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L’era della social-democrazia

Oggi è spesso sui social che i cittadini formano le proprie opinioni su temi politici, economici, culturali. Le ricadute su costumi, consumi e preferenze elettorali sono però reali. Servirebbe un concordato digitale, che definisca alcuni limiti.

I numeri della dimensione digitale

Ieri la social-democrazia era un assetto politico che tentava di stemperare le rudezze del capitalismo con istanze solidaristiche, oggi rappresenta lo spazio in cui i cittadini si formano le proprie opinioni su temi politici, economici, culturali con ricadute reali sui propri costumi, consumi, preferenze elettorali. 

L’adesione diffusa ai social da parte di larga parte della popolazione li ha trasformati in strumenti per la formazione dell’opinione pubblica. 

Vediamo i numeri in campo in Italia grazie al Digital Trend 2022: l’84 per cento della popolazione utilizza Internet, il 71 per cento è un utente attivo; si passano in media 6 ore al giorno su internet (3 ore a guardare contenuti; 2 ore e 40 ad ascoltare musica, podcast e radio; 1 ora e 47 sui social; 1 ora e 22 a cercare informazioni e news, quasi un’ora a giocare); per navigare il 66 per cento usa Chrome e il 18 per cento Safari, i cinque siti più visti sono Google, Facebook, YouTube, Wikipedia, Amazon; per la ricerca Google è quasi monopolista con il 95 per cento di utilizzo; i social più usati sono WhatsApp (40 per cento), Instagram (22 per cento), Facebook (16 per cento), Telegram (3 per cento) e Twitter (2 per cento). Si fanno acquisti sul web per 45 miliardi all’anno. Il 97 per cento degli italiani ha uno smartphone. Siamo già una social-democrazia.

Il grande potere che i social hanno raggiunto implica grande responsabilità in quanto realizzano il trasferimento della conoscenza, orientano l’opinione pubblica, definiscono il valore delle aziende, la propria accettazione sociale, la realizzazione di sé. “Mi parli del suo Twitter”, direbbe oggi Freud.

Internet (intendendo decenni di innovazione tecnologica) si è sviluppato sopra gli ordinamenti giuridici nazionali, producendo contenuti che sfuggono sovente alla regolazione tradizionale. Così nuovi poteri si sono affermati senza che ci sia stata una fase costituente digitale per definire l’(auto)determinazione dei diritti, la divisione dei poteri, la costruzione dei valori. Ma è opportuno portare gli strumenti della democrazia sul piano digitale o difenderla dalle ingerenze digitali? Il rischio è che si riproduca il loop tra azione e reazione, doping e antidoping invece di una piena integrazione nel patto sociale.

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Le ricadute dell’egemonia digitale

Recenti contese elettorali sono state caratterizzate da intromissioni social che hanno sicuramente prodotto un condizionamento della volontà popolare. È ammissibile che app nate per fini di intrattenimento agiscano sulla rappresentatività democratica di un paese? Dunque, è lecito per i social intervenire sul dibattito democratico di un paese e condizionare usi e costumi, esattamente come fanno da decenni giornali e tv. Semmai, l’eterodirezione che i social possono determinare sui sistemi democratici ha dell’eversivo quando è resa surrettiziamente, con strumenti di persuasione potenti e con l’uso spregiudicato di dati personali. 

Queste azioni sono diventate così rilevanti da esigere – per riprendere un problema di ingerenza tra poteri ben noto a noi italiani – un concordato digitale, ovvero una reciproca intesa tra poteri concorrenti che insistono sulla medesima comunità per definirne le sfere di influenza, i reciproci spazi di governo, limiti e collaborazioni. L’Europa sta legiferando, tardivamente e con difficoltà, proprio per contrastare gli oligopoli tecnologici, la pervasività della Intelligenza artificiale e affermare diritti e sovranità digitali (Digital Markets Act e Digital Services Act). 

Vero e verosimile

L’abuso della credulità popolare, affabulatori, imbroglioni ci sono sempre stati e hanno fatto leva sull’asimmetria informativa, l’ignoranza, la paura. Il “lo ha detto la tv” come prova della veridicità di una affermazione è stato sostituito ormai da “l’ho visto su Internet”. Oggi, la verosimiglianza delle notizie false è tale da richiedere un grande sforzo per provarne la veridicità: addirittura la tecnologia falsificherà le sembianze, la voce, il viso delle persone in maniera tale da renderla indistinguibile dall’originale. La questione, dunque, nel piano digitale è più complessa. Non è solo scarsa conoscenza e superficialità: il deepfake è un livello di contraffazione superiore perché il reale diventa virtuale e viceversa.

La società tradizionale era governata da relazioni verticali, dove c’è una gerarchia tra chi insegna e chi impara, tra medico e paziente, tra esperto e utente. Invece, nei social c’è un rapporto orizzontale, tra pari, in cui non si conoscono le credenziali di chi posta, in cui le competenze non sono accreditate da titoli ma da like senza peso specifico. Non basta essere in tanti per avere ragione: “i numeri non decidono la verità” ammoniva Kierkegaard.

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La questione dei limiti da apporre ai contenuti è annosa, già Bob Kennedy nel 1968 sosteneva che fanno aumentare il Pil “programmi televisivi violenti per vendere prodotti violenti ai nostri bambini” qualcosa di simile a certi ripugnanti contenuti web che la cronaca ci ha mostrato in questi giorni. Si sta diffondendo una fiducia selettiva nella scienza: si sentono persone in coda dall’ortopedico dire di non fidarsi dei virologi. E come se chi va dal meccanico non si fidasse del gommista. È il paradosso della società della comunicazione senza cultura; si propaga più rumore che segnale

La tecnologia e la relativa etica non viaggiano di pari passo: sappiamo fare auto a guida autonoma ma non sappiamo a chi dare la colpa se provocano un incidente. Grazie alla tecnologia possiamo produrre un farmaco in un decimo del tempo che servirebbe normalmente o sfruttare allo stremo commessi e fattorini. La tecnologia è uno strumento che può essere infinitamente buono o infinitamente cattivo. Non c’è nulla di nuovo, è un esito possibile della ricerca, si pensi agli impieghi dell’energia nucleare o alle possibilità della medicina o agli effetti del quarto potere (i media): è l’etica che traccia il limite alla tecnologia. L’idea che il robot, l’algoritmo, la piattaforma, i social o l’intelligenza artificiale siano “come un fucile” creato unicamente per far male è una narrazione di comodo, una quinta che cela i veri burattinai, quelli che danno le istruzioni alle macchine, i proprietari delle app, dell’algoritmo, dei media. La tecnologia non gode di libero arbitrio, anche se a qualcuno piace farlo credere per darle responsabilità non sue.

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Disastri naturali e terremoti elettorali*

  1. Savino

    Con questa situazione, occorre ritornare a metodi classici di selezione delle classi dirigenti e delle elites e occorre dare l’ importanza che meritano alle fonti ufficiali. Il dibattito pubblico deve assumere forma più aulica, scientifica, autorevole. La comunicazione politica e istituzionale deve corrispondere ad un messaggio oggettivo ed utile al cittadino e non essere mero presenzialismo di apparenza. La politica deve tornare al suo nobile fine con meno mondanita’ e piu’ applicazione.

  2. Marco

    Penso sia ormai una tendenza inreversibile. Abbiamo perso il controllo…noi poveri mortali.
    I veri burattinai di tutto questo no…..anzi lo hanno rafforzato per indirizzarci ,la maggior parte, verso quello che loro hanno deciso. Un’etica sulla tecnologia che avanza doveva essere imposta prima che questa decollasse. Credo che sarà molto dura risolvere questo problema di “finta democrazia”. Specialnente tra le nuove generazioni.Qualcuno si potrà salvare parlandone in casa, in famiglia (in qualunque forma di famiglia si intenda)…come usava una volta. Sperando che possa servire a non creare nuovi alienati.

  3. Edoardo Rinaldi

    grazie per la lettura molto interessante

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