La portata rivoluzionaria dell’intelligenza artificiale in tutti i settori dell’economia le conferisce un’importanza geopolitica strategica. Non a caso il conflitto Usa-Cina sul tema è aspro. Così il diverso approccio europeo può diventare un modello.
Una rivoluzione chiamata intelligenza artificiale
Di intelligenza artificiale si parla fin dagli anni Cinquanta, ma per decenni si è ritenuto che non funzionasse efficacemente, perché l’idea di una macchina che pensa come un essere umano risulta ancora oggi difficile da realizzare. In realtà, grazie alla disponibilità di grandi volumi di dati e alla capacità di migliorarne le prestazioni attraverso l’uso di una strumentazione sempre più efficace (il Machine Learning e in particolare il Deep Learning), quella che oggi emerge è soprattutto la prospettiva di sostituire l’uomo nei compiti più onerosi, pesanti e ripetitivi, e coadiuvarlo nelle attività a maggior valore aggiunto. Dalla definizione di terapie personalizzate da somministrare a distanza ai pazienti tramite telemedicina alla trasformazione dei processi di produzione industriale e di customer care, dalla gestione domotica tramite l’internet delle cose fino alle città intelligenti e alle macchine senza guidatore, per citare solo alcuni degli ambiti di applicazione più rilevanti, l’intelligenza artificiale è al centro della “trasformazione digitale” e delle strategie industriali attuali e future.
La contrapposizione Usa-Cina
La portata rivoluzionaria dell’intelligenza artificiale in tutti i settori dell’economia le conferisce peraltro un’importanza strategica in termini geopolitici. Pwc stima che il guadagno potenziale dell’intelligenza artificiale in termini di Pil, a livello globale, sarà pari a 15,7 trilioni di dollari entro il 2030, una cifra in grado di spostare sensibilmente gli equilibri. La domanda che pertanto tutti si fanno è se gli Stati Uniti saranno in grado di mantenere il proprio predominio tecnologico anche nell’intelligenza artificiale, e dunque nell’economia globale, o se invece la Cina, con l’impulso straordinario e gli enormi investimenti, sia destinata a prenderne il posto.
Ciò è ben testimoniato dallo scontro tra le due superpotenze commerciali, che attualmente sono anche le due superpotenze dell’intelligenza artificiale. In particolare, a rendere evidente quanto aspro sia il livello della competizione ci sono le recenti chiusure protezionistiche degli Stati Uniti all’export di beni e servizi utilizzati per la creazione di nuove soluzioni e la richiesta dell’amministrazione Trump, rivolta anche ai partner europei, di sottrarre le proprie infrastrutture essenziali allo sviluppo delle tecnologie digitali, a partire proprio dall’intelligenza artificiale, dalla dipendenza tecnologica da società cinesi come Huawei e Zte, considerate un pericolo per la sicurezza nazionale.
D’altra parte, due sono anche le concezioni che si confrontano. Da un lato, gli Stati Uniti, storicamente culla delle innovazioni in ambito high tech, sembrano perseguire la strada degli investimenti cospicui da parte dei colossi privati della Silicon Valley, agevolati in qualche modo dalla spinta essenzialmente nazionalista e protezionistica dell’amministrazione Trump, che tuttavia solo di recente ha iniziato a considerare l’intelligenza artificiale una delle componenti fondamentali della politica “America First”. In questo quadro, la deregolamentazione americana appare sicuramente favorevole allo sviluppo delle applicazioni, ma con qualche criticità nel rapporto tra modello di sviluppo economico basato sull’intelligenza artificiale e l’accesso ai dati e la tutela della privacy.
Dall’altro, la Cina ha puntato da tempo – e massicciamente – sullo sviluppo delle tecnologie avanzate e più innovative, di cui l’intelligenza artificiale rappresenta sicuramente il principale motore, investendo direttamente enormi risorse pubbliche. L’obiettivo ultimo è realizzare appieno il piano “Made in China 2025”, lanciato nel maggio 2015, che vuole rinnovare radicalmente l’industria cinese in un’ottica 4.0, in modo tale da trasformare la “fabbrica del mondo” (un’industria contraddistinta da produzioni a basso costo e a basso valore aggiunto) in una fucina di innovazione, di produzioni automatizzate ad alto valore aggiunto e di tecnologie produttive avanzate. Il governo di Pechino ha perciò messo in atto una serie di iniziative e ha promosso i propri campioni nazionali (Alibaba, Huawei e Baidu, ormai del tutto paragonabili ai giganti americani) per conquistare la leadership nel campo dell’intelligenza artificiale, adottando un approccio che non sembra avere particolari preoccupazioni per la tutela dei dati personali e per le questioni etiche.
Il ruolo dell’Europa
In tutto ciò, qual è il ruolo di un’Europa che arriva in ritardo nella corsa e che sta affannosamente tentando di recuperare il tempo perduto? Sono 20 miliardi di euro gli investimenti previsti dall’UE nel settore pubblico e privato entro la fine del 2020. La Commissione sta aumentando i propri investimenti fino a 1,5 miliardi per il periodo 2018-2020 nel quadro del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020, il 70 per cento in più rispetto al periodo 2014-2017. Per il prossimo bilancio UE a lungo termine (2021-2027), l’idea è di portare l’investimento a 7 miliardi. Si prevede che il finanziamento mobiliterà altri 2,5 miliardi dei partenariati pubblico-privato esistenti, fornendo sostegno allo sviluppo dell’intelligenza artificiale nei settori principali, dai trasporti alla sanità, e metterà in contatto e rafforzerà i centri di ricerca europei, incentivando la sperimentazione.
L’approccio dell’UE si differenzia dagli altri, poiché considera lo sviluppo e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale non un obiettivo di per sé, ma un mezzo per aumentare il benessere individuale e sociale. L’obiettivo, quindi, è quello di ottenere un’intelligenza artificiale “etica”, affidabile e rispettosa dei diritti della persona, poiché gli esseri umani saranno in grado di beneficiare appieno e con sicurezza dei suoi vantaggi solo se potranno fidarsi di questa tecnologia. A livello normativo, l’impianto del regolamento generale sulla protezione dei dati (General Data Protection Regulation – Gdpr) rappresenta uno dei pilastri di questa strategia ed è diventato un modello di riferimento a livello internazionale. Tuttavia, vista la contemporanea presenza di altre direttive europee in tema di dati, appare ora necessaria un’armonizzazione e un bilanciamento del quadro generale di riferimento, in modo tale da non ostacolare l’innovazione e non appesantire lo sviluppo di iniziative private e pubbliche, tenendo conto anche del ritardo e dei minori investimenti che hanno caratterizzato fin qui la strategia europea.
Al contempo però questo approccio sembra trovare oggi maggiore sostegno rispetto al passato negli Stati Uniti. Il caso recente della California, in cui viene ipotizzato una sorta di “data dividend” in favore degli utenti che forniscono i dati, apre la strada a una riflessione più ampia, almeno in quello che una volta era definito il mondo occidentale, per cercare di combinare innovazione, sviluppo economico e benessere sociale.
* Questo articolo è parte di un ampio studio dell’autore sull’argomento, in via di conclusione. Si ringrazia Carlo Salatino per la preziosa collaborazione.
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umberto
Un articolo che dice davvero nulla.
Davide
Ci dice che vogliono tanti soldi pubblici. Ed anche tante agevolazioni legali per imporre Skynet sulle auto e non solo.