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La Treccani incompleta della spending review

Finalmente sono state pubblicate le relazioni dei venti gruppi di lavoro sulla spending review del commissario Cottarelli. Sono documenti molto diversi fra loro per impianto e stesura. Ma per ridurre davvero la spesa pubblica va prima risolta la questione dei rapporti tra politica e tecnici.
SPENDING REVIEW DA 803 PAGINE
Un anno dopo la loro consegna, il governo ha pubblicato su un sito web liberamente accessibile la relazione riassuntiva dell’allora commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli e i tanti file che riassumono il lavoro dei venti gruppi che vi hanno collaborato.
Le aree coperte nei vari rapporti sono: investimenti pubblici, organizzazione della pubblica amministrazione, costi della politica, acquisti di beni e servizi, immobili pubblici, pubblico impiego, partecipate locali, fabbisogni e costi standard, province, comuni, regioni più nove ministeri (sviluppo economico, infrastrutture, economia, difesa, sanità, giustizia, lavoro, esteri, interno). Un totale di 803 pagine (72 dal rapporto Cottarelli e 731 dai rapporti dei venti gruppi di lavoro) di slide, analisi e proposte.
Non c’è dubbio che la filosofia ultima dell’intero progetto -derivante dal mandato ad ampio spettro conferito a Cottarelli dall’allora presidente del consiglio Enrico Letta – sia stata meglio abbondare che mancare per difetto.
RAPPORTI MOLTO DISOMOGENEI FRA LORO
Qui però sorge un problema: cosa dovrebbe fare la politica con questi file? C’è la relazione riassuntiva di Cottarelli, a disposizione del governo da molti mesi e con indicazioni per ora rimaste nel cassetto: la politica ha probabilmente giudicato troppo “politico” il rapporto riassuntivo del “tecnico” Cottarelli.
Rimangono allora le 731 pagine dei rapporti di lavoro, forse più tecnici. Qui il guaio è che i file dei gruppi di lavoro di Cottarelli non sono la Treccani della spending review. In molti casi le relazioni sono di grande utilità, perché includono un riassunto e vari allegati in cui le proposte sono descritte con precisione. In altri, però, le proposte sono incomplete e delineate solo per capitoli. Gli squilibri di impianto e stesura sono molto evidenti nel caso dei rapporti sui ministeri. Quelli su sanità e lavoro sono dettagliati, rispettivamente su 94 e 101 pagine. Il rapporto sulla giustizia è invece di tre pagine e contiene solo una tabella con l’indicazione dei potenziali risparmi di spesa, senza commenti e senza allegati. Il rapporto relativo al ministero dell’Economia è di quattro pagine, con tante parole e pochi numeri. Il documento rimanda a un allegato non pubblicato.
Se poi si guarda lo schema grafico della distribuzione dei compiti tra i vari gruppi si trova una lista di tredici ministeri. I rapporti ministeriali scaricabili sono invece solo nove: all’appello mancano beni culturali, politiche agricole, istruzione e università e ambiente.
Gli stessi squilibri si trovano anche nei rapporti cosiddetti “orizzontali” tra enti pubblici: otto pagine su pubblico impiego e investimenti pubblici, centosette pagine sui costi della politica, un vero e proprio libro comprensivo di una pagina di ringraziamenti. E poi ci sono sovrapposizioni tra un rapporto e l’altro, come è inevitabile che sia data la procedura di raccolta dal basso delle indicazioni. Ad esempio, il file che si occupa dei costi della politica parla di come tagliare le spese per il funzionamento di comuni e regioni. Ma dello stesso argomento hanno trattato anche, con punti di vista diversi, i partecipanti ai gruppi specializzati, rispettivamente, nell’analisi di comuni e regioni.
UN COMPITO DEI TECNICI O DEI POLITICI?
Se il lavoro istruttorio di Cottarelli e di chi ha collaborato con lui doveva costituire la base perché la politica – a valle – potesse finalmente prendere decisioni informate sulla base del parere di esperti, qualcosa è andato storto, non certo per colpa di Cottarelli. Un lavoro incompleto non è meglio di niente, è semplicemente incompleto. Cioè non finito, e dunque meno utile a fini informativi e comparativi di quello che poteva essere.
Il che riporta a un tema di fondo, quello del rapporto tra tecnica e politica. I piani di revisione della spesa pubblica intrapresi negli ultimi anni (quello di Cottarelli è venuto dopo quelli di Piero Giarda e di Enrico Bondi) hanno sofferto di un problema irrisolto: descrivere le riduzioni di spesa come fossero una questione tecnica, chirurgica, mentre il problema era ed è politico.
Fino a che la politica dà in appalto ai tecnici la stesura di un listone di cose da fare, anche radicali, non si va da nessuna parte. Le listone dei chirurghi dei tagli sono montagne che hanno finora partorito solo il topolino della listina di spesa “aggredibile”. Con l’unico risultato che la spesa pubblica in percentuale sul Pil è aumentata di tre punti dal 2003 a oggi, per un totale di cinquanta miliardi in più. È quindi giusto e inevitabile che la palla ritorni finalmente alla politica che potrà tenere conto delle indicazioni (quelle più dettagliate) della Treccani incompleta del sito sulla revisione della spesa. Si sarebbe però risparmiato tempo se la politica avesse indicato subito un insieme di aree su cui intervenire, limitando l’analisi tecnica all’individuazione degli strumenti più adeguati per raggiungere quegli obiettivi politici.
Una versione dell’articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it

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  1. Francesco V.

    Sono d’accordo con lei sull’eterogeneità degli approcci e dei risultati (non completati alcuni per responsabilità, credo, non del Commissario), ma su un punto non mi trova in accordo: semplicemente non credo che i cosiddetti “tagli politici” portino ad una allocazione ottimale delle risorse (da questo punto di vista è sempre illuminante il lavoro di Buchanan) né che possano essere predisposti con la rigorosa e necessaria obiettività; è necessario poi che il “sistema di gestione” della spesa pubblico sia completo, ripetuto nel tempo e non in balia del vento politico. Un differenziale di spesa non legato a motivi oggettivi (=local needs) secondo me dovrebbe essere non giustificato, ovunque e indipendentemente dal settore politicamente più o meno sensibile.

    • francesco daveri

      Grazie. Ha ragione. Fare una review periodica e sistematica di come si spende il denaro pubblico dovrebbe essere una cosa di routine in un paese normale. E il lavoro di Cottarelli è stato un passo importante in questa direzione. Rimane che per ora le 803 pagine ci lasciano in una situazione in cui alcuni settori sono coperti bene e altri no. E poi rimane che la spending review italiana è nata sotto un cattivo auspicio politico. Il mantra prevalente è infatti ancora quello che la spesa deve essere “rivista”, non ridotta. Che nella spesa pubblica bisogna “eliminare gli sprechi”, non farne una riforma che la renda compatibile con le dinamiche demografiche e la riduzione della crescita.

  2. vito antonio di cagno

    Ma è mai possibile, lecito, comprensibile che in tema di spending review non si contempli l’eliminazione di centinaia di enti inutili creati dai vari regimi al potere, risalenti sino a quello fascista per far solo riscaldare poltrone munifiche a fautori, adepti di essi?

    • Asterix

      Concordo con alcune osservazioni dell’autore sulla scarsa trasparenza e serietà dei lavori di spending review fatti da alcuni ministeri (segnalo per tutti la Difesa che invece di stimare i costi per investimenti in armi propone razionalizzazioni sulla formazione dei militati che dovranno utilizzarle). Però dobbiamo osservare anche il lavoro di Cottarelli presenta aspetti inquietanti.. Segnalo solo il primo caveat “i risparmi di spesa indicati sono al lordo degli effetti delle entrate”.. Quindi l’esperienza greca non ha insegnato nulla !! I tagli di spesa pubblica hanno effetto sui redditi dei fornitori della PA, sulle imposte che pagano loro ed i loro dipendenti deprimendo il PIL. In Grecia il FMi stimava un effetto dei tagli di spesa sul PIL di 0,5 (in realtà è stato 1,8). Se riduco il numeratore (deficit) ma produco una contrazione maggiore del denominatore (PIL) ho peggiorato non migliorato la situazione..

  3. Rainbow

    Importante questa analisi sul Paper di Cottarelli che è stato,altrove, “mitizzato”oltre misura! Analizzando più a fondo si scopre che quel lavoro,poi,non era “Il Vangelo! Sulla spesa pubblica,però,non mi risulta quello che dice il Prof. Daveri. Da qualche tempo sto raccogliendo dati sulla Spesa Pubblica Italiana (una sorta di Fatcecking personale!) in quanto ho notato che,sulla spesa, spesso si dicono tante inesattezze perché tutti partono dal presupposto ideologico che è “brutta,sporca e cattiva per definizione” ed anche ‘eccessiva,quindi bisogna tagliarla! Dall’annuario Istat sui dati della Finanza Pubblica italiana pubblicato qualche mese fa,tavole da 1 a 16, sulla spesa pubblica,ho estrapolato i seguenti dati facendo riferimento agli anni 2003 e 2013 citati dal Prof. Daveri. Nel 2013, la spesa pubblica primaria era di 580 miliardi; nel 2013, la spesa pubblica primaria e’di 716 miliardi. Differenza, 136 miliardi con un incremento, quindi, del 23,44%. L’inflazione cumulata del periodo,tratta sempre dalle serie storiche Istat, dal 2004 al 2013 e’di circa il 24%, per l’esattezza,23, 88%!. Quindi la spesa pubblica primaria, al netto della componente esogena degli interessi, nonostante gli sprechi e’cresciuta in linea con l’inflazione, quindi non e’aumentata in termini reali! Possiamo discutere se tagliare la spesa anche sotto l’inflazione, ma, se c’e’inflazione, è ovvio che aumenti pure la spesa in quanto le varie componenti di essa (pensioni,stipendi,acquisto di beni) seguono l’aumento dei prezzi!

    • francesco daveri

      In un paese in cui il Pil reale diminuisce (in Italia è sceso del 3 per cento tra il 2003 e il 2013 da 1590 a 1543 mld; dati istat), diminuiranno anche le entrate (sono una funzione diretta del Pil). Quindi vuol dire che non basta tenere costante la spesa in termini reali, bisogna diminuirla. Se si tiene costante la spesa pubblica per ragioni politiche, bisogna strangolare il paese con le tasse (ciò che è avvenuto). si potrebbe anche finanziare la spesa in deficit ma il finanziamento in deficit ha senso solo se si spera che le cose vadano meglio in futuro. Il che – diciamo così – non è scontato.

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