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Perché la crisi bancaria innervosisce mercati e banche centrali

La bufera che ha investito il sistema bancario americano ed europeo non sembra placarsi. Le ragioni vanno ricercate nella difficoltà di gestire la politica monetaria in un contesto di alta inflazione e in una situazione rapidamente cambiata per le banche.

Il dilemma dei banchieri centrali

La bufera che ha investito prima il sistema bancario americano e subito dopo quello europeo continua a innervosire i mercati. Eppure, gli interventi delle autorità monetarie a sostegno della liquidità delle banche sono stati decisi e non si vede all’apparenza un rilevante deterioramento del credito, che aveva caratterizzato tutte le precedenti crisi bancarie. 

Una delle ragioni del nervosismo dei mercati, ma anche dei banchieri centrali, sta nella difficoltà di gestire la politica monetaria in una situazione come quella attuale. Esiste una vastissima letteratura scientifica che sottolinea i legami tra la politica monetaria e le crisi bancarie. Conclude un recente lavoro di Frederic Boissay, Fabrice Collard, Jordi Galí e Cristina Manea: una politica monetaria, che mantenga troppo a lungo tassi d’interesse molto bassi per poi alzarli inaspettatamente e bruscamente, può facilmente condurre a crisi bancarie. Accade perché un lungo periodo di abbondante liquidità e bassi tassi d’interesse induce gli operatori a investire in maniera eccessiva in attività rischiose.

In questo contesto le politiche ultra-espansive portate avanti dopo lo scoppio della pandemia, pur avendo aiutato a limitare gli effetti recessivi, sono state abbandonate forse troppo tardivamente e certamente repentinamente sia dalla Federal Reserve che dalla Banca centrale europea. Convinte che il sistema bancario fosse ben capitalizzato e profittevole, le banche centrali si sono focalizzate sull’obiettivo di combattere in maniera aggressiva l’inflazione e governare le aspettative, lasciando in secondo piano il loro compito di assicurare la stabilità finanziaria.

Ora però la situazione appare mutata.

Se è comprensibile che nel breve periodo la Bce e la Fed non vogliano bruscamente invertire la rotta tracciata in termini di aumento dei tassi d’interesse, nel medio periodo è indubbio che la crisi bancaria di questi giorni porterà a un ripensamento delle loro strategie. Tuttavia, le banche centrali si trovano di fronte a un difficile dilemma da risolvere: combattere un’inflazione che continua a dimostrarsi più perniciosa del previsto, o evitare che la crisi bancaria degeneri.       

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La situazione del sistema bancario

Complicata appare anche la situazione del sistema bancario, che fino all’altro ieri appariva nel complesso ben capitalizzato e profittevole. Durante la crisi pandemica le banche si erano ben guardate dal concedere eccessivo credito all’economia e quello erogato era stato ampiamente garantito dallo stato. Così le banche sinora non hanno accumulato crediti problematici, mentre hanno beneficiato dell’aumento dei tassi d’interesse accrescendo il margine di intermediazione. È infatti salito molto il differenziale tra i tassi sui depositi pagati a famiglie e imprese – rimasti stabili – e quello sugli impieghi, fortemente aumentato. Problematica risulta, invece, la situazione sul fronte del portafoglio titoli detenuto e sui conseguenti rischi di mercato. Infatti, negli anni scorsi le banche, inondate da depositi, hanno acquistato a man bassa titoli di stato a lungo termine che avevano coefficienti di ponderazione pari a zero, e garantivano una remunerazione superiore a quella dei depositi presso le banche centrali e dei titoli a breve.

La Fdic (Federal Deposit Insurance Corporation) stima che alla fine dello scorso anno le banche americane detenevano 5.500 miliardi di dollari di titoli pubblici e mortgage-backed security (Mbs), il 44 per cento di più del livello pre-pandemico. Questi titoli, a seguito dell’aumento dei tassi d’interesse registrato nel corso del 2022, hanno generato una perdita potenziale di 620 miliardi di dollari (vedi grafico). Nell’Unione europea, secondo l’Eba, i titoli pubblici in pancia alle banche ammontano a 3.300 miliardi di euro, con una perdita potenziale vicina ai 370 miliardi.

Ovviamente, sono solo perdite potenziali, che non vanno neppure contabilizzate in bilancio se i titoli sono classificati come held-to-maturity (Htm), cioè da tenere sino alla scadenza. Infatti, solo i titoli classificati come available-for-sale (Afs) vanno contabilizzati al prezzo di mercato. Rimane il fatto che mai nella storia si era registrato un simile ammontare di perdite potenziali nei conti delle banche. E la perdita è destinata ad aumentare se le banche centrali continueranno a perseguire una politica monetaria più restrittiva o se il mercato dovesse spaventarsi e aumentare il premio per il rischio sui titoli di stato.

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Oggi metà delle perdite potenziali derivano da titoli classificabili come Htm e quindi “protette” dalla normativa contabile. Se tuttavia alcune banche fossero costrette a vendere i loro titoli perché soggette a una fuga dei depositi, le perdite potenziali si trasformerebbero in perdite effettive come è successo per la Silicon Valley Bank e la Signature Bank.

Ecco perché le banche centrali hanno garantito alle banche molta liquidità.

Tuttavia, una parte del sistema bancario si trova in un tipico mondo a equilibri multipli, ampiamente studiato dagli economisti. Esiste un possibile equilibrio “buono” in cui le banche sono in grado di spalmare le perdite potenziali su più esercizi e un equilibrio cattivo in cui, spinte dai timori dei risparmiatori ma anche dalle politiche monetarie, sono costrette a fallire innescando una spirale deflattiva.

È chiaro che un simile scenario innervosisca il mercato, ma non possa lasciare indifferente neppure le banche centrali e le altre autorità che hanno una enorme responsabilità nel guidare le aspettative degli operatori e in ultima analisi il futuro del sistema bancario e delle nostre economie. Di qua numerose proposte oggi sul tappeto, fra cui quella di aumentare in maniera consistente i depositi garantiti.

Nel frattempo, le autorità svizzere hanno fatto bene a cercare a qualsiasi costo un acquirente per Credit Suisse, da troppi anni una banca “zombi”, che l’anno scorso ha perso 7,9 miliardi di dollari, dopo una serie di scandali e investimenti sbagliati che l’hanno resa una controparte inaffidabile. Temo tuttavia che per finire nell’equilibrio buono saranno necessari altri interventi delle autorità competenti.

Figura 1 – Perdite potenziali del portafoglio titoli detenuti dalle banche americane

Legenda: in blu titoli disponibili per la vendita; in azzurro titoli posseduti fino a scadenza.
Fonte: FDIC

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Quando le crisi finanziarie diventano sistemiche

  1. Paolo

    “In questo contesto le politiche ultra-espansive portate avanti dopo lo scoppio della pandemia, pur avendo aiutato a limitare gli effetti recessivi, sono state abbandonate forse troppo tardivamente e certamente repentinamente”

    E se invce che “tardivamente” le politiche espansive, in un contesto di inflazione che non dipende dalla domanda, fossero state abbandonate troppo presto? Sicuramente sono state abbandonate “repentinamente”, e francamente mi chiedo come sia possibile che dopo anni di crescita nei portafogli delle banche ti titoli di stato con bassissimi interessi le banche centrali abbiano potuto sottovalutare in modo così evidente l’effetto di un improvviso rialzo dei tassi sugli asset Ats.

    Forse ha ragione James K. Galbraith quando dice che il problema è la “notevole, ostinata, ferocemente difesa e mai corretta ignoranza degli economisti ‘mainstream’ su denaro, banche e finanza”?

    Fonte: https://medium.com/@monetarypolicyinstitute/a-comment-on-bernankes-nobel-lecture-9dd96c3de81d

  2. Paolo

    In molte occasioni, prima, durante e dopo la crisi finanziaria del 2008, e addirittura al discorso per l’accettazione del premio Nobel, Ben Bernanke ha detto che per tutta la sua attività di ricerca, nel suo “giro”, nessuno ha mai preso sul serio l’instabilità finanziaria, al punto che quando la crisi esplose nel 2008 “nessuno la vide arrivare, e i modelli della FED sottostimarono enormemente l’impatto sull’economia reale”. In realtà di instabilità finanziaria si sono occupati e si occupano tuttora moltissimi economisti, tra cui alcuni giganti del passato (Keynes, Minsky, Galbraith e altri), che però non vengono mai incaricati da istituzioni politiche come le banche centrali (si, esatto, le banche centrali sono istituzioni politiche). E ad ogni crisi, gli economisti che “non prestano attenzione all’instabilità finanziaria” cadono dal pero, senza mai farsi male, adottano politiche monetarie che “sottostimano grandemente gli effetti sull’economia reale”, e poi vincono il Nobel.
    Possiamo veramente sostenere che la Fed non potesse prevedere l’impatto sugli asset AFS dei bruschi rialzi dei tassi? Possiamo continuare a permetterci di lasciare istituzioni politiche a gestire momenti di crisi adottando approcci ideologici? Possiamo continuare a credere nella “razionalità” dei mercati finanziari, per poi trovarci a criticare le scelte dei manager quando uno shock fa scoppiare la bolla? Forse è arrivato il momento di ripensare il ruolo che l’umore dei mercati deve avere nelle decisioni di politica economica, così come il ruolo delle istituzioni che si occupano di politiche economiche.
    Il prezzo che i lavoratori stanno pagando, in Europa più che altrove, è insostenibile, possiamo ancora permetterci un modello che subordina l’economia reale al tasso di interesse reale sempre e comunque, nonostante negli ultimi 40 questo approccio abbia generato instabilità continua?

  3. aldo

    Aspettarsi soluzioni efficaci dalla scienza economica “mainstream” in periodi come questo è irrealistico: l’economia è una scienza (?) essenzialmente “di corte” dove ci si affanna perlopiù a promuovere e confermare le “verità” gradite al “dominus” di turno. Duole dirlo, ma quello che vedo da 30 anni è questo. Con lodevoli e notevoli eccezioni, per fortuna. Ma quasi mai queste eccezioni appartengono al “mainstream”.

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