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Ma tanti poveri non chiedono il Rdc. Ecco perché

Il vivace dibattito sui beneficiari del reddito di cittadinanza sbaglia bersaglio. È troppo presto per giudicare se le domande ricevute siano tante o poche. Bisognerebbe invece concentrarsi sulle difficoltà dei più deboli a fruire di un loro diritto.

I più deboli senza informazioni

Le 674 mila richieste accolte di reddito di cittadinanza sono tante o poche?

All’interrogativo oggi non si può rispondere. Non è possibile, infatti, giudicare la capacità di una misura di soddisfare le esigenze della popolazione solo pochi mesi dopo la sua introduzione. Ci vuole più tempo. E l’origine dell’interesse mediatico sul numero delle domande discende dalla scelta di introdurre il Rdc in gran fretta, al fine di raggiungere il maggior numero di utenti nel più breve tempo possibile, sperando di ricavarne consenso nelle recenti elezioni europee.

È invece già emerso con chiarezza un punto cruciale, del quale però non si parla: stiamo costruendo un sistema che non aiuta adeguatamente i più deboli tra i poveri a richiedere il reddito di cittadinanza. A livello internazionale, la scarsità di informazioni e di orientamento sulla presentazione della domanda costituisce uno dei fattori che più ostacola la possibilità che sia inoltrata da parte della popolazione potenzialmente interessata, in particolare i più fragili dal punto di vista culturale e delle reti di relazione.

Il Rei (reddito di inclusione) assegnava queste importanti funzioni di consulenza ai Punti unici di accesso, appositi sportelli istituiti presso i comuni. Qui le persone interessate potevano chiedere delucidazioni sui passaggi da compiere al fine di avviare la richiesta, sulla compilazione della relativa modulistica, potevano cercare di capire se rientrassero tra gli aventi diritto e così via. I Punti comunali erano anche il luogo dove presentare la domanda.

Per il Rdc, le domande vengono ricevute esclusivamente da Caf, patronati e poste, che hanno la sola competenza amministrativa di caricare la richiesta, mentre non è più previsto alcun servizio di informazione e di orientamento da parte delle istituzioni pubbliche. Il governo si è limitato infatti a realizzare alcune campagne mediatiche – via televisione, web ed altri strumenti di comunicazione – per far conoscere l’esistenza del Rdc. Infatti, gli unici soggetti pubblici che – grazie al loro radicamento territoriale – possono svolgere compiti di informazione sono i comuni, che sono però esclusi dalla prima fase dell’iter ed entrano in gioco solo successivamente, una volta accolte le domande.

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Riconoscimento di un diritto e possibilità di fruirne

La normativa del reddito di cittadinanza, dunque, non prevede le necessarie azioni pubbliche d’informazione e di orientamento finalizzate a colmare la distanza – spesso ampia – tra il riconoscimento formale di un diritto e l’effettiva possibilità di fruirne.

Secondo alcuni operatori, aver abolito la presentazione della domanda presso i comuni è servito a sgravarli da una mansione burocratica che li distoglieva dai loro compiti di sostegno alle famiglie in povertà. Tuttavia, non bisogna confondere la funzione di informazione/orientamento con quella di ricezione delle richieste. Si sarebbe potuto alleggerire i comuni da questo specifico onere mantenendo, però, gli sportelli informativi/consulenziali. Nondimeno, è vero che gli sportelli avevano, nel Rei, un’efficacia diversa nei vari contesti locali e molto restava ancora da fare. Ma, proprio per tale ragione, non si sarebbe dovuto disperdere il lavoro avviato. Peraltro, alcuni comuni hanno autonomamente deciso di garantire funzioni di informazione e orientamento anche per il Rdc. Si tratta prevalentemente di realtà con sistemi di welfare locale più avanzati e non è chiaro in quale misura la buona prassi si diffonderà: c’è il rischio che a praticarla di meno siano i comuni dei territori più deboli.

Le funzioni di informazione e orientamento saranno privatizzate?

Si possono delineare tre conseguenze per il welfare locale della dismissione del ruolo pubblico di informazione e orientamento dei comuni.

Primo, la privatizzazione gratuita. Nei territori appare già evidente che un crescente numero di persone si rivolge ad associazioni – Caritas e altre realtà del terzo settore – per capire cosa fare. Sono soggetti che hanno sempre svolto in parte questa funzione, ma non è possibile scaricarla interamente su di loro.

Secondo, la privatizzazione remunerata. È il rischio di ripetere quanto avvenuto in Grecia con la misura nazionale contro la povertà introdotta nel 2017 (il reddito di solidarietà sociale). Per la mancanza di adeguati servizi pubblici di informazione e orientamento, il 40 per cento dei richiedenti, per essere aiutato a inoltrare la domanda, ha pagato privatamente una figura esterna al sistema del welfare. Si tratta di singoli privati che, senza alcun inquadramento regolare, svolgono impropriamente tale attività nel mercato sommerso.

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Infine, la supplenza dell’Inps. Il suo presidente Pasquale Tridico, principale estensore del Rdc, ha di recente sottolineato gli ostacoli che allontanano i più fragili tra gli ultimi dalla possibilità di fruire della misura, richiamando in varie occasioni i “tanti poveri che non hanno nemmeno la capacità – intellettuale o materiale – di presentare la domanda”. Iniziative mirate, promosse dall’Istituto per fronteggiare il problema, come l’annunciato progetto “Camper Inps” (che dovrebbe raggiungere i poveri in aree particolarmente disagiate), serviranno certamente, seppur su piccola scala. Pare tuttavia difficile immaginare che possano supplire alla chiusura per legge dei circa 5 mila punti di accesso comunali attivati con il Rei.

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  1. Savino

    Gli utenti finali dei servizi di assistenza alla persona e di politiche attive sul lavoro sono proprio diversi. Il concetto di povertà non si concilia con le dinamiche del mercato del lavoro, che prevedono i meccanismi della formazione e degli ammortizzatori sociali. La rete dell’assistenza è su base locale, se ne occupano Comuni e volontariato, mentre per i CPI va pensata una rete quantomeno nazionale o che vada persino al di fuori dei confini. Il ruolo dei navigator, soprattutto al sud, non può essere quello ovvio di chi dice “qui non c’è lavoro, prova ad andare al nord o all’estero”. Mancano, soprattutto, le pre-condizioni di sviluppo per poter avviare processi di inserimento nel mondo del lavoro.

  2. Daniela

    Nel mio Comune (7200 abitanti in provincia di Milano) è stata accolta una sola richiesta di RDC. Una cifra irrisoria, se la compariamo alla Rei, ma anche al numero di nuclei familiari seguiti dai servizi comunali per situazioni di fragilità. Quindi il tema della difficoltà di accesso esiste e probabilmente in maniera così pesante da rendere inefficace la misura. Non concordo sul fatto che utenti dei servizi sociali e destinatari delle politiche attive sono diverse. Altrimenti restiamo nella logica dell’assistenzialismo fine a se stesso. Certo, i Comuni sono il front office di tutte le politiche sociali, e proprio per questo si dovrebbe sfruttare meglio il loro know how

  3. Marco Limonta

    Nell’articolo si parla di Comuni che autonomamente hanno messo a disposizione dei centri informativi sul RdC: in questi Comuni le richieste di RdC sono superiori rispetto alla media? Ci sono delle evidenze numeriche? Correlandole, si avrebbe la conferma di come sia necessario fornire un supporto informativo chiaro e facilmente accessibile proprio per i potenziali richiedenti il RdC, che molto probabilmente sono persone che hanno maggiormente bisogno di un aiuto in questo senso.

  4. Gaetano Proto

    Il problema applicativo su cui si focalizza l’articolo è importante. Comincia però a essere chiaro che è il disegno stesso del RdC a escludere una quota rilevante di poveri, anche se fossero tutti debitamente informati e orientati. L’ultima relazione della Banca d’Italia contiene una interessante stima dei “poveri assoluti” che risulteranno esclusi dal RdC: più del 40% a livello nazionale (5,5% a causa dei requisiti stringenti di residenza — peraltro in odore di incostituzionalità — e 35,5% a causa dei requisiti reddituali e patrimoniali), con un picco del 55,5% al Nord, dove le due cause di esclusione pesano per il 9,5 e il 45%. Pur con l’approssimazione dovuta ai dati di base incompleti, è una stima che conferma come l’obiettivo di abolire la povertà, raggiungendo in blocco i 5 milioni di poveri assoluti stimati per il 2017 e appena confermati per il 2018, non si sia accompagnato a una capacità realizzativa adeguata. Va detto che il dato ufficiale sui poveri assoluti è il risultato di una stima campionaria basata sull’applicazione di soglie differenziate per tipologia familiare e territorio ai dati dell’indagine sulla spesa, quindi è un’entità statistica che può essere solo un obiettivo di massima di qualsiasi misura nazionale di integrazione del reddito, ma una discrepanza così ampia non sarebbe possibile senza grossolani errori nel disegno della politica, come quelli rilevati in vari articoli su questo e altri siti.

  5. Giulia Ghezzi

    La mia esperienza di assistente sociale comunale mi induce a ritenere che la grande enfasi posta sull’obbligo di dover accettare le proposte di lavoro abbia scoraggiato molte persone fragili, terrorizzate all’idea di dover accettare un lavoro a chissà quanti km da casa.
    Queste persone non sono state minimamente sfiorate dal dibattito sull’inadeguatezza dei CPI, sull’inconsistenza della figura del navigator e sulla generale mancanza di occasioni lavorative… che si traduce in una sostanziale improbabilità di venire chiamati a colloquio.
    A loro è arrivata solo la comunicazione più semplice e minacciosa delle “norme anti divano” e delle sanzioni che prevedono addirittura il carcere.
    Per questo è fondamentale che ci sia un punto informativo di prossimità e di fiducia, che possa incoraggiare i potenziali destinatari a farsi avanti.

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