L’inflazione resta persistente negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Dunque, le banche centrali dovrebbero insistere con gli incrementi dei tassi di interesse. Ma dal punto di vista della solvibilità delle banche, ciò potrebbe rivelarsi disastroso.
Due effetti delle politiche monetarie restrittive
Tra il 1979 e il 1982 l’allora presidente della Federal Reserve Paul Volcker attuò una fortissima stretta monetaria per cercare di frenare un’inflazione a due cifre. Volcker mise fine al rialzo dei tassi quando si verificò il primo fallimento nel sistema bancario americano.
Le analogie con gli eventi di queste ultime settimane sono evidenti. Le politiche monetarie restrittive di contrasto all’inflazione hanno effetti importanti sulla stabilità degli intermediari finanziari, di segno sia positivo che negativo. Il punto centrale è che gli effetti negativi tendono a prodursi molto velocemente, mentre quelli positivi solo con ritardo.
Gli effetti negativi sono essenzialmente due. Primo, il rialzo dei tassi di interesse influenza direttamente il mercato interbancario, aumentando il costo di indebitamento per le banche, sia per i prestiti contratti direttamente con la banca centrale che per i prestiti da altre banche sul mercato. In secondo luogo, il rialzo dei tassi porta a una svalutazione delle attività finanziarie a basso rischio detenute dalle banche, in particolare titoli di stato e titoli sintetici cosiddetti Mbs (mortgage backed securities, cioè titoli con sottostante un insieme molto ampio e diversificato di mutui immobiliari). Quanto più alto è il peso di titoli di stato e Mbs nel portafoglio delle banche, e quanto maggiore è la loro maturità (cioè l’orizzonte temporale di scadenza), tanto più alta è l’esposizione al rischio di rialzo dei tassi di interesse.
Dall’altro lato, tassi di interesse più alti tendono a gonfiare i profitti, perché le banche possono emettere prestiti (mutui) con rendimenti più alti. Ma la trasmissione dai tassi a breve termine direttamente influenzati dalla banca centrale ai tassi di interesse a medio-lungo termine sui prestiti è indiretta e lenta. In più, il rialzo dei tassi di politica monetaria si traduce in un aumento dei tassi di interesse solo sui prestiti e mutui di nuova emissione, non su quelli già emessi in passato. Perciò gli effetti negativi sui bilanci tendono a prodursi molto più velocemente degli effetti positivi. È il motivo per cui le banche tipicamente acquistano assicurazione contro il rischio di rialzo dei tassi di interesse.
Come le banche si assicurano contro il rischio rialzo dei tassi
Durante gli anni della crisi Covid le banche, sia in Usa che in Europa, hanno beneficiato di un forte flusso in entrata di depositi, essenzialmente per ragioni di risparmio precauzionale da parte di imprese e famiglie. In quella fase di recessione economica, la domanda di prestiti era relativamente bassa, perciò le banche erano incentivate a investire la grande disponibilità di depositi in eccesso rispetto ai mutui in titoli Mbs.
Se da un lato i titoli Mbs permettono di diversificare il rischio di default su una ampia platea di mutui immobiliari, dall’altra hanno però una forte esposizione al rischio di interesse. Si calcola che il rialzo dei tassi dal gennaio 2022 abbia prodotto nel sistema bancario una svalutazione dei titoli (sia di stato che Mbs) pari a circa 800 miliardi di dollari. Se si includono sia le svalutazioni sui titoli che quelle sui mutui, le perdite (a valore di mercato) nello stesso periodo corrispondono a circa 1.700 miliardi di dollari.
Le banche possono cercare di assicurarsi contro il rischio di rialzi dei tassi di interesse in due modi. Il primo, costoso, è quello di acquistare assicurazione con contratti specifici detti credit default swap. Il secondo, implicito e gratuito, è quello di esercitare il proprio potere di mercato mantenendo il tasso sui depositi bancari (che è un costo per le banche) relativamente basso e stabile, nonostante l’aumento parallelo dei tassi di interesse attuato dalla politica monetaria. Le banche cioè sfruttano a loro favore il fatto che i depositanti abbiano una certa inerzia nel muovere i loro depositi da un istituto all’altro, perché tipicamente investono in una relazione di fidelizzazione.
In sintesi, il margine positivo fra i tassi attivi, determinati dalla politica monetaria, e i tassi passivi sui depositi schiacciati verso il basso (markdown) dal potere di mercato delle banche agisce come una forma di assicurazione rispetto al rischio di rialzo dei tassi di interesse. Sostanzialmente, questa è la strategia messa in atto da Silicon Valley Bank, la banca californiana fallita due settimane fa, il secondo fallimento più grande nella storia americana.
Questa assicurazione è efficace, però, nella misura in cui i depositi rimangono fidelizzati alla banca. In realtà, può accadere che i depositanti si facciano prendere dal “panico razionale” di una corsa agli sportelli, indotta dall’aspettativa che la banca, date le perdite subite, non sia più in grado di garantire i loro depositi. In questi casi il fallimento della banca diventa una profezia che si autorealizza, perché la corsa agli sportelli si diffonde come un contagio tra i risparmiatori.
Le recenti vicende di Svb sono un caso da manuale di corsa agli sportelli. La banca aveva raccolto grandi quantità di depositi durante il Covid. La platea dei clienti era concentrata in relativamente pochi depositanti (le start-up della Silicon Valley) con grandi somme di denaro. Circa il 96 per cento dei depositi in Svb, poiché troppo grandi, non erano assicurati dallo stato contro il rischio di fallimento della banca. Il rischio di una possibile corsa agli sportelli nel caso di perdite indotte dal rialzo dei tassi era dunque sostanziale. La banca aveva utilizzato i depositi per acquistare grandi quantità di Mbs, ma non aveva acquistato assicurazione contro il rischio di rialzo dei tassi, bensì aveva sopravvalutato il proprio potere di mercato tenendo molto basse e stabili le remunerazioni sui depositi. Una strategia particolarmente rischiosa, che si è rivelata fallimentare.
Il problema per la conduzione futura della politica monetaria è quindi tutto nel dilemma tra inflazione e stabilità finanziaria. Da un lato, negli Usa come in Europa, l’inflazione mostra forte persistenza nella propria componente “core”, cioè quella depurata dei prezzi di energia, petrolio e beni alimentari. Ciò richiede di insistere con gli incrementi dei tassi di interesse, per comprimere l’inflazione verso il target del 2 per cento. Dall’altro lato, i rialzi dei tassi potrebbero essere catastrofici dal punto di vista della solvibilità delle banche, soprattutto se nei loro bilanci l’esposizione al rischio stesso di rialzo dei tassi si rivelasse molto più diffusa di quanto apparso finora. La gestione del dilemma renderà le decisioni delle banche centrali ancora più difficili di quanto non fossero fino a pochi mesi fa.
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Savino
I Governi non stanno facendo nulla per combattere l’inflazione e aiutare il consumatore ed il lavoratore nel suo potere d’acquisto. Il primo che si è permesso di alzare i prezzi per speculazione ha creato un danno enorme a sè stesso e a tutto il contesto economico globale. Oggi il rialzo dei tassi, con Governi assai poco collaborativi, è l’inevitabile conseguenza per evitare altre follie.
paolo
“Dunque, le banche centrali dovrebbero insistere con gli incrementi dei tassi di interesse. Ma dal punto di vista della solvibilità delle banche, ciò potrebbe rivelarsi disastroso.”
Per non parlare del punto di vista dell’occupazione, della distribuzione dei redditi. Ma anche dell’inflazione stessa, che non sta scendendo. Ma anche dal punto di vista della ricerca scientifica, visto che non esistono evidenze empiriche che alzare bruscamente i tassi serva a qualcosa per frenare un’inflazione che non dipende in nessun modo dalla domanda.
Forse è il caso di mettere in discussione i modelli adottati, e spostare il dibattito sul piano politico, visto che il modo in cui si affronta l’inflazione è un tema esclusivamente politico.
Eppure no, nonostante non ci siano evidenze empiriche di una qualsiasi utilità della stretta monetaria sull’inflazione, nonostance ci siano evidenze (e fatti) che suggeriscono che l’instabilità finanziaria sia un problema molto più grave direttamente causato da queste politiche monetarie, nonostante l’economia risentirà molto di questa politica monetaria, si continua a dire che le BC “DOVREBBERO”. Forse proprio NON DOVREBBERO, e le politiche economiche e monetarie dovrebbero essere valutate per i risultati che generano.
Francesco Palmieri
Concordo in pieno!
È evidente che l’ultima botta inflazionistica l’ha data la guerra.
Il problema è lato offerta.
E l’aumento dei tassi mette che mette in ginocchio le imprese, che poi danno da vivere alle famiglie, è solo un problema che si aggiunge ad un problema. Applicazione miope di regole che non esistono. La BCE sembra governata da medici che applicano i protocolli senza considerare tutte le condizioni del pasiente, somministrando rimedi peggiori del male.
Savino
si, ma cosa stanno facendo i Governi per combattere l’inflazione e la pronosticabile riduzione del potere d’acquisto che frena il portafoglio dei consumatori?
Angelo
Mi viene sempre un dubbio quando leggo articoli che parlano delle banche. Dubbio confermato anche da questo articolo e della frase finale.
È mai possibile che debbano essere sempre altri e mai le banche stesse a trovare la soluzione? Se hanno fatto impieghi del denaro che mal si allineano con gli aumenti dell’inflazione, che correggano. Non si sono assicurate perché troppo costoso e trovavano più comodo ribaltare sui loro clienti. Ora stanno a guardare, tanto le banche centrali dovranno tenere conto della loro situazione e trovare una soluzione alle loro scelte (possiamo chiamarli sbagli?). Mi piacerebbe trovare lavoro come dirigente in una banca, mi sembra un lavoro molto facile. Qualsiasi cosa faccia altri ripareranno.