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Sugli Eurobond il problema è politico

Da più di due anni l’Unione Europea emette una discreta quantità di “Eu Bonds”. Non hanno assunto però le caratteristiche di un free risk asset e i loro tassi d’interesse sono superiori non solo a quelli tedeschi, ma anche a quelli francesi e spagnoli.

Tutti i bond emessi dall’Unione europea

Negli ultimi anni l’Unione europea è diventata un’importante emittente di titoli pubblici. Fra l’ottobre del 2020 e il dicembre del 2022, nell’ambito del programma Sure, la Commissione europea ha emesso 98,4 miliardi di titoli per finanziare i suoi progetti sociali. Da giugno 2021 si debbono poi aggiungere circa 170 miliardi euro di titoli a medio e lungo termine per il programma NextGenerationEU, varato per rilanciare l’economia europea dopo la crisi pandemica. Tale programma prevede una raccolta complessiva di 800 miliardi di euro entro la fine del 2026. La Commissione, poi, stima di raccogliere fino al 30 per cento dei fondi attraverso emissioni di “green bond”. In questo modo l’Ue diventerà, tra breve, il più grande emittente di obbligazioni verdi al mondo. Infine, l’Unione ha già in programma di emettere 18 miliardi a sostegno dell’Ucraina nel 2023 e altri programmi minori di macro-financial assistance, volti ad aiutare paesi terzi.

Per aumentare la liquidità dei titoli emessi e ridurne il costo, l’esecutivo europeo ha poi deciso una serie di misure di natura tecnica. In primo luogo, i titoli europei vengono emessi con scadenze ben precise sia attraverso aste pubbliche competitive che sindacati di intermediari finanziari. Ogni semestre, infatti, la Commissione pubblica un piano finanziario con le date precise e l’ammontare di titoli che si intendono emettere. Ad esempio, lo scorso dicembre ha annunciato che nel primo semestre di quest’anno emetterà 80 miliardi euro di titoli attraverso: otto aste a medio e lungo termine (a 3, 5, 7, 10, 15, 20, 25, 30 anni, così da avere un benchmark lungo l’intera curva dei tassi); dodici aste a breve di EU-bills a 3 e 6 mesi; e sette transazioni sindacate con un network di “primary dealer” che devono garantire il collocamento dei titoli su un ampio ventaglio di investitori finali e assicurare la liquidità dei titoli sul mercato secondario. Oggi 40 banche hanno il titolo di primary dealer, fra cui Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e UniCredit Bank. 

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In secondo luogo, tutti i programmi, da gennaio di quest’anno, vengono finanziati attraverso un’unica procedura e un unico marchio “EU Bonds” che dovrebbe permettere di rendere i titoli più liquidi e fungibili. Saranno poi gli organi competenti a decidere in maniera flessibile come utilizzare i fondi raccolti fra i diversi programmi in corso. Inoltre, entro i primi mesi del 2024, sarà costruita una repo facility (un programma di pronti contro termine) attraverso la quale la Commissione metterà a disposizione dei titoli in via temporanea per facilitare i partecipanti al mercato.

Un problema politico, non tecnico

Nonostante questi sforzi, il vecchio sogno di molti economisti di assistere alla nascita di un free risk asset europeo, che competa con il Treasury americano o il Bund tedesco, appare ancora lontano. Seppure i titoli europei siano dotati di meccanismi di garanzia del servizio del debito particolarmente efficaci (articolo 323 del Trattato) e godano del massimo del rating da parte delle principali agenzie, vengono emessi e scambiati sulle scadenze lunghe a tassi superiori non solo ai titoli tedeschi, ma anche a quelli francesi, olandesi, belgi e danesi e sulle scadenze più brevi addirittura a quelli spagnoli, nonostante il fatto che molti di questi paesi abbiano rating peggiori. Così gli Eurobond sembrano rassomigliare di più ai supernational, cioè ai titoli emessi dalla Banca Mondiale o dalla Bei, che ai titoli di stato dei grandi paesi avanzati.

Gli operatori di mercato individuano diverse cause dell’“anomalia”. Dal lato della domanda, sembra che gli investitori europei non percepiscano ancora gli EU bond come titoli domestici, che tradizionalmente godono di un bias positivo, che viene invece attribuito ai titoli di stato dei paesi dell’Unione. Questi ultimi finiscono così per diventare i principali competitor degli eurobond. Molti cittadini europei neppure conoscono l’esistenza dei bond europei, che rimangono appannaggio della clientela istituzionale.

Dal lato dell’offerta, molti si chiedono cosa succederà dopo il 2026 quando il programma di finanziamento NextGenerationEU terminerà. La preoccupazione è ulteriormente rafforzata dal fatto che molti governi europei hanno più volte ribadito che il programma è stato varato in una situazione emergenziale e non è destinato a rimanere in vita per sempre. Certo, a questi tassi d’interesse la maggioranza dei paesi dell’Unione, con la rilevante eccezione dell’Italia, non ha alcun interesse a finanziare nessuna nuova iniziativa a livello “federale”, dove il debito risulta più caro. Ovviamente, è un tipico caso di gatto che si morde la coda, ovvero – come dicono gli economisti – un self-fulfilling problem. Tuttavia, la verità è che il problema è più di natura politica che tecnico-economico: l’Europa non è ancora una vera federazione e fin quando non lo diventerà in termini istituzionali e reali, il sogno di avere un free risk assets rimarrà un’utopia.

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Statistiche che sfidano il buon senso

  1. andrea mairate

    Ho letto con interesse l’articolo di Rony Hamui. Concordo con la sua conclusione ma vorrei fare una precisazione non solo semantica. Parliamo di EU bonds ma non di eurobonds. I primi sono garantiti dagli stati membri e non dall’UE. La questione del finanziamento di NextGenEU rimane ancora incerta poichè in parte dipenderà da nuove risorse proprie su cui ci sono ancora profonde divisioni tra gli stati membri.

  2. Andrea Zatti

    Analisi interessante e condivisibile., soprattutto nella mancata percezione dell’UE come nazione di appartanenza da parte dei cittadini/investitori (Il titolo potrebbe essere allora: ‘Sugli Eurobond il problema è politico e culturale’).
    Solo un passaggio non mi convince: ‘Certo, a questi tassi d’interesse la maggioranza dei paesi dell’Unione, con la rilevante eccezione dell’Italia, non ha alcun interesse a finanziare nessuna nuova iniziativa a livello “federale”, dove il debito risulta più caro.’.
    Questa però è ancora una prospettiva nazionale. Anche con tassi un po’ più elevati, l’interesse del debito contratto a livello europeo e garantito a livello europeo starebbe comunque nel fatto che si potrebbero finanziare beni e investimenti che gli Stati non hanno interesse a produrre da soli (beni pubblici europei). Ad essere interessante non è tanto la prospettiva di un debito europeo che permetta ai singoli stati di finanziarisi a condizioni migliori, quanto quello di un debito europeo che riesca ad alimentare attraverso ,le tipologie d’intervento, una prospettiva realmente comunitaria

  3. Maurizio Cortesi

    Stante questa incoerenza politico-istituzionale perché disperdere le emissioni su così tante scadenze, anche inferiori all’anno, invece di concentrarsi su alcune soltanto dove si potrebbe davvero diventare benchmark. Vorrei sapere se ci sono differenze significative tra gli spread verso i titoli nazionali lungo la curva dei tassi. Federalismo significa anche complementarietà tra stati nazionali e unione sovranazionale, il famoso ‘gioco di squadra’.

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