l’impiego), come la formazione superiore ed universitaria, l’aggiornamento, ed esenzioni selettive da tasse e imposte;
-        l’assenza di una politica del part time, che permetterebbe ad alcune categorie (donne, studenti) di essere più libere e vedere positivamente la flessibilità. L’Italia rimane ancora indietro nelle classifiche d’Europa quando si parla di part time, con circa il 13,5% della forza lavoro; i contratti part time sono ovviamente più diffusi al Nord che nel Mezzogiorno ed i risultati in termini di occupazione si vedono. Servono quindi aziende pronte a mutare le modalità organizzative, ma anche accordi collettivi che limitino meno la concessione del part time, con l’obiettivo di evitare la iperflessibilità (part time più tempo determinato). Un’idea potrebbe essere quella di inserire nella legislazione un limite ai rinnovi dei contratti a tempo determinato: dopo i primi tre contratti il rapporto si trasformerebbe a tempo indeterminato, con la possibilità per l’azienda ed il dipendente di optare, al bisogno, per il part time.

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Senza formazione e sviluppo ed in assenza della possibilità di rivendere le professionalità acquisite non si può uscire dalla spirale del precariato, e quindi non bastano le leggi sul mercato del lavoro per ottenere ciò, ma serve essere protagonisti di una maggiore produttività, e la politica può fare tanto, come si è evidenziato nei punti precedenti, senza illudere  bamboccioni e non.

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A BALI PER UN CLIMA MIGLIORE

  1. FRANCESCO COSTANZO

    La ringrazio molto per l’articolo, che organizza in modo sistematico riflessioni che, presumo, molti lettori avevano fatto autonomamente. Per quanto riguarda i centri per l’impiego e gli intermediari in genere, la mia "percezione" è diversa… io ho sostenuto colloqui sia con importanti "head hunters", che con agenzie interinali: il risultato è stato che il lavoro l’ho sempre trovato per conto mio, mentre dagli intermediari ho avuto "lavoretti", e perlopiù problemi e perdite di tempo. L’idea che mi sono fatto (purtroppo sulla mia pelle) è che i "cosiddetti" intermediari considerino i lavoratori una "materia prima", per loro a costo zero, disponibile "a piene mani e a qualunque condizione", mentre le aziende che pagano sono i "clienti". In questo modo, viene totalmente distorto il significato della parola intermediario. Per quanto riguarda il rinnovo a termine per 3 anni, mi sembra che questa soluzione non raggiunga l’obiettivo "dichiarato" dal Governo, di incentivare il ricorso ai contratti a tempo indeterminato, ma disincentivi il ricorso ai contratti a termine. La vera "spinta", può arrivare solo da una corretta politica fiscale, ma per ora nemmeno se ne parla, mi pare…

  2. Claudio Resentini

    Parlare di flessibilità tout court non significa nulla e credo che sia altrettanto difficile trovare indicatori oggettivi e quantitativi per la flessibilità che per la precarietà. Del resto flessibilità del lavoro e flessibilità dell’occupazione non sono la stessa cosa. Se il lavoro come input di produzione è facilmente quantificabile (ha un costo), l’occupazione, intesa come collocazione in un’organizzazione produttiva, associata ad uno status sociale che comporta diritti e doveri e contribuisce a determinare l’identità sociale degli individui, lo è molto meno (si veda in proposito l’aureo libricino “La flessibilità del lavoro e dell’occupazione” Barbier e Nadel . E’ in relazione alla flessibilità dell’occupazione che si può e si deve parlare di precarietà. Se si confondono i termini si può dire tutto e il contrario di tutto.
    E non devo certo insegnare ad un ricercatore dell’ISTAT come i concetti statistici di occupazione e disoccupazione si siano modificati negli anni per mistificare i guasti prodotti dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro sulla condizione occupazionale generale (in termini di incremento strutturale della disoccupazione e sottoccupazione).

    • La redazione

      I concetti statistici di occupazione e disoccupazione visti insieme ai vari indicatori sul mercato del lavoro, come ad esempio le Ula (Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno) permettono di avere notizie interessanti sul fenomeno della flessibilità: la statistica aiuta a capire, non va usata per mistificare alcunché.

  3. GIANLUCA COCCO

    La sua introduzione è piuttosto curiosa. Le statistiche ufficiali sottostimano i dati quantitativi sul precariato italiano e lei parla addirittura di percezione. Ma forse è solo un problema di accezioni. Precario non è solo colui che non trova prospettive dai ripetuti contratti temporanei. Precario è anche chi lavora senza contratto (oltre 3 milioni di unita di lavoro a tempo pieno). Precario è anche chi lavora part-time involontariamente a 400-500 euro al mese. Precario è anche chi lavora a tempo indeterminato in aziende, che a causa delle mutevolezze del mercato o per altre cause, potrebbero fare a meno dei propri lavoratori. Precario è chi va a lavorare con la paura di morire o di farsi male. Tutto cio ha un’unica causa: libertà economiche. Saluti.

    • La redazione

      Non penso che il precariato sia una percezione, mi chiedo però nell’articolo come fare per non trasformare la flessibilità in precariato (dal punto di vista materiale e percettivo).

  4. ugo bassi

    L’analisi delle statistiche dipende dalle satistiche oggetto dell’analisi stessa. Infatti se consideriamo che all’apparente aumento dell’occupazione non corrisponde un proporzionale aumento delle ore lavorate, pare evidente che in realtà non c’è stato alcun incremento. In realtà la cosiddetta flessibilità, usata in modo opportunistico e senza scrupoli dagli imprenditori, ha generato per la maggior parte dei casi occupazione ad ore o a progetto o con contratti a tempo determinato, molto determinato!!! ESEMPIO Se lo stesso lavoro (spendendo anche meno utilizzando le agevolazioni di legge) lo faccio fare a più persone con contratto "flessibile", ho aumentato il numero di occupati, ho risparmiato, ho aggirato l’articolo 18 e faccio ciò che voglio. Certo è che senza imprenditori seri che sappiano guardare al futuro con una visione di prospettiva (senza vivere di aiuti statali), e con dei sindacati ancorati ancora a valori ideologici non più aderenti alla realtà, sarà difficile trovare delle soluzioni.

  5. Salvatore B.

    Concordo con lei rigurdo il part-time a tempo determinato. Pongo una riflessione forse uscendo un pò fuori tema: è possibile una incentivazione del part-time in settori diversi da quelli in cui è fin ora più diffuso (per es. call center, supermercati, cooperative sociali) senzaricorrere ad una forte spesa pubblica per la diffusione dei servizi per l’infanzia come avvenuto in Svezia? Se sì in che modo?

    • La redazione

      Gentile lettore,
      penso che il part time sia una forma di lavoro da guardare con simpatia, per le donne che sono mamme, per tutti quelli chepreferiscono avere più collaborazioni, perché spesso lo richiedono le necessità individuali o produttive. Liberare le energie e le capacità presenti nel Paese è condizione necessaria per crescere di più, e, in un’ Italia che cresce, aumentando
      la sua produttività, che ben venga la diffusione di servizi per l’infanzia con spesa pubblica  e privata.

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