L’entrata in vigore della Global Minimum Tax, nel 2024, impone di ripensare gli incentivi fiscali alle imprese. Se non vengono costruiti in modo adeguato rischiano di essere solo un costo per lo stato concedente. La riforma fiscale ne deve tener conto.

Arriva la Global Minimum Tax

Il governo pare ormai avviato alla presentazione di una proposta di legge delega di riforma del sistema fiscale che riprenda il cammino interrotto con la fine anticipata della scorsa legislatura. Un intervento di cui tutti avvertono la necessità, ma che ha fatto fatica a trovare uno sbocco concreto perché la materia si presta a visioni anche radicalmente diverse.

La sfida interviene proprio nel momento in cui fa il suo debutto una gigantesca ipotesi di ridisegno della fiscalità mondiale, quantomeno per le imprese di grande dimensione: la Global Minimum Tax (Gmt) quale strumento di attuazione del cosiddetto Pillar 2 di fonte Ocse. Ridisegno fatto proprio dall’Unione europea con la direttiva n. 2523 del 14 dicembre 2022 (entrata in vigore prevista per il 2024) di cui il governo è obbligato a tener conto già in sede di legge delega.

La Gmt si applica solo alle imprese con fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro. E, precisa la direttiva, tanto che siano multinazionali (operino, cioè, in più di un mercato), quanto che siano campioni solo nazionali (gruppi nazionali di larga scala). Si è voluto, così, evitare che le imprese comunitarie diffuse sui mercati internazionali si trovassero svantaggiate rispetto a quelle loro concorrenti per dimensione assoluta, ma operanti solo nel mercato domestico.

Come funziona

La Gmt si applica qualora le imprese di un ordinamento – per ipotesi: l’Italia – paghino un’imposta sul reddito inferiore al 15 per cento. Non rileva, a questi fini, l’aliquota nominale (in Italia del 24 per cento) ma solo quella effettiva (Afe). Anche il reddito non è l’imponibile dichiarato a fini Ires, ma quello risultante dal bilancio redatto con i principi Ifrs o, in Italia, Oic: il che vuol dire sfrondato delle rettifiche di carattere fiscale. La conseguenza è che risulterà ben possibile che fra abbattimenti del reddito imponibile (metti per patent box) e riduzioni dell’imposta (metti per Ace) il rapporto fra imponibile rettificato e imposta dovuta scenda al di sotto del 15 per cento. Ne deriverebbe la necessità di integrare la differenza fra l’aliquota effettiva e la Gmt dovuta (15 per cento). Ma chi la percepirebbe? Allo stato attuale, l’ordinamento in cui è insediata la capogruppo (Ultimate Parent Entity, Upe) della società italiana sottotassata (o lo stesso stato italiano per i campioni nazionali). Si potrebbe avere, cioè, un trasferimento netto di un’agevolazione garantita dallo stato italiano non già a favore dell’impresa coinvolta ma del fisco del paese della casa-madre. Si tratta, chiaramente di un disincentivo finalizzato a evitare – o quantomeno a ridurre – la concorrenza fiscale fra stati basata solo sulla corsa al ribasso (“race to the bottom”).

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L’applicazione della Global Minimum Tax – assai complicata e che pone una pluralità di problemi con cui occorrerà misurarsi successivamente – deve innanzitutto far riflettere sulle tipologie e sulla meccanica con cui vengono garantiti incentivi di ordine fiscale alle imprese operanti sul territorio nazionale. Se infatti non vengono costruiti in modo compatibile con la Gmt rischiano di esaurire la loro funzione incentivante e, al tempo stesso, mantenere un costo a carico dello stato concedente, perché oggetto di rettifica ai fini del computo dell’aliquota fiscale effettiva. L’Afe è il frutto di una banale divisione. Al numeratore vi sono le imposte dovute (covered taxes); al denominatore il profitto contabile (Globe income, suscettibile, peraltro, di svariate rettifiche). Gli incentivi fiscali sono collocati, secondo la loro natura fra quelli che rettificano il numeratore o il denominatore. Si mira, in particolare, a distinguere fra (i) apporti che il singolo stato intende concedere a un’impresa o a un settore pagando di tasca propria e (ii) apporti che vengono concessi solo per rendere più appetibile (e concorrenziale) un sistema fiscale nazionale rispetto a quelli dei paesi concorrenti.

Il ridisegno degli incentivi

Il riferimento principale – e che meglio esemplifica il file rouge seguito – è quello dei crediti d’imposta. Qui si distingue fra crediti pienamente disponibili (cash equivalent) e crediti d’imposta a uso limitato (non qualified refundable tax credit). I primi sono pure e semplici modalità di trasferimento di contributi dallo stato al contribuente. Il credito d’imposta è qui solo lo strumento di facile attuazione del trasferimento. Deve essere liquido (cioè esaurirsi in non più di quattro anni) e liberamente spendibile (cioè compensabile con qualsiasi debito fiscale verso lo Stato, sia esso Iva o contributi sociali) o incondizionatamente rimborsabile. I secondi, invece, sono visti come veri e propri benefici solo fiscali e, quindi, non cash equivalent (perché di durata superiore a quattro anni ovvero perché spendibili solo per compensare future imposte sul reddito e, conseguentemente, incerti). I primi vanno ad aumentare il profitto contabile (sono considerati come dei ricavi aggiunti); i secondi vanno a diminuire le imposte dovute.

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Per esempio: la società Alfa, che ha un reddito imponibile di 100 e imposte pari a 24 (quindi una aliquota effettiva pari a 24 per cento), ha beneficiato nell’esercizio di un credito d’imposta di 15. Se il credito è cash equivalent aumenta il reddito imponibile da 100 a 115 senza modificare le imposte dovute. L’Afe è, in questo caso, 27,6 per cento. Se, invece, il credito è un “non qualified refundable tax credit” diminuisce solo le imposte dovute. L’imponibile resta pari a 100, mentre le imposte dovute scendono a 9: col risultato che l’aliquota fiscale effettiva diventa 9 per cento e si applica l’imposta compensativa (top-up tax) di 6.

La top-up tax, peraltro, può essere prelevata anche dallo stesso paese in cui emerge la sottotassazione in questione (qualified domestic minimum tax, Qmdt).

In conclusione, è tutta la tematica degli incentivi di ordine fiscale che va ripensata sotto un profilo sostanziale e ritarata sotto un profilo squisitamente meccanico per fare sì che restino compatibili con le nuove regole che si affacciano all’orizzonte internazionale, ma che hanno per oggetto la parte più robusta dell’attività imprenditoriale esercitata in Italia. La bozza di legge delega circolata in questi giorni sembra recepire la problematica (articolo 9, comma 1, lett. d). Ma a essa va dedicata grande attenzione.

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