Lavoce.info

Così la web tax diventa inutile

La web tax italiana approvata definitivamente non centra l’obiettivo del riequilibrio fra il prelievo gratuito presso la nostra economia di risorse tassate solo all’estero. Dopo le modifiche della Camera si è trasformata in una misura per fare cassa.

Il privilegio delle multinazionali del web

La versione della web tax, approvata definitivamente con la legge di bilancio 2018 dopo le rilevanti modifiche apportate alla Camera, pare davvero insensata sotto tutti i punti di vista. Non centra alcuno degli obiettivi che il dibattito sulla materia aveva evidenziato e rappresenta unicamente una misura di gettito a carico di un settore che, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, aveva bisogno solo di un adeguato riequilibrio.

Obiettivo unanimemente condiviso, infatti, era quello di rimuovere l’evidente privilegio in cui si trovano a operare le multinazionali digitali: prelevano cassa su un mercato (leggi: l’Italia) e lo tassano (peraltro assai poco) in un’altra economia (leggi: l’Irlanda). Si pongono così in un’evidente posizione di vantaggio sulle imprese italiane operanti nello stesso settore. Ma danneggiano altresì le aziende italiane di qualsiasi altro settore facendo gravare sulle stesse un livello di imposizione che potrebbe essere ridotto se il contributo del mondo imprese fosse più correttamente distribuito.

La ragione principale di tale circostanza sta nella disarmante lentezza con cui l’Ocse, che è l’organismo internazionale che dovrebbe affrontare la questione, sta operando. È da tempo chiaro che l’attuale discrimine circa il paese di tassazione di un’attività internazionale, basato sull’esistenza di una stabile organizzazione, non regge più al cospetto della rivoluzione informatica del XXI secolo. E che la riconducibilità alla tassazione in un paese dell’attività ivi esercitata dal residente di un altro paese deve basarsi su elementi che attengono al luogo di fruizione del prodotto finale piuttosto che alle modalità organizzative con cui viene commercializzato. Dare soluzione a questa tematica è indispensabile e solo dopo si possono affrontare le questioni, inevitabilmente di ordine successivo, che girano intorno al problema dell’identificazione dei luoghi in cui il valore si forma e di misurazione della relativa quota.

Leggi anche:  Sul concordato c'è un dovere di trasparenza

Ma l’Ocse, palesemente influenzato dai paesi avvantaggiati dalla situazione di stallo, non si muove. Che fare allora?

Perché era meglio la prima versione

La versione della web tax approvata al Senato affrontava questo scenario e vi dava soluzione – pur provvisoria – creando un’imposta gravante, nei fatti, perlopiù sulle sole multinazionali estere prive di stabile organizzazione in Italia. Dotava, poi, l’amministrazione finanziaria italiana di una strumentazione più penetrante, così da consentirle una (legittima) pressione sulle stesse aziende tale da spingerle a valutare più seriamente la formale costituzione di una stabile organizzazione nel nostro paese (Facebook insegna). Ovvio che tale versione contenesse qualche passo un po’ più coraggioso (la più stringente definizione di stabile organizzazione in un quadro antielusivo); qualche potenziale mal di pancia comunitario (il ruolo degli intermediari finanziari); qualche fastidio amministrativo (pagamento dell’imposta con attribuzione di un corrispondente credito d’imposta utilizzabile solo a certe condizioni). Ma centrava appieno il problema: il riequilibrio fra il prelievo gratuito presso la nostra economia di risorse tassate solo all’estero.

Che fa, invece, la versione modificata alla Camera e poi definitivamente adottata? Mette tutti sullo stesso piano, come rileva con preoccupazione l’Ufficio parlamentare di bilancio nel Flash del 29 dicembre. In altre parole, pagano la web tax tanto le imprese italiane operanti nel settore quanto le imprese estere prive di stabile organizzazione in Italia. Vengono eliminate le norme tese a rendere più penetrante l’azione dell’amministrazione finanziaria. Vengono soppresse le norme volte a contrastare vere e proprie attività elusive. Viene subordinata l’applicazione dell’imposta a una dichiarazione spontanea di superamento, nel corso dell’anno precedente, di 3 mila transazioni su prestazioni digitali. Ma, al contempo, non vengono attivati strumenti coercitivi idonei a reprimere eventuali menzogne da parte dei non residenti qualora decidano semplicemente di mentire sul quantitativo delle loro transazioni italiane.

Domanda: ma allora a che serve questa nuova web tax? Se si volevano racimolare 76 milioni di gettito aggiuntivo (rispetto ai 114 stimati con la ben diversa versione del Senato), bastava aumentare il bollo o la benzina.

Leggi anche:  Nuovo redditometro: vita breve di un'arma spuntata

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Per cancellare i debiti col fisco serve una strategia

Precedente

Il Punto

Successivo

Garantire la dignità costa

  1. A cosa serve questa prima web tax? Serve a far scrivere ai giornali italiani che il Paese ha dichiarato guerra alle multinazionali che fanno di ogni economia terra di conquista. A null’altro serve questa prima web tax.

  2. Marco

    Condivido in pieno e sottolineo un aspetto. 3000 transazioni in un anno, per chi incassa pochi euro per transazione, significa far rientrare tra le aziende che pagano la webtax anche le tante piccole startup che fatturano meno di 100.000 euro all’anno. Se si voleva incentivare la crescita digitale, mi sa che si sia sbagliato qualche calcolo.

  3. Henri Schmit

    Sono d’accordo, il problema è la definizione convenzionale della stabile organizzazione come criterio di tassazione. C’è però anche chi – per esempio l’Istituto Bruno Leoni – difende il vecchio regime in nome della concorrenza internazionale. Serve a poco dare le colpe all’OCSE (che produce ottimi studi in vari campi, dall’economia ai sistemi elettorali, ma) che è (solo) un’organizzazione internazionale; sono gli Stati membri che si devono muovere; cioè prima i governanti devono capire, superare le resistenze dello status quo e delle lobby che ci campano (multinazionali, i loro esponenti, i loro consulenti, l’élite ricca che condiziona anche le elezioni), e avere poi il coraggio di proporre una soluzione coerente, che regga nel tempo. Siamo ancora molto lontano! Ultima osservazione: non si può – come fa la stampa finanziaria – applaudire alla bravura italiana quando una sua multinazionale crea e usa da decenni montaggi fiscali nefasti per il fisco italiano e denunciarli ora quando giovano alle multinazionali del web.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén