L’Italia è uno dei paesi Ocse che investe meno in istruzione terziaria. Nel 2010 il sistema di finanziamento è stato riformato, introducendo criteri oggettivi nell’assegnazione dei fondi alle università. Da allora i divari regionali si sono acuiti.
L’istruzione terziaria nel confronto internazionale
L’Italia è il paese in cui, nell’ultimo ventennio, il livello di istruzione terziaria è aumentato a un ritmo più lento rispetto agli altri paesi dell’Ocse e la laurea non rappresenta ancora il titolo di studio più diffuso. Lo si legge nel rapporto Education at a Glance 2022, che si focalizza appunto su questo tema e, nell’ultimo aggiornamento, anche sugli effetti della pandemia da Covid-19 e sul passaggio dalla gestione della crisi alla ripresa.
Il livello della spesa nella formazione terziaria continua a essere, in Italia, ancora insufficiente, soprattutto se lo si confronta con quello di alcuni paesi europei e con la media Ocse, sia in termini pro-capite per studente, sia rispetto al prodotto interno lordo (Pil). Con un dato dello 0,90 per cento nel 2019, la spesa rispetto al Pil risulta sì sostanzialmente stabile negli ultimi anni, ma è in riduzione rispetto al periodo 2012-2015. La stabilità del dato non si è accompagnata a un aumento nel numero degli iscritti, come ci si sarebbe potuto attendere. La causa? Le evidenti lacune nel sistema di istruzione e di formazione, soprattutto terziaria, del nostro paese.
Se si prende in considerazione, invece, il personale docente, che include professori ordinari, associati e ricercatori di ruolo, sono interessanti alcuni dati relativi all’età e alla composizione di genere. Nel confronto internazionale, l’Italia risulta l’unico paese in cui la maggioranza (56,2 per cento) dei docenti universitari ha almeno 50 anni, contro una media europea e Ocse pari a circa il 40 per cento. E poiché la percentuale di docenti con meno di 30 anni è molto bassa (0,8 per cento), ne consegue che l’età media è elevata.
Quanto alla presenza femminile, è cresciuta tra il 2015 e il 2020 in tutti i principali paesi europei. Il nostro, tuttavia, registra ancora un livello molto basso di donne nel corpo docente (37,9 per cento), mentre in Germania è al 40 per cento, in Spagna al 44,9 per cento, in Francia al 45,3 per cento e nel Regno Unito al 46 per cento.
Occorre poi considerare la partecipazione alla formazione terziaria e il tasso di completamento degli studi: indicatori fondamentali che, proiettati nel medio e lungo periodo, costituiscono la base per lo sviluppo economico, sociale e culturale di un paese. L’andamento delle iscrizioni ai percorsi di formazione terziaria in Italia è più basso rispetto ai principali paesi europei, sia in rapporto alla popolazione sia in rapporto al numero di diplomati, e risulta ancora molto limitato il numero di dottorandi di ricerca. In tutti i livelli di formazione terziaria, inoltre, è molto bassa la presenza di studenti stranieri: se a ciò aggiungiamo la portata del fenomeno della fuga di cervelli italiani all’estero, è possibile concludere che il bilancio è decisamente negativo.
Questa panoramica di dati, che mostra l’Italia agli ultimi posti in tutto ciò che concerne l’istruzione terziaria, risulta piuttosto allarmante. Il nostro è il paese che investe meno nell’educazione, soprattutto terziaria, dei suoi cittadini. Non basta, tuttavia, lavorare solo sui fondi; è necessario cambiare anche i meccanismi di funzionamento interni per migliorare le cose.
Il finanziamento delle università in Italia
Negli ultimi dieci anni, il sistema universitario ha subìto importanti cambiamenti nel finanziamento, nella struttura e nelle risorse. Ffo è l’acronimo di “Fondo di finanziamento ordinario”; si tratta di un fondo di finanziamento destinato alle università statali, finalizzato a coprire i costi operativi generali e a sostenere le attività accademiche di queste istituzioni. È una delle principali fonti di finanziamento per le università e viene assegnato dal ministero dell’Università e ricerca con lo scopo di fornire una base di finanziamento stabile agli atenei per consentire loro di coprire le spese di personale, strutture, ricerca, didattica e altre attività correlate.
Attualmente il Fondo di finanziamento ordinario è composto da quattro variabili, di cui una divisa in due sottocategorie. La prima è la quota base, una delle componenti principali del finanziamento complessivo, che è calcolata sulla base di diversi fattori, tra cui il numero di studenti iscritti, la tipologia di corsi di studio offerti e altre variabili specifiche. È divisa in quota storica – che si basa sulle risorse finanziarie storicamente assegnate a ciascuna università e quindi tiene conto dei finanziamenti ricevuti in passato e della loro continuità nel tempo – e costo standard per studente – un criterio di assegnazione delle risorse che si basa sul numero di studenti iscritti e sul costo medio stimato per fornire loro un’istruzione di qualità (comprende costi docenti, costi servizi didattici e costi infrastrutturali). Alla quota base, se ne affianca una premiale che viene assegnata in relazione alla qualità dell’offerta formativa e dei risultati dei processi formativi, alla qualità della ricerca scientifica, alla qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche. La terza variabile è la quota perequativa – che vuole tener conto delle specificità e delle necessità delle diverse università, a vantaggio di quelle che operano in zone svantaggiate – mentre l’ultima è composta dagli interventi finalizzati a sostenere o promuovere determinati obiettivi o settori (come no tax area, fondo giovani, dottorato) all’interno delle università, selezionati dalle università stesse.
Dopo l’approvazione della legge 240/2010 e fino al 2016, il finanziamento ordinario alle università statali è diminuito a causa di nuovi criteri di distribuzione delle risorse. A partire dal 2017, il finanziamento è tornato ad aumentare grazie a nuove risorse statali. Con la pandemia e i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza si sono aggiunte altre risorse, destinate però a scopi specifici.
Nel complesso, il finanziamento al sistema universitario statale ha registrato negli anni una crescita nominale, raggiungendo, nel 2022, 8,656 miliardi di euro, rispetto ai 7,325 miliardi nel 2012. Il rapporto Anvur rivela che la struttura del finanziamento è cambiata nel corso degli anni, con la quota storica che attualmente rappresenta il 25,5 per cento del finanziamento totale (2,210 miliardi), la quota basata sul costo standard per studente che incide per il 23,1 per cento (2 miliardi), la quota premiale per il 27 per cento (2,336 miliardi) e le risorse destinate a scopi perequativi che rappresentano l’1,7 per cento (0,150 miliardi). Gli interventi finalizzati coprono la restante parte, per un ammontare di 1,959 miliardi.
I cambiamenti nei criteri di distribuzione dei fondi hanno portato a una nuova mappa dei finanziamenti, evidenziando differenze tra le diverse regioni. Mentre al Nord l’ammontare delle risorse è aumentato a seguito della crescita degli studenti, al Sud le risorse non sono calate in modo proporzionale alla perdita di iscritti. Se ci fosse solo il costo standard, la variazione delle risorse sarebbe uguale a quella degli studenti, salvo effetti compositivi legati alle materie e al reddito; ma contando solo per il 23 per cento, la correlazione non è così perfetta.
Tuttavia, l’Ffo non è l’unica fonte statale di finanziamento. Al suo fianco coesistono il Fondo per l’edilizia universitaria e le grandi attrezzature scientifiche (Feu) e il Fondo per la programmazione dello sviluppo del sistema universitario (Fps), che però non riguardano il funzionamento ordinario, ma le spese in conto capitale.
Oltre alle fonti pubbliche, altre voci private contribuiscono a finanziare le università, tra cui le tasse universitarie degli studenti, contributi privati e donazioni (fondazioni, ex studenti, imprese), contratti di ricerca e consulenza (con aziende, organizzazioni governative o altre istituzioni) o finanziamenti internazionali (ad esempio, attraverso programmi di cooperazione e scambio accademico, borse di studio internazionali o progetti finanziati da organizzazioni internazionali o agenzie di sviluppo).
Il confronto internazionale tra l’Italia e altri paesi europei mostra che il contributo del settore privato in termini percentuali è più alto nel nostro paese rispetto agli altri, fatta eccezione per il Regno Unito. Più nello specifico, in Italia su 100 euro spesi in formazione terziaria, 61 arrivano da fonte pubblica (dunque, per esempio, dallo stato o dalle regioni), 36,6 da fonte privata (famiglie, imprese, ecc.) e 2,4 da fonti internazionali. Le famiglie per la maggior parte e, in alcuni casi specifici, le imprese si fanno carico direttamente delle spese di iscrizione alla formazione superiore. Tutto ciò non promuove un equo accesso all’istruzione terziaria e non mette nelle stesse condizioni di partenza i cittadini, a prescindere dalle loro condizioni socioeconomiche, soprattutto perché non esiste un sistema di borse di studio diffuso e utile a redistribuire i fondi a vantaggio degli studenti privi di mezzi.
Il divario tra Nord e Sud interessa anche le università
Le scelte politiche degli ultimi anni in tema di università e istruzione terziaria hanno contribuito ad ampliare divari territoriali già noti e consolidati. Come sottolineato da uno studio di Banca d’Italia, la colpa non è da attribuirsi unicamente al cambiamento dei criteri di ripartizione della spesa pubblica, che ha avuto il merito di introdurre criteri oggettivi nell’allocazione dei fondi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le università che riescono ad attrarre maggiori risorse si trovano nelle regioni settentrionali. Nell’ultimo decennio, infatti, anche a causa del peggioramento dell’andamento demografico, gli atenei del Sud e delle Isole hanno visto una diminuzione considerevole del numero di iscritti (ne avevamo già discusso anni fa in questo articolo). È un’arma a doppio taglio: da un lato, a questi atenei arrivano meno fondi perché parte dei finanziamenti pubblici è proporzionale al numero di iscritti; dall’altro, diminuiscono anche i ricavi netti da tasse e contributi, che già risentono delle peggiori condizioni socio-economiche del territorio in cui l’università ha sede. Dal 2012, tali risorse sono diminuite di quasi il 7 per cento al Sud e di quasi il 30 per cento nelle Isole, mentre al Nord le variazioni sono state di segno opposto.
Oltre al Ffo, ci sono anche altri finanziamenti che vanno a incrementare le risorse complessivamente disponibili per i singoli atenei. A partire dal 2017, il ministero dell’Università e della ricerca, in collaborazione con l’Anvur e il Comitato nazionale dei garanti per la ricerca (Cngr), finanzia, con cadenza quinquennale, i migliori 180 dipartimenti delle università statali, selezionati sulla base degli stessi criteri utilizzati per il calcolo della quota premiale. I cosiddetti Dipartimenti di eccellenza “spiccano per la qualità della ricerca prodotta e per la qualità del progetto di sviluppo”, come riportato nel sito del ministero. I singoli dipartimenti selezionati hanno a disposizione risorse comprese tra 1,080 e 1,620 milioni di euro all’anno per cinque anni. Ai dipartimenti di specifiche aree scientifico-disciplinari (aree Cun), tra cui scienze matematiche e fisiche, medicina e ingegneria, vengono assegnati ulteriori 250 mila euro all’anno, vincolati a investimenti in infrastrutture di ricerca.
Dei 180 dipartimenti selezionati per il quinquennio 2023-2027, 98 hanno sede in una regione del Nord Italia e possono fare affidamento su un finanziamento complessivo di 738 milioni di euro. Il numero di Dipartimenti di eccellenza con sede al Sud o in Sicilia e Sardegna è nettamente inferiore (rispettivamente 28 e 6), anche se in aumento rispetto al quinquennio precedente. Tra le prime dieci università per quota di fondi assegnati rispetto al totale, l’Università degli studi di Napoli “Federico II” si posiziona al primo posto (7,4 per cento dei 1.355 miliardi di euro stanziati), l’unica con sede al Sud e che da sola ospita quasi la metà dei Dipartimenti di Eccellenza meridionali. Ad eccezione di tre atenei con sede nel Centro Italia, tra cui La Sapienza di Roma, i restanti posti in classifica sono occupati da università del Nord.
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