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IN AMERICA NON SAREBBE SUCCESSO? FORSE SÌ

Hanno destato giustamente scandalo, nella comunità scientifica italiana, e non solo, due recenti concorsi per ricercatore di economia all’università del Piemonte Orientale e all’università dell’Insubria, in cui a vincere sono stati i candidati con i contributi scientifici obiettivamente più scarsi. Lavoce.info ne ha riferito, facendo eco a iniziative partite da altri gruppi e siti web. (1)
In questi giorni si è spesso sostenuto che in altri paesi, e specialmente in Nord America, cose del genere non sarebbero mai successe. Vogliamo qui lanciare invece una provocazione, sostenendo che anche in università nordamericane, candidati simili avrebbero potuto risultare come i migliori, nonostante il loro magro o inesistente curriculum scientifico. Il motivo risiede nel funzionamento del mercato accademico e nell’organizzazione del sistema universitario in Nord America, che fanno sì che criteri diversi possano essere usati per assumere candidati in diverse università, per garantire maggior efficienza e responsabilità.
Prima di sviluppare il nostro ragionamento, tuttavia, è importante precisare che, date le regole che governano i concorsi in Italia e i criteri di svolgimento e selezione che le commissioni sono tenute a seguire, le nostre osservazioni non sono attualmente applicabili al contesto italiano. E proprio per questo, esiti come quelli dell’università del Piemonte Orientale e dell’università dell’Insubria vanno segnalati e combattuti.

LA SELEZIONE DEI DOCENTI IN USA

Il mercato accademico in Nord America (e sempre più anche in altri contesti) è del tutto decentralizzato (qui il precedente intervento). Ogni università comunica l’apertura di posizioni di ricercatore o professore; la posizione può essere specifica o idiosincratica alla particolare università o dipartimento. Per rimanere al caso di economia col quale abbiamo più familiarità, un dipartimento può aver bisogno di un economista industriale o del lavoro, o di un macroeconomista. Di conseguenza, i criteri per assumere un candidato non sono sempre gli stessi. Se un dipartimento cerca un ricercatore che insegni e si occupi di economia del lavoro, potrebbe non offrire la posizione al candidato col maggior numero e qualità di pubblicazioni, se queste non sono pertinenti alla materia di interesse, o, più in generale al candidato, pur bravissimo, che non risulti un buon “fit” (anche, perché no, in termini di personalità) per quel particolare gruppo di colleghi.
Altrettanto importante è il fatto che non tutte le università sono uguali, sullo stesso livello e interessate agli stessi parametri qualitativi e quantitativi. Ci sono università orientate alla ricerca: qui si darà importanza ai risultati e al potenziale scientifico di un candidato. Ci sono poi le università in cui l’attività di ricerca è limitata o inesistente. Rientrano in questa categoria i “Liberal Arts colleges”, così come i community colleges, ovvero istituzioni locali che offrono programmi post-secondari specifici. In queste scuole, si cercano docenti con capacità e interessi diversi: non sempre, ad esempio, il miglior scienziato è anche il miglior insegnante. Inoltre, esiste anche una differenziazione “verticale”: in entrambi i gruppi ci sono università di migliore e peggiore qualità. Ad esempio, alcuni Liberal Arts colleges, dove l’attività di ricerca è minima, sono tuttavia molto prestigiosi e hanno educato importanti leaders. Per esempio, il segretario di Stato Hillary Clinton ha studiato a Wellesley, un Liberal Arts college, imparando da professori con un curriculum scientifico limitato, ma di certo ottimi insegnanti e formatori.
Le università locali e i community colleges godono di uno status inferiore. Questo non le rende meno importanti, ma semplicemente diverse e non paragonabili alle research universities o ai Liberal Arts colleges. (2)
Le differenziazioni hanno conseguenze importanti in termini di finanziamento e riconoscimento. Non tutte le scuole sono finanziate con gli stessi criteri e in egual misura (sia quelle pubbliche, sia quelle private) e anche i salari dei professori sono differenziati. Per le università orientate alla ricerca, produrre risultati scientifici di eccellenza è essenziale per ottenere fondi, e anche per attirare un certo tipo di studenti. Per le università dedicate principalmente all’insegnamento, i criteri di finanziamento sono diversi, improntati, appunto, alle attività didattiche.
L’annuncio di un posto vacante in un determinato dipartimento specifica le caratteristiche richieste dalla posizione, ma i criteri di scelta di ciascun dipartimento non sono di solito resi pubblici. Al contrario, ciascun dipartimento sceglie tra i vari candidati in piena autonomia. Tuttavia, il dipartimento stesso sopporta i costi dell’eventuale assunzione di un candidato mediocre o inadatto alla posizione: il suo prestigio cala, e con esso calano i finanziamenti e la disponibilità a pagare degli studenti. Dunque, ha tutti gli incentivi per fare la scelta migliore. I dipartimenti godono anche di piena autonomia nello stabilire il carico di insegnamento e il salario dei singoli ricercatori e professori. Quindi, candidati con diverse preferenze, predisposizioni e livelli qualitativi vengono “abbinati” alle diverse scuole dai meccanismi di mercato.

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IL CONFRONTO CON L’ITALIA

Le differenze con la situazione italiana sono notevoli. In Italia, i dipartimenti godono di autonomia nella selezione dei vari candidati, ma non pagano le conseguenze di scelte sbagliate, perché i finanziamenti sono in larghissima misura slegati dalla performance dei docenti (di ricerca o di insegnamento). È per questo motivo che casi come quello dell’università del Piemonte Orientale o dell’università dell’Insubria fanno tanto clamore: l’autonomia slegata dalla responsabilità si trasforma in puro arbitrio, e quindi in ingiustizie e inefficienze.
Date le regole attuali, una maggiore trasparenza nei criteri di selezione, accompagnata da maggiore attenzione da parte della comunità accademica, possono essere efficaci nell’individuare e prevenire casi come quelli del Piemonte Orientale o dell’Insubria in cui viene scelto il candidato obiettivamente peggiore. (3)
Crediamo però che il sistema andrebbe riformato in modo da garantire che i talenti vengano assegnati alle posizioni in cui sono maggiormente produttivi. Perché ciò accada, occorre però accettare che spesso il candidato migliore per una certa posizione non è quello con i titoli migliori sulla carta. I dipartimenti devono avere autonomia nello scegliere ricercatori e professori, ma devono anche essere responsabilizzati e pagare le conseguenze di scelte sbagliate. Se l’università del Piemonte Orientale o quella dell’Insubria vogliono assumere il candidato con zero pubblicazioni facciano pure, a patto che ne sopportino le conseguenze. Se vogliono caratterizzarsi come università votate alla ricerca, assumendo i peggiori candidati dovranno pagare le conseguenze in termini di minori finanziamenti e attrattività verso i futuri ricercatori – e anche in termini di prestigio dei selezionatori stessi. Se invece vogliono caratterizzarsi come università locali, di livello inferiore, oppure votate prevalentemente all’insegnamento, allora magari i candidati che scelgono sono dei buoni insegnanti. La competizione per i finanziamenti dovrà essere separata da quella delle università votate alla ricerca. In particolare, sarà in gran parte dovuta alle rette degli studenti, che saranno disposti a pagare in proporzione alla qualità dell’insegnamento. I docenti, con ogni probabilità, verranno pagati meno di coloro che svolgono anche attività di ricerca. L’allocazione dei talenti sarebbe così più efficiente. Maggiore competizione, su livelli multipli (qualità, vocazione dell’ateneo), toglierebbe potere contrattuale ai “baroni” e consentirebbe, ad esempio, ai migliori giovani ricercatori di competere “ad armi pari” e di avere maggior accesso a posizioni di ricerca.
Quanto descritto qui non può avvenire in Italia a “regime vigente”, ma solo riconoscendo che le università non sono necessariamente tutte uguali – e l’abolizione del valore legale del titolo di studio sarebbe un primo passo – rendendo più diretto il legame tra qualità e finanziamenti e mettendo in moto meccanismi per cui i vari atenei siano stimolate ad eccellere, anche in virtù di una sana concorrenza, e a differenziarsi.

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(1)  http://petizionesecsp01.wordpress.com/2011/12/09/33/ e http://petizionesecsp01.wordpress.com/2012/02/18/
(2) Queste differenze di tipo e di qualità sono formalizzate da una serie di programmi di accreditamento e da graduatorie stilate da varie organizzazioni. Ad esempio, la Carnegie Foundation classifica le università in diversi livelli qualitativi (in generale e in relazione al tipo o focus della scuola); la rivista Us News pubblica periodicamente classifiche di università e programmi post-laurea, generali e in base a specifiche sottocategorie. Per quanto riguarda specifiche facoltà, esistono programmi di accreditamento come quello offerto da AACSB International, Association to Advance Collegiate Schools of Business, nel caso di facoltà economico-aziendali.
(3) Nei due casi le tabelle comparative non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vedi: http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2011/12/concorso-alessandria-322.pdf; http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2012/02/concorso-insubria.pdf

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L’ATTESA

  1. Andrea Moro

    piu’ disinformativo di cosi’ non si puo’. Suggerisco un altro articolo che spiega le spousal hires, con titolo “anche in america si assumono i parenti”

    • La redazione

      Grazie mille, Andrea, per il commento. In effetti il titolo puo’ essere equivocato (e interpretato in maniera opposta a cio’ che e’ contenuto nell’articolo). Fortunatamente siamo su LaVoce e non su Twitter, quindi ci sono piu’ di 140 caratteri a disposizione dei lettori per leggere tutto l’articolo e farsi un’idea piu’ approfondita. Nicola e Mario

  2. GianMario Raggetti

    Complimenti per la chiarezza dell’articolo. La realtà universitaria statunitense è descritta bene: si percepisce come sia ipocrita, da parte nostra, continuare a fare confronti tra quella e la realtà accademica italiana. Quando finirà? Forse quando da noi, per legge: si eliminerà ogni valore legale dei titoli; si chiuderanno “tutte” le sedi universitarie distaccate ed i corsi di laurea sorti in contesti periferici improbabili; si vieterà ai laureati di intraprendere il ruolo di Dottorando e di Ricercatore nella Facoltà di provenienza; si aggregheranno le Università mal gestite per due anni consecutivi; si selezioneranno e si distingueranno Atenei dediti alla ricerca (pochi) ed Atenei eccellenti nel fornire una formazione superiore davvero efficace; si liberalizzeranno le tasse universitarie lasciando che esse siano fissate dai Consigli di Amministrazione di Ateneo. Non resta che sperare in un “Governo tecnico” deciso a fare una “legge” del genere: sarebbe l’inizio per ridurre l’ipocrisia di questi confronti, malinconici e provinciali, con Atenei anglossassoni, senza mai fare nulla affinchè i nostri i modo assomiglino un poco a quelli in modo sostanziale, strutturale e funzionale

  3. merito

    E’ inutile girarci intorno, l’ unico modo per fare selezione è quello di basare le assunzioni e la carriera dei dipendenti non sulla base della laurea o meno ma sulla effettiva preparazione e sulla qualità del lavoro che si svolge. Così facendo, la gente andrebbe a studiare dove veramente gli verrebbe insegnato qualcosa e non solo per avere un pezzo di carta che gli permetta di far carriera. Il merito non si valuta sul pezzo di carta che si possiede, ma sulla qualità e quantità del lavoro che si svolge. Non si valuta una volta e per sempre al momento dell’ assunzione, ma giorno per giorno dimostrando di meritare il lavoro ed il compenso che si ottiene. Se si volesse analizzare il perché del fatto che oggi tutti i giovani vanno all’ Università e non si dedicano subito al lavoro, si capirebbe che il motivo è dovuto al fatto che se non hai il pezzo di carta nessuno ti assume, non puoi fare carriera fino ai vertici, e per questo pur di avere un pezzo di carta tutti vanno all’ Università. Se invece le assunzioni e la carriera fossero svincolate dal possedere o meno la laurea ma basate sull’effettiva preparazione, sul merito vero, andrebbero solo dove gli viene insegnato qualcosa.

  4. Andrea Ballabeni

    Eccellente pezzo. Fa molto piacere leggere pezzi come questo visto che tanti connazionali non hanno ancora capito l’importanza di una piena autonomia nella selezione degli accademici; autonomia che ovviamente, come gli stessi autori ricordano, deve e dovra’ essere associata ad un vero processo di finanziamento su base dei risultati. Di nuovo complimenti per il pezzo.

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