Il disegno di legge delega sul fisco è molto articolato. Ma nel complesso sembra mancare una visione coerente e organica della struttura del sistema tributario e dell’interazione tra le sue componenti. Resta poi aperto il nodo di come finanziare la riforma.
Una riforma articolata, sicuramente non “epocale”
Il disegno di legge delega di riforma fiscale approvato dal governo Meloni è già al centro del dibattito e delle polemiche. E lo sarà per molto tempo, non solo per la lunghezza dell’iter (prima l’approvazione parlamentare e poi l’emanazione dei decreti legislativi entro i 24 mesi successivi), ma anche per la complessità e le difficoltà oggettive di attuazione.
Analogamente al Ddl delega presentato dal governo Draghi nell’ottobre 2021, decaduto con la legislatura, la riforma prospettata dal governo Meloni interessa l’intero sistema tributario: Irpef, Ires, Irap, imposizione delle attività finanziarie, Iva, accise, imposte sui giochi, imposte di registro, ipotecarie e catastali, imposte regionali e locali. Interviene poi su tutti gli istituti che riguardano i rapporti fisco-contribuente: accertamento, riscossione, contenzioso, sanzioni e statuto del contribuente. I vari temi vengono trattati in modo disomogeneo. A volte i principi e criteri direttivi restano molto generali, e un giudizio definitivo sarà possibile solo quando saranno emanati i decreti legislativi. Altre volte, invece, si scende in dettagli fin eccessivi per una legge delega. A fianco di principi e criteri direttivi condivisibili, ve ne sono altri che suscitano diverse perplessità. È difficile fare una sintesi: occorrono specifici approfondimenti. Ma nel complesso sembra mancare una visione coerente e organica della struttura del sistema tributario e dell’interazione tra le sue componenti. E resta aperto il nodo di come finanziare la riforma.
Verso quale sistema tributario?
Per la tassazione personale, il modello di riferimento a cui si tende, coperture finanziarie permettendo, è la flat tax per tutti, cavallo di battaglia di Lega e Forza Italia, un sistema poco equo, molto costoso e non a caso inesistente nei paesi occidentali. Nel percorso verso questo obiettivo, il regime transitorio, che rischia di diventare definitivo per mancanza di risorse, introduce ulteriori disparità di trattamento e corsie preferenziali che peggiorano l’equità orizzontale e verticale del sistema.
Non si affronta adeguatamente il problema dell’erosione della base imponibile Irpef, primo vulnus dell’equità del sistema. Permangono le molteplici forme di esclusione dal calcolo del reddito complessivo, a partire dalla flat tax per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro, e si prevedono persino nuovi regimi sostitutivi: si conferma la flat tax incrementale per lavoratori autonomi, professionisti e imprese, introdotta dall’ultima legge di bilancio per il solo 2023; si pensa di estendere una analoga forma di agevolazione anche ai lavoratori dipendenti; si consente la possibilità di assoggettare a cedolare anche i redditi degli immobili commerciali.
L’annunciata revisione delle spese fiscali (deduzioni, detrazioni e crediti di imposta) è generica, non meno di quanto abbiano fatto in precedenza tutti i governi. Se ne auspica il riordino, assieme ad aliquote e scaglioni, tenendo conto delle loro finalità. Ma l’elenco delle finalità meritorie è talmente esteso (famiglia, sanità, istruzione, casa, efficientamento energetico e antisismico) da far dubitare che dal riordino possa emergere un significativo recupero di imponibile e di gettito. Inoltre, il richiamo alla composizione del nucleo familiare è ambiguo, tanto più in presenza di un Assegno unico familiare, e lascia aperta la possibilità che vengano rievocate forme di imposizione familiare tipo splitting o quoziente.
Il Ddl delega contempla la riforma dei redditi di natura finanziaria, ma non è prevista, neppure in prospettiva, l’uniformità delle aliquote cedolari da applicare ai vari redditi finanziari e a quelli immobiliari, attualmente molto differenziate. Non è una sorpresa, ma non compare la riforma del catasto, altro pilastro che sarebbe invece necessario per riportare su un piano di equità il nostro sistema tributario.
Sulla tassazione delle imprese, si introduce la possibilità, per le società di persone e le imprese individuali in contabilità ordinaria, di assoggettare gli utili trattenuti all’aliquota proporzionale Ires, invece che alle aliquote progressive Irpef. Si tratta di una forma di imposizione simile all’Iri (imposta sul reddito dell’imprenditore), già introdotta nel 2016 e abolita dal primo governo Conte, il cui scopo è rendere più neutrale il trattamento fiscale delle imprese indipendentemente dalla loro forma giuridica. Al contempo, però, si prevede la progressiva abolizione dell’Irap (il cui gettito della componente privata è pari a circa 12 miliardi), prioritariamente per le società di persone e le associazioni di professionisti, e la sua sostituzione con un prelievo che graverà interamente sulle società di capitali, reintroducendo una discriminazione fra le due tipologie di imprese. Inoltre, per le società di capitali è prevista una aliquota agevolata, in caso di trattenimento degli utili per nuovi investimenti e occupazione. La detassazione degli utili reinvestiti, ipotizzata nel Ddl Meloni, ricorda una analoga misura introdotta con la legge di bilancio per il 2019 dall’allora governo giallo-verde. In quel caso si abolirono contestualmente sia l’Ace (aiuto per la crescita economica) sia l’Iri. Ma la riforma ebbe una vita sfortunata per le sue difficoltà applicative e, successivamente, il nuovo governo giallo-rosso fece marcia indietro e reintrodusse l’Ace. Qui di Ace non si parla; eppure, costituisce una componente strutturale del sistema di tassazione societario che persegue obiettivi di crescita e patrimonializzazione, gli stessi che il governo assegna alla detassazione degli utili. Ma l’Ace lo fa in modo più organico: ad esempio, agevola anche i nuovi apporti di capitale e riguarda tutte le imprese.
Il Ddl non affronta il problema del peso relativo tra imposte dirette e indirette. Non prevede un accorpamento delle aliquote Iva, che sarebbe utile anche ai fini del contrasto all’evasione, ma una omogeneizzazione di trattamento per beni similari e la possibilità di introdurre anche una aliquota zero, aumentando ulteriormente il già ampio ventaglio delle aliquote.
Anche con riferimento ai temi procedurali (accertamento, riscossione e sanzioni), a fianco di specifici aspetti condivisibili (ad esempio l’estensione della cooperative compliance e l’uso massiccio delle banche dati ai fini di migliorare l’adempimento spontaneo e l’efficacia e l’efficienza dei controlli), molti altri necessitano di chiarimenti (ad esempio il concordato preventivo) e potrebbero tradursi in disparità di trattamento poco giustificabili.
La pressione fiscale e la copertura finanziaria: qualcosa non torna
La riforma si prospetta molto costosa, tanto più se, come spesso è accaduto in passato, si cerca di avvantaggiare tutti. La riduzione del carico fiscale è in effetti indicata tra i principi generali per stimolare la crescita, ed è ciò che il governo continua ad annunciare. Ma alla fine del Ddl, nell’articolo sulle coperture finanziarie, in modo responsabile e del tutto analogo al precedente Ddl Draghi, si precisa che la riforma deve avvenire senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e ci si limita a dire che la pressione tributaria non deve aumentare. Qualcosa non torna: si vuole ridurre la pressione fiscale o si vuole salvaguardare il bilancio? Le indicazioni di reperimento di risorse sono presenti solo nel caso delle spese fiscali. Ma la lunga lista di spese “intoccabili” lascia presagire che non potrà essere una via strutturale per controbilanciare, se non parzialmente, la composizione della pressione fiscale.
In questo contesto, le strade per evitare ulteriori indebitamenti della pubblica amministrazione sono sostanzialmente tre: ridurre la spesa pubblica; credere che la curva di Laffer funzioni sempre e comunque; non portare a termine la riforma o limitarsi, in base agli spazi di bilancio disponibili di volta in volta, a interventi parziali che rischiano di aumentare, invece di risolvere, le inefficienze, le iniquità e la complessità del sistema.
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giorgio cinciripini
Possibile che nessuna ricordo che ad inizi anni 70 c era ancora l aliquota fiscale del 72% per redditi sopra 250 milioni di lire? Addirittura anche in usa stanno introducendo aliquote più alte x redditi alti!
Luigi Panfili
Credo che alla fine l’estensione del limite dei forfettari fino a 85mila non generi così grandi mancanze di gettito, considerando che rinunciando a deduzioni e detrazioni succede spesso che il vantaggio si azzeri, l’aliquota “reale” irpef pagata per i piccoli non forfettari è spesso inferiore al 15%.
Come giustamente scritto, mancherà sicuramente un reale sfoltimento e riorganizzazione della giungla delle tax expenditures (le circolari agenzia entrate del visto spese sono arrivate a 350 pagine…), che provocano grandi iniquità ed ingiustificati risparmi irpef per i redditi più alti.
Giovanni canu
Non capisco perche’ tra una delle ipotesi ci sia una aliquota da 15000 a 50000 al 27%,in questo modo i redditi sotto i 28000 euro sono penalizzati,gli unici hanno sconti da 35000 in su .i vantaggi devono essere x tutti,non solo x i redditi alti.2° e 3° ipotesi risparmiano tutti.
Antonio Marotta
Finirà come al solito, impoverimento della fascia 35000 euro , unica e sola che ha foraggiato le pulsioni “pelose” della politica catto-comunista che ha sempre governato (male) questa sfortunata repubblica. I poveri non pagano nulla e i ricchi si difendono da soli.
f.m.Parini
Io introdurrei una quarta aliquota con la possibilità di detrazione percentuale per fascia.Mi spiego, amettendo che la prima fascia possa detrarre 1500 €, la seconda 1000 €, la terza 500 € e la quarta 100€ avremmo un montante di detrazione che può essere utilizzato per qualunque spesa ( manutenzione ordinaria della casa,idraulico, elettricista, manutenzione elettrodomestici, spese di ripetizioni, spese al ristorante,ecc.) in questo modo si favorirebbe l’emissione sia di ricevute sia la riduzione delle prestazioni in nero.Oggi è la notizia di un bar…nella sede dell’agenzia delle entrate che non rilasciava scontrini, questo episodio la dice lunga sulla possibilità di recupero dell’evasione e della utilità dell’uso del bancomat.
Poi non parliamo dell’iniquità delle rendite catastali attuali e della grande evasione dell’imu e degli affitti di appartamenti nella stagione estiva.
Le varie agevolazioni possono essere eliminate nel tempo e la tassa piatta è sia incostituzionale sia impossibile da varare per l’incertezza delle coperture finanziarie.Non dimentichiamoci il mostruoso debito pubblico che si vuole incrementare, ad esempio, con l’inutile ponte sullo stretto di Messina.
Emanuele
La conclusione è la solita, comune a tutti i governi passati negli ultimi 30 anni: sarà cambiata qualche sigla, qualche dicitura, qualche nome, ma in sostanza non cambierà nulla. Non c’è una responsabilizzazione della classe politica, che continua a fare propaganda spicciola sul tema della tassazione, con la conclusione che si aumentano le disparità, le disuguaglianze ed il caos. Sono certo che nessuna riforma organica vedrà mai la luce. In assoluto, credo sia aberrante per un tecnico, pensare anche solo lontanamente ad una flax tax, un concetto assolutamente contrario ad una giustizia sociale di progressività. Fin da quando è nato il concetto di tassazione si è accetta l’idea che chi ha un reddito maggiore pagherà maggior tasse. L’arroganza con la quale si vuole sovvertire questo concetto di giustizia sociale è indisponente.
Emanuele
p.s.: la curva di Laffer concetto molto aleatorio e da sempre dibattuto nella letteratura economico, in italia è completamente incoerente con la psicologia sociale. Mi piacerebbe un giorno condurci uno studio econometrico e testarne la validità.