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Più maestri per tutti, ma serve?

I test Invalsi mostrano che la legge Gelmini ha avuto effetti negativi sugli apprendimenti dei bambini della primaria. Ma l’assunzione di nuovi docenti senza alcun controllo sulla loro qualità, come prevede la “buona scuola” del Governo Renzi, riuscirà a migliorare il sistema scolastico italiano?

ASSUNZIONI NELLA “BUONA SCUOLA”
Nel documento “La buona scuola” proposto dal Governo Renzi è chiara l’intenzione di assumere quasi 150mila docenti entro settembre 2015, attingendo dalle liste dei precari e vincitori e idonei dell’ultimo concorso. A questi si dovrebbero aggiungere, tramite concorso, altri 40mila insegnanti abilitati che dovrebbero sostituire nel triennio 2016-19 quelli che andranno in pensione.
Nel “patto educativo” presentato via video-messaggio, il presidente Renzi si dà un anno di tempo per rivoluzionare la scuola italiana, senza tuttavia discutere gli effetti che ne dovrebbero derivare. Serve veramente ai nostri studenti assumere più insegnanti? Li aiuterebbe a migliorare il rendimento scolastico? Permetterebbe loro di raggiungere i coetanei europei colmando il gap in conoscenze che i risultati dei test internazionali hanno reso palese?
Nell’affrontare la questione, ci concentriamo sulla scuola primaria, per due principali motivi. Primo, è ampiamente documentato che i risultati conseguiti durante l’istruzione obbligatoria hanno effetti di lungo periodo sulle scelte di istruzione superiore e universitaria, sulla formazione e sui salari, tutti obiettivi strategici inseriti dal Consiglio europeo nel programma EU 2020. Gli investimenti in istruzione nei primi anni di vita dei bambini sono quindi più efficienti perché hanno risultati duraturi.
Secondo, la scuola primaria è stata riordinata nel 2009 dalla riforma del “maestro unico” (legge Gelmini). Tra i vari interventi, la nuova normativa ha previsto una riduzione importante del numero di insegnanti agendo sull’orario scolastico e abolendo la compresenza in classe. L’obiettivo primo dell’intervento era chiaramente il contenimento della spesa pubblica, come indicato dalla legge 133/2008. Ora, ad appena cinque anni dalla riforma Gelmini, ci troviamo di fronte a un’inversione di rotta, con la promessa di assumere una numero consistente di docenti. Da questo punto di vista, dunque, la proposta Renzi è in realtà una contro-riforma.
I test Invalsi raccolti su base censuaria nella seconda e nella quinta classe della scuola primaria permettono di valutare gli effetti della riforma Gelmini e, indirettamente, di ipotizzare cosa possiamo attenderci dalla contro-riforma Renzi. L’evidenza empirica su cui ci basiamo nasce da una ricerca promossa dalla Fondazione per la Scuola e svolta da Irvapp-Fbk di Trento sulla base delle domande di ricerca concordate con il committente.
EFFETTI DELLA RIFORMA GELMINI SULLA PRIMARIA
I cambiamenti introdotti dalla riforma Gelmini hanno riguardato i) la riduzione dell’organico di fatto attribuito alle scuole (17 per cento da realizzarsi in tre anni) usando come riferimento l’organico a disposizione delle scuole all’inizio dell’anno scolastico 2007/2008; ii) l’eliminazione della compresenza a partire dall’as 2009/10 in tutte le classi; iii) l’introduzione di un nuovo profilo orario, quello delle 24 ore settimanali, che implica un solo insegnante in aula; e iv) l’aumento del numero massimo di bambini in ogni classe, da 25 a 27.
La ricerca promossa dalla Fondazione per la Scuola mostra che le classi a 24 ore formate dopo la riforma rappresentano lo 0,5 per cento del totale, un numero pressoché trascurabile. In altre parole, l’opzione di un profilo orario a 24 ore settimanali è stata ignorata dalle scuole. Il numero di studenti per insegnante, spesso considerato come indicatore di qualità dell’insegnamento, è cresciuto di quasi un punto come meccanica conseguenza della riduzione di organico. Infine, la dimensione delle classi è aumentata in media di 0,3 studenti.
Con la riduzione degli insegnanti e l’eliminazione della compresenza, le scuole hanno dovuto riorganizzare i profili orari delle classi (o tempo-scuola). Il rapporto di ricerca di Fbk-Irvapp documenta come la riforma abbia causato un chiaro fenomeno di polarizzazione oraria, con una maggiore concentrazione di classi organizzate a modulo in 27 ore settimanali, un taglio dei profili orari “intermedi” tra il minimo di legge e il tempo pieno e un aumento del numero di classi a tempo pieno. La polarizzazione ha comportato un effetto medio trascurabile della riforma Gelmini sul tempo-scuola: secondo le stime della ricerca, si è ridotto di circa un’ora la settimana, ovvero circa 33 ore nell’intero anno scolastico, anche se con variazioni significative tra aree diverse del paese.
Arriviamo alla domanda più importante: il cambiamento degli input scolastici ha avuto un effetto sugli apprendimenti degli studenti? La ricerca isola l’effetto dell’abolizione della compresenza da quello dovuto al cambiamento degli altri input scolastici. Il distinguo è importante perché mentre l’eliminazione della compresenza è avvenuta immediatamente in tutte le classi, le altre componenti della riforma sono state introdotte in modo graduale a partire dalle classi prime dell’as 2009/10.
Confrontando i test Invalsi delle classi seconde e quinte tra l’as 2008/09 (quando la riforma ancora non era stata introdotta) e l’as 2009/10 (dopo l’introduzione della riforma, ma con le classi seconde e quinte toccate solo dall’eliminazione della compresenza), la ricerca promossa dalla Fondazione per la Scuola mostra che la mancata compresenza ha un effetto negativo sugli apprendimenti, penalizzando maggiormente gli studenti più giovani (cioè quelli delle classi seconde). Maggiori dettagli sull’entità degli effetti saranno disponibili nella pubblicazione on line. Il confronto dei test Invalsi delle classi seconde e quinte tra l’as 2008/09 e l’as 2010/11 coglie invece gli effetti di tutti i cambiamenti imposti dalla legge Gelmini: riduzione dell’organico, innalzamento della dimensione della classe ed eliminazione della compresenza. I risultati mostrano che la riforma nel suo complesso ha avuto effetti negativi sugli apprendimenti, pari circa al doppio di quelli dovuti all’eliminazione della compresenza, pur con modalità molto eterogenee tra diverse aree del paese. Nelle scuole del Nord e Centro-Italia, l’abolizione della compresenza contribuisce molto meno agli effetti negativi sugli apprendimenti, mentre, al contrario, nelle scuole del Mezzogiorno ha marcatamente sfavorito i bambini nelle seconde classi.
UNA CONTRO-RIFORMA IN CONTRO-TENDENZA?
La proposta della “buona scuola” sembra quindi andare nella direzione giusta. Quantomeno nella scuola primaria, abbasserebbe il numero di studenti per insegnante. Sembra essere la direzione giusta, appunto, ma non ci sono dati per capire se l’assunzione di nuovi insegnanti sia il modo più efficace di investire denaro pubblico per migliorare il sistema scolastico.
Le nuove assunzioni in larga misura verrebbero attuate letteralmente “svuotando” le graduatorie a esaurimento (Gae), un listone di docenti abilitati chiuso all’inserimento di nuovi nominativi dal 2008. Le graduatorie in lista, strutturate per provincia, sono aggiornate ogni tre anni usando supplenze, formazione e titoli. La promessa di assunzioni in blocco dalle Gae non discrimina in base alla qualità degli insegnanti che ne fanno parte e non considera che la permanenza in lista per un lungo periodo di tempo potrebbe riflettere mancanza di qualità. L’assunzione dei 150mila insegnanti sembra quindi l’ennesima sanatoria amministrativa di massa non guidata da criteri di merito.
Tutto questo mentre la letteratura internazionale è ormai ricca di esempi che mostrano come sensibili miglioramenti degli apprendimenti scolatici siano perseguibili valorizzando qualità, e non quantità, degli insegnanti. Ad esempio, non c’è parere unanime sul fatto che ridurre il numero di studenti per insegnante abbia effetti positivi sugli apprendimenti. E se anche l’assunzione di nuovi docenti fosse usata come leva per ridurre la dimensione delle classi, non c’è prova che per la scuola primaria italiana questo sia un aspetto importante su cui intervenire. Pertanto, i costi e i benefici di un intervento su larga scala come quello proposto dal Governo dipendono quasi interamente dalla qualità dei nuovi assunti.
Alcuni passi del documento “La buona scuola” sembrano in palese contro-tendenza rispetto a quelli che la letteratura indica come esempi di buone pratiche. Riformatori e contro-riformatori nel nostro paese spesso condividono la mancata pianificazione di un rigoroso disegno per valutare gli effetti dell’intervento pubblico e, purtroppo, il documento sulla scuola non è un’eccezione alla regola. Una rivoluzione della scuola, più volte menzionata dal presidente del Consiglio, è certamente auspicabile. Ma serve prima capire, e misurare, quali sono le dimensioni cui dare priorità.
Dopo tante immissioni in ruolo di insegnanti sulla base di procedure automatiche che ignorano le effettive capacità professionali degli assunti e che non hanno certo contribuito a innalzare le prestazioni del nostro sistema scolastico parrebbe giunto il momento di trovare nuovi e più affidabili criteri di selezione dei futuri docenti.
Naturalmente, le capacità professionali degli insegnanti dipendono anche dal modo in cui sono formati. Sfortunatamente, questo è un altro punto sul quale il documento del Governo dice poco.

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  1. fernanda

    Da ex insegnante,e’indubbio che più sono gli alunni da seguire, meno tempo hai da dedicare ad ognuno singolarmente! Ma saper tenere una classe è ancora più importante, la preparazione e la motivazione di un insegnante sono fondamentali, è l’Università stessa che deve preparare a questo. Molto spesso le nostre Università ci preparano ad essere dei bravi oratori ma non necessariamente dei bravi insegnanti

    • Chiara Fabbri

      Mi spiace ma non céra bisogno dei test INVALSI ma solo di un minimo di buon senso per capire che aumentare il numero dei bambini per classe e ridurre il numero degli insegnanti avrebbe comportato uno scadimento della qualita’ dell’apprendimento. Un cattivo insegnante è meglio comunque di un insegnante perfetto ma che manca o che cambia tutti i giorni, specie nella scuola primaria in cui la componente affettiva di attaccamento al docente è un importante fattore della qualità dell’apprendimento, come decenni di studi di pedagogia dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio. In ragione della riduzione degli organici, in moltissime classi almeno una cattedra, se non entrambe sono coperte da insegnati che permangono per qualche meso o solo per qualche settimana, spesso anche per più anni perché in assenza di concorsi docenti di ruolo non vengono assegnati alle cattedre vacanti che sono coperte con supplenze più o meno permanenti, come si può pensare che in questo modo i bambini, stipati anche in 27 in classi fatiscenti, siano in grado di apprendere? Come si pensa che si possa costruire un rapporto educativo e didattico con queste premesse? Una scuola orientata solo al contenimento della spesa e’destinata ad essere solo un mega parcheggio per bambini che nel futuro non avranno le competenze necessarie per entrare e permanere in un mondo del lavoro ferocemente competitivo.

  2. Giulio Fedele

    (1^ parte) Dopo il contestato ‘studio’ di Ichino , eccone ancora uno che tenta di avvalorare la tesi dell’inutilità dell’assunzione dei 150.000 docenti prevista dal piano scuola Renzi, richiamando dati e ‘letterature’ che appaiono tuttavia parziali e contraddittori. Vizio che investe la tesi alla sua stesse base, laddove prima si afferma che ‘la letteratura è ormai ricca di esempi che mostrano come sensibili miglioramenti degli apprendimenti scolatici siano perseguibili valorizzando qualità’ e subito dopo, in contraddizione con l’assolutezza di tale affermazione, che ‘non c’è parere unanime sul fatto che ridurre il numero di studenti per insegnante abbia effetti positivi ’. Insomma, quella letteratura propinata come verità ‘oramai’ unanime non è poi, per gli stessi autori, affatto tale, atteso che in realtà … non c’è parere unanime! E, in effetti, basterebbe leggere per rendersene conto, ad es., il recente studio della London School of Economics e Università di Malaga, il quale evidenza come uno dei mezzi per ottenere risultati soddisfacenti i è proprio quello di ridurre il numero degli allievi per insegnante. Che poi la qualità generi qualità è verità lapalissiana che non credo richieda troppi studi. Il punto è, però, che gli autori non forniscono dati –e prova- circa l’asserita non-qualità dei docenti, né pare che possa essere venduta come automatica l’equazione scarsi risultati degli studenti = scarsa qualità dei docenti.

  3. Giulio Fedele

    (2^ parte) Non sarà che quei risultati dipendono, non dall’inadeguatezza degli insegnanti, ma da quella del nostro ordinamento scolastico? E non sarebbe più corretto ribaltare il ragionamento, come in realtà altri (v. studio cit., che evidenzia come l’altra alternativa per ottenere risultati soddisfacenti è quella di adeguare gli stipendi) più correttamente fanno, chiedendosi se l’asserita non-qualità non sia piuttosto conseguenza della condizione (bassi stipendi –tra i più bassi di Europa-, precariato permanente –il più alto di Europa- , e più in genere svalutazione della scuola e del relativo investimento -tra i più bassi di Europa-, ecc.) in cui si trovano ad operare i docenti italiani? Per finire, si è capito che i 150.000 docenti da ‘assumere’ non sono affatto ‘nuovi’ e ‘più’ insegnati che si aggiungeranno a quelli esistenti, ma docenti già ‘assunti’ (sebbene con contratti rinnovati annualmente) e facenti parte in fatto dell’organico, che devono semplicemente essere stabilizzati nel posto che essi già occupano? E si è capito che si tratta di docenti che da anni, e spesso decenni, lavorano nella scuola e che per questo hanno già subito quel ‘controllo sulla qualità’ (migliorabile quanto si vuole, nella scuola come in ogni altro settore della P.A, ivi compresa in primis l’università) invocato come panacea di tutti i mali della nostra scuola, avendo essi , oltre che superato procedure selettive di abilitazione, già dato ampia prova della loro competenza?

  4. Vincenzo Alessandro

    La prima parte dell’articolo evidenzia gli effetti negativi della Riforma Gelmini, che non è stata una riforma,ma una grande manovra di riduzione degli organici del personale docente. La seconda parte smentisce la prima. Delle due l’una: o non c’è relazione tra organici docenti e risultati di apprendimento (e, quindi, la Gelmini ha avuto ragione a ridimensionare un sistema troppo costoso, con buona pace della Fondazione per la Scuola), oppure ha avuto torto e, quindi, un maggior numero di docenti e classi meno numerose danno un risultato migliore. Tertium non datur.

  5. Andy Mc TREDO

    Quella che non è cambiata, nel corso delle generazioni, è la stagionalità dell’anno scolastico, che era in origine calendarizzato, nell’Europa ancora in larga misura contadina, in modo da permettere ai giovani di partecipare al raccolto. Di qui l’origine delle lunghe vacanze estive. Di qui l’uso di spostamenti a caso degli insegnanti, che accettano supplenze o turni d’insegnamento a casa del diavolo rispetto al luogo d’origine, da qui la spostabilità dell’insegnante stesso – indipendentemente dalla sue capacità di interagire positivamente con la classe, ecc. ecc…

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