Lo sgravio contributivo è accettabile solo se è uno strumento temporaneo a sostegno dei bassi redditi da lavoro. Altrimenti crea trappole fiscali e recide il legame tra contributi e prestazioni. Non c’è alternativa a una seria riforma dell’Irpef.
Sgravio, Irpef e fiscal drag
Il 1° maggio 2023, con il decreto Lavoro, il governo ha introdotto una riduzione degli oneri contributivi sui redditi da lavoro dipendente fino ai 35 mila euro (lo stipendio al lordo dei contributi dovuti dal lavoratore, la cosiddetta Ral) valida da luglio a dicembre. Il taglio è del 4 per cento sugli oneri contributivi a carico del lavoratore e si cumula con le riduzioni temporanee già decise dal governo Draghi e confermati da quello attuale con la legge di bilancio per il 2023, pari al 3 per cento per i redditi fino a 25 mila euro e al 2 per cento fino a redditi di 35 mila. Lo scopo è sostenere i redditi bassi e medi dei lavoratori dipendenti e di compensarli, in parte, per la perdita di potere d’acquisto indotta dall’impennata dell’inflazione degli ultimi due anni.
L’intento è lodevole e in qualche modo compensa gli interventi della legge di bilancio, tutti fortemente orientati a favore dei redditi da lavoro autonomo e impresa (flat tax, flat tax incrementale, “pace fiscale” e altro). Ma lo strumento solleva perplessità e ha controindicazioni, soprattutto se (come sembra) il governo fosse intenzionato a trasformarlo da temporaneo a permanente.
Intanto, è bene ricordare che il beneficio netto per il lavoratore è molto inferiore al 7 per cento o al 6 per cento di contributi in meno da pagare sul reddito lordo. Questo perché la riduzione dei contributi comporta un aumento del reddito imponibile a fini Irpef e dunque delle imposte dovute. Per esempio, le nostre stime indicano che per un lavoratore con un reddito lordo di 25 mila euro il beneficio netto, cioè il denaro in più effettivamente incassato in busta paga, è il 65 per cento del beneficio lordo da decontribuzione, quota che scende a circa il 55 per cento per un contribuente con un reddito di 35 mila euro.
Un ulteriore problema è che, con un’inflazione elevata, all’incremento dei redditi nominali (dovuto allo sgravio contributivo) non corrisponde un incremento del potere d’acquisto. Poiché l’Irpef è un’imposta progressiva, l’aumento dei redditi nominali conduce infatti a un’aliquota media di tassazione più elevata, anche se il reddito reale rimane invariato. È il fenomeno del fiscal drag, di cui si erano perse le tracce nei lunghi anni di bassa inflazione, ma che è riesploso con forza con la crescita dei prezzi. Logicamente, se l’obiettivo dello sgravio contributivo è il recupero della perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione, il provvedimento avrebbe dovuto anche prevedere una sterilizzazione del fiscal drag.
Trappole fiscali
Il secondo problema sta nella modalità scelta per l’intervento che finisce con il produrre delle vere e proprie “trappole fiscali”: un effetto trascurabile finché la misura è temporanea e limitata (come era quella originariamente prevista dal governo Draghi), ma che altrimenti diventa serio. La ragione è che queste agevolazioni sono state introdotte a “soglia”, non a scaglioni; la riduzione di 7 punti di aliquota contributiva si applica ai contribuenti con redditi fino 25 mila e quella di 6 punti ai contribuenti con redditi dai 25 mila ai 35 mila; si annulla del tutto per i contribuenti con redditi superiori alla soglia. Di conseguenza, un incremento del reddito lordo che lo porti sopra le soglie (dovuto per esempio a un rinnovo contrattuale o a qualche ora di straordinario in più) può comportare un aumento del carico fiscale (tasse + contributi) tale da rendere il contribuente più povero di prima. Per esempio, se il reddito lordo passa da 35 mila a 35.100 euro, i contributi da pagare più l’Irpef dovuta aumentano di 807 euro: l’aliquota marginale (ovvero la variazione del carico fiscale per una piccola variazione del reddito, in questo caso 100 euro) è dunque superiore all’800 per cento, mentre se il reddito passa da 25 mila a 25.100, contributi più Irpef aumentano di 202 euro e l’aliquota marginale è del 202 per cento. In generale, si può mostrare che, per l’effetto della decontribuzione a soglia, a un lavoratore con reddito pari a 35 mila conviene rifiutare qualunque incremento di reddito finché questo non raggiunga almeno i 36.485 euro (reddito per il quale l’aliquota marginale è pari al 100 per cento); per un contribuente con un reddito pari a 25 mila conviene rifiutare qualunque incremento fino ad almeno i 25.265 euro.
Aliquote marginali così alte intorno a particolari soglie disincentivano l’offerta di lavoro o spingono a comportamenti devianti per evitare l’incremento dell’onere fiscale (i “fuori busta”). Il problema si sarebbe potuto evitare introducendo l’agevolazione a “scaglioni”, cioè, estendendo il beneficio a tutti i redditi fino a 35 mila euro. In questo caso, per esempio, chi dichiara 50 mila euro avrebbe avuto uno sgravio del 7 per cento sui suoi redditi fino ai 25 mila euro, del 6 per cento per i redditi da 25 mila a 35 mila e nessuno sgravio sulla parte di reddito che supera i 35 mila. In tal modo, non ci sarebbero stati più salti nelle aliquote marginali, ma semplicemente un’evoluzione diversa del carico fiscale complessivo. Naturalmente, questa scelta sarebbe stata molto più costosa per l’erario, oppure a risorse date, avrebbe comportato la possibilità di offrire un’agevolazione minore ai redditi più bassi.
Il sistema pensionistico
C’è infine un terzo elemento da considerare. La misura interferisce pesantemente sullo schema di finanziamento del sistema previdenziale, che a partire dalla riforma del 1995 è basato su un sistema chiuso, in cui i contributi versati, capitalizzati alla crescita del Pil, finanziano le pensioni del futuro. Il legame tra contributi versati e benefici futuri è anche quello che dovrebbe rendere meno distorsivi i contributi (una forma di risparmio forzoso) per il lavoratore, nel senso di offrire meno disincentivi all’offerta di lavoro, rispetto all’imposta (che invece finanzia i servizi generali offerti dal settore pubblico). Il pagamento di un contributo oggi, infatti, comporta maggiori benefici domani, mentre l’imposta non offre benefici individuali percettibili. Dunque, benché contributi e imposte siano convenzionalmente considerati entrambi parte del cuneo fiscale sui redditi da lavoro, i loro effetti sull’offerta del lavoro dovrebbero essere diversi, almeno finché è chiaramente percepito il legame tra i contributi versati e la prestazione ricevuta. Con la decisione del governo di intervenire sui contributi per ridurre il carico fiscale invece che sulle imposte, il legame inevitabilmente si spezza, in particolare se l’obiettivo è quello di rendere lo sgravio contributivo permanente.
In più, l’intervento è molto costoso, anche tenendo conto del recupero dell’Irpef e senza considerare un’eventuale sterilizzazione del fiscal drag. Infatti, solo per prorogare a tutto quest’anno l’intervento deciso dal governo Draghi nel 2022, il governo Meloni ha stanziato 5,6 miliardi nella legge di bilancio, a cui si sono aggiunti altri 3,5 miliardi con il decreto del 1° maggio per finanziare l’ulteriore sgravio per sei mesi, da luglio a dicembre. Per mantenere l’intero beneficio nel 2024 sono dunque necessari 12,6 miliardi. Per il momento, alla luce degli impegni presi dal governo sui conti pubblici e delle stime del Def 2023, questi soldi non ci sono. Se il governo intende davvero rendere strutturale l’intervento dovrà trovare le risorse da qualche parte, o tagliando altre spese o aumentando le imposte.
Le alternative
C’erano alternative? Una misura di fiscalizzazione degli oneri, come quella prospettata sia dal governo Draghi che dal governo Meloni, è probabilmente accettabile se temporanea, allo scopo di offrire un sostegno immediato ai lavoratori a basso reddito. Ma in prospettiva, visti i problemi che genera, è bene che sia sostituita da altri interventi strutturali. Il principale naturalmente è la revisione complessiva dell’Irpef, riducendo le aliquote di imposte sui redditi da lavoro e spostando il carico fiscale su altri cespiti. Il progetto di riforma fiscale presentato dal governo contempla il primo obiettivo, ma si illude – e illude i cittadini – se crede davvero che possa avvenire garantendo tutti gli attuali privilegi dei redditi diversi da quelli da lavoro dipendente. Insomma, la strada non è la flat tax al 15 per cento per tutti i redditi (ora riservata ai soli lavoratori autonomi), perché renderebbe insostenibile finanziariamente il nostro welfare. Infine, per i lavoratori con i redditi più bassi, che già adesso non pagano l’Irpef, gli interventi devono necessariamente assumere forme diverse. O cercando di sostenerne il reddito ex ante (con interventi come, per esempio, il salario minimo) oppure ex post, con trasferimenti, magari cercando di congegnarli in modo da evitare interferenze con il sistema impositivo e previdenziale. Qui, per fortuna, c’è molto da imparare dalle esperienze estere.
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Leo
Trappole fiscali
Finalmente un articolo che affronta il problema con cui sto convivendo da diversi mesi!
A me converrebbe partecipare ad uno sciopero al mese per portare il mio loro mensile sotto il fatidici 2692 euro mensili e usufruire del bonus contributivo del 6%.
Lavorerei un giorno in meno e avrei uno stipendio netto mensile superiore.
Non faccio nulla di tutto ciò perché altrimenti il datore di lavoro mi scambia per uno studentello che sfrutta ogni occasione per non andare a scuola!
Ma vi sembra una cosa degna di un paese normale?
B&B
Come libero professionista ordinistico, oltre a dover finanziare la propria struttura lavorativa, ho dovuto, obbligato, pagare i contributi irpef come tutti i dipendenti. In aggiunta, rispetto a loro, ho dovuto pagare la tasssa IRAP 7% + 10% xRL previdenza privata obbligatoria fino a 130K, il 3% oltre tale soglia, CNPAIALP.
Infatti lo stato, nonostante la disinformazione statalista comunista, non paga la mia pensione pur essendo stato obbligato a pagarla, con le mie tasse estorte, a chi i contributi pensione, nello stato italiano, non li ha pagati e non li pagherà mai.
Allora i conti non torneranno mai, fino a quando politici, sindacati e la parte cospicua degli inutili impiegati pubblici, (non tutti ovvio) non smetteranno di rubare privilegi.
Pertanto non è inopportuno chiedersi se è moralmente piu’ censurabile, chi risce, se riesce, a non pagare le tasse o chi le tasse le impone?
Firmin
Abbiamo il nome dei geniali funzionari che hanno elaborato e avallato un sistema a soglia invece che a scaglioni (con aliquota marginale anziché media)? E, se possibile, si può sapere chi ha regalato loro la licenza elementare?
Roberto Rozza
Ci sono poi i seguenti problemi:
a) anche se la Legge stabilisce un limite annuo di 25.000 / 35.000, l’INPS applica invece la norma su base mensile senza alcun tipo di conguaglio a fine anno.
Esempi:
– Dipendente con retribuzione mensile di 60.000 che viene assunto il 31 Luglio 2023.
Cedolino di Luglio sarà di 60.000 / 26 gg * 1 gg = 2.308
Bene sui 2.308 si applicherà l’esonero del 6% in quanto inferiore al limite mensile previsto dall’INPS (a fine anno non ci sarà alcun conguaglio!)
– Dipendente con CCNL Terziario Confcommercio con retribuzione di 1.500
Nel mese di Giugno l’imponibile previdenziale sarà di 3.000 con la 14ma.
Visto che 3.000 è superiore al limite non si applica l’esonero.
b) calcolando l’esonero sull’imponibile previdenziale di fatto non si applica per chi è pagato dall’INPS.
Esempi:
– Dipendente in maternità obbligatoria/congedo parentale viene di solito pagato esclusivamente dall’INPS.
L’imponibile previdenziale in questo caso è pari a zero e di conseguenza anche l’esonero (0 * 7% = 0).
– Quadro del Commercio con una retribuzione di 4.000 che è in malattia tutto il mese.
L’integrazione carico ditta, quasi sicuramente inferiore ai limiti mensili, potrà godere dell’esonero.