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Dopo il Covid-19 la Cina riprende a correre

Anche nel 2020 la Cina sarà uno dei pochi paesi al mondo a registrare una crescita del Pil vicina al 2 per cento. Continua dunque la lunga cavalcata dell’economia cinese alla rincorsa del primato mondiale. La strategia per superare gli Usa entro il 2030.

La strategia verso il 2030

Prima una lotta senza quartiere al virus, poi il sostegno al sistema economico per favorirne la ripresa e infine la definizione di un piano di lungo periodo che tenga conto dell’evoluzione dello scenario internazionale. È la strategia messa a punto in atto dal governo cinese che, entro il 2030, dovrebbe consentire all’economia del Celeste Impero di superare il Pil americano, diventando la prima potenza economica del pianeta.

La battaglia contro il Covid-19 è stata vinta con una guerra lampo durata poco più di due mesi e costata 4.500 morti e circa 85 mila contagi. Nulla a confronto di quanto si è visto negli Stati Uniti e nel Vecchio Continente. Certo, sono state usate misure straordinarie da molti ritenute difficilmente attuabili in una democrazia occidentale. Ma è anche vero che numerosi paesi democratici dell’estremo oriente – quali Taiwan, Corea del Sud, Giappone – hanno conseguito risultati simili grazie all’esperienza delle precedenti epidemie, la determinazione dei loro governi e un forte senso civico.

Sul fronte economico il risultato di Pechino rischia di essere ancora più clamoroso. Grazie a vigorose politiche monetarie e creditizie che hanno sostenuto consumi e investimenti, ma soprattutto un ritrovato, ancorché inatteso, vigore delle esportazioni verso i paesi occidentali in lockdown, l’economia cinese ha conosciuto una flessione solo nel primo trimestre, subito recuperata nei mesi successivi. Così, a fine anno, la Cina sarà uno dei pochi paesi al mondo a chiudere con un Pil in crescita di quasi il 2 per cento, per arrivare a registrare nel corso del 2021 – secondo le ultime stime del Fondo monetario internazionale – uno sviluppo superiore all’8 per cento, trainato dai consumi (anziché da investimenti ed esportazioni). Una situazione molto diversa da quella prevalente nei paesi occidentali dove, sulla base di stime che ancora non incorporano pienamente gli effetti della seconda ondata della pandemia, gli analisti si aspettano una caduta del Pil del 4,6 per cento negli Stati Uniti, del 8,3 per cento nell’area dell’euro e vicino al 10 per cento in Italia e Gran Bretagna.

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Così la lunga cavalcata dell’economia cinese alla rincorsa del primato mondiale, iniziata alla fine dello scorso secolo, potrà continuare tranquillamente e porterà il Pil nominale cinese a superare quello degli Usa nel 2030 (figura 1).

Va detto che rimane un diffuso scetticismo circa la veridicità dei dati cinesi, che secondo alcuni sarebbero stati manipolati a fini politici. Ma un recente lavoro della Federal Reserve di San Francisco, utilizzando una serie di indicatori tra cui i dati di commercio internazionale rilevati da paesi con statistiche attendibili, dimostra come col tempo la qualità delle statistiche cinesi sia migliorata al punto da rendere meno probabile il rischio di trovarsi di fronte a dati distorti.

Per certi versi ancora più interessante è la strategia per la crescita disegnata dal quinto plenum del Partito comunista cinese, che ha approvato il nuovo piano quinquennale (2021-2025). Per la prima volta non viene fissato un obiettivo annuale di crescita, ma si afferma semplicemente che l’economia cinese dovrà raddoppiare la sua dimensione nel prossimo decennio. L’obiettivo comporta implicitamente una crescita media annua vicina al 4,5 per cento, più bassa di quella definita (e realizzata) nei precedenti piani quinquennali, ma relativamente ambiziosa. Tuttavia, l’elemento davvero nuovo – anche se ancora abbastanza vago – è quello di incentrare la futura strategia di crescita sulla “dualcirculation”, intesa come la capacità di dipendere meno dall’estero, attraverso il progressivo sviluppo di una vera e propria supply chain domestica. Non si tratta quindi semplicemente di abbandonare uno sviluppo trainato dalle esportazioni o dagli investimenti per favorire un processo di ribilanciamento trainato dai consumi interni, quanto piuttosto di rafforzare e rendere meno dipendente dall’estero la filiera cinese, soprattutto per quanto riguarda i settori tecnologici.

La pandemia e specialmente il crescente protezionismo americano hanno convinto i dirigenti cinesi che lo sviluppo delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, delle energie rinnovabili o del 5G non debbano dipendere dai chip o dai semiconduttori prodotti all’estero. La creazione di catene di approvvigionamento completamente interne, unita allo sviluppo domestico di tecnologie avanzate risponde – come sottolineato dallo stesso Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese – anche e soprattutto a una questione di sicurezza nazionale.

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Questo non vuol dire affatto che il paese abbandona la sua fede nella globalizzazione. Ancora per diverso tempo la Cina dovrà contare su flussi di investimenti dall’estero che veicolino tecnologia al suo interno. Peraltro, l’accordo commerciale sottoscritto a metà novembre con i dieci paesi membri dell’Asean, Giappone, Corea, Australia e Nuova Zeland – Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), volto a costituire un’area di libero scambio all’interno della regione del Pacifico – dimostra come la Cina sia ancora fortemente interessata a sviluppare flussi di export (cruciali per lo sviluppo di numerose aziende), anche se all’interno di un’area di scambio decisamente più regionale.

Ora però si tratta di realizzare un vero e proprio cambio di passo. L’obiettivo nel medio termine è di arrivare ad assumere una condizione di leadership tecnologica. Di qua lo sforzo indirizzato anche a formazione e ricerca scientifica, la cui spesa dovrà superare il 3 per cento del Pil nel prossimo quinquennio. Solo così l’impero di mezzo potrà riconquistare la sua posizione di leadership mondiale, abbandonata “solo” negli ultimi secoli, ma ora di nuovo alla sua portata.

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Il Punto

  1. Gianfranco Rossini

    Sono d’accordo con gli autori dell’articolo sulla previsione del dato di sviluppo del Pil cinese a chiusura del 2020 (stante anche il pesante dato relativo agli USA e all’UE). Meno d’accordo sulle previsioni di sviluppo nel 2021 e ancora di più negli anni successivi, giacché la Cina, un pò perché costretta, un pò per propria scelta, cambierà il proprio modello di sviluppo, fondandolo per il futuro sui consumi interni ed uno sviluppo della tecnologia in un certo modo in modalità autarchica. E’ un processo rischioso ed incerto, a fronte della necessità, da una parte, di creare un ceto medio forte di massa (oggi ancora debole) in grado di sostenere la domanda interna, dall’altra di rinunciare nel tempo ad importare tecnologia estera per veicolare quella interna con esiti incerti. Peraltro, il nuovo modello di sviluppo, diciamo ” imperiale”, vagheggiato dal regime di Xi Jinping, presuppone consenso all’estero, messo in crisi dalla pandemia, e pace sociale duratura all’interno, minacciata da una situazione politica potenzialmente foriera di grosse criticità future.

  2. Giampiero

    La strapotenza economica della Cina non pone qualche domanda sulla sopravvivenza delle democrazie occidentali?

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