Torna alla ribalta la questione dell’autonomia della Catalogna. Il partito indipendentista della regione, con il suo voto, potrebbe permettere a Pedro Sanchez di formare un nuovo governo. Ma troppe concessioni non sarebbero accettate dal resto del paese.
Dal referendum del 2017 al dopo-elezioni
A che punto è l’autonomia catalana? Da simbolo dell’indipendentismo mondiale, almeno sulla carta, a grande dimenticata nella politica spagnola, la Catalogna si trova in questi giorni nuovamente al centro della scena, per due ragioni.
La prima è che, a seguito delle recenti elezioni spagnole, i partiti indipendentisti, tra cui quello catalano, potrebbero risultare decisivi per la formazione del nuovo governo spagnolo. La seconda, presumibilmente intrecciata alla prima, è che proprio in questi giorni i suoi leader storici hanno perso quell’immunità parlamentare che ha reso loro possibile, dal 2017 a ora, di evitare il mandato d’arresto europeo della Corte suprema spagnola. Cosa ci si può aspettare?
La questione dell’autonomia catalana è salita prepotentemente alla ribalta nel 2017, quando la Comunità stessa, in contrasto con la volontà del governo centrale e con la Costituzione spagnola, ha indetto un referendum sulla propria indipendenza.
L’organizzazione del referendum, nonché il suo esito (90 per cento di voti favorevoli), sono stati ovviamente considerati nulli tanto dal governo in carica, guidato ai tempi da Mariano Rajoy (Partito popolare) quanto dal Tribunale costituzionale spagnolo. La giornata elettorale del 1° ottobre 2017 ha visto il susseguirsi di forti tensioni, non solo politiche, ma anche di ordine pubblico, con un braccio di ferro continuo tra il governo centrale e quello locale che ha chiamato in causa anche le forze dell’ordine. Dopo ulteriori passi in avanti compiuti dal Parlamento catalano, specialmente con la simbolica dichiarazione d’indipendenza, il governo centrale ha fatto ricorso all’articolo 155 della Costituzione, una specie di “clausola di salvaguardia” per cui Madrid può imporre alle Comunità autonome di adempiere forzatamente a determinate disposizioni costituzionali o legislative, qualora la regione le abbia violate o abbia attentato gravemente all’interesse superiore del paese. Madrid ha così destituito il governo locale e imposto nuove elezioni. I leader catalani, tra cui l’allora capo Carles Puigdemont, sono prima fuggiti in Belgio e poi si sono candidati alle elezioni europee del 2019, ottenendo un seggio e quindi potendo contare, almeno fino a poco tempo fa, sull’immunità parlamentare. In questa storia, vale la pena di ricordare un arresto di Puigdemont, durato poco più di 24 ore, avvenuto nel 2021 in territorio italiano (Sardegna).
I numeri dell’autonomia catalana
Ma quanto vale l’autonomia catalana? Mentre in Italia il cosiddetto “federalismo differenziato” avanza col contagocce, con pochissima convinzione e senza ancora alcun risultato concreto, ben diverso è il caso della Spagna. Qui, ciascuna Comunità autonoma (le regioni spagnole) ha potuto negoziare in autonomia il proprio statuto con il governo centrale, al momento dell’entrata in vigore della nuova Costituzione post-franchista nel 1978. Il percorso del federalismo asimmetrico spagnolo è stato guidato dal cosiddetto “principio dispositivo”, secondo cui ciascuna regione ha potuto decidere quali funzioni legislative assumere, all’interno dell’arco costituzionale. Sebbene le discrepanze territoriali si siano attenuate nel corso del tempo, ciascuna Comunità autonoma resta ancora di fatto differenziata dalle altre e questo rappresenta uno dei tratti peculiari del sistema di governance spagnolo. Tra le 17 Comunità (più due città) autonome, forse i casi più noti sono quelli dei Paesi Baschi e della Catalogna. Tuttavia, numeri alla mano, molte delle istanze avanzate sono rimaste sulla carta.
Utile, in tal senso, è il Regional Authority Index (Rai), un indicatore riconosciuto anche dall’Ocse, che consente di misurare – lungo una scala da 0 a 30 – l’effettivo potere di cui godono le regioni e gli altri enti locali nei principali paesi del mondo. L’indice va oltre i meri indicatori fiscali, prendendo in considerazione dieci dimensioni, e analizza sia l’autorità esercitata da un governo regionale su coloro che vivono nella regione (cosiddetta “self-rule”), da 0 a 18 punti, sia l’autorità esercitata da un governo regionale o dai suoi rappresentanti sul paese nel complesso (cosiddetta “shared rule”), da 0 a 12.
Dai numeri del Rai, si nota che la Catalogna, pur godendo di non poca autonomia, con un punteggio di 23,5/30, si piazza a un livello medio se confrontata con le altre Comunità (figura 1). Anche allargando lo sguardo al livello europeo (figura 2), l’autonomia catalana rimane nella media. Basti pensare, che le regioni a statuto speciale italiane ottengono un punteggio pari a 19/30, laddove quelle a statuto ordinario si fermano a 18, prova di un basso grado di differenziazione interna al nostro paese. I Cantoni svizzeri ottengono invece un punteggio di 26,5/30 e i Länder tedeschi addirittura uno pari a 27/30. Le rivendicazioni catalane di maggiore autonomia non sembrano quindi essere così campate per aria.
Una svolta per formare il nuovo governo?
Dopo le elezioni spagnole di luglio, nelle quali il Partito popolare ha ottenuto più voti (e seggi) ma regna grande incertezza su chi potrà formare il nuovo governo, la questione catalana potrebbe riacquistare nuovo interesse.
Da un lato, infatti, il seppur ottimo risultato del Partito popolare non sembrerebbe sufficiente a formare una maggioranza parlamentare con Vox, il partito di estrema destra spagnolo, che invece è uscito ridimensionato dalle urne. Dall’altro lato, una coalizione appare possibile a sinistra, intorno al presidente uscente Pedro Sanchez, leader del Partito socialista, grazie sia al risultato della coalizione di sinistra Sumar sia ai migliori rapporti di Sanchez con i partiti regionali catalani, baschi e galiziani. Tuttavia, l’ultimo riconteggio dei voti (il conteggio del voto degli spagnoli residenti all’estero è iniziato dopo) ha tolto un seggio al Psoe e questo, numeri alla mano, potrebbe significare che l’eventuale coalizione dovrà ottenere il voto favorevole, e non più l’astensione, del partito indipendentista catalano Junts. Più precisamente, in questo momento la coalizione di centrosinistra non avrebbe nemmeno la maggioranza relativa dei seggi (nel qual caso sarebbe bastata un’astensione di Junts per ottenere il via libera a un governo di minoranza). L’unica possibilità sarebbe il raggiungimento della maggioranza assoluta, fissata a quota 176 seggi, per il quale è necessario un esplicito voto a favore anche degli indipendentisti catalani.
Sarà l’occasione per risollevare le sorti dell’indipendenza della Catalogna? Difficile dirlo. Ma anche difficile che accada. La previsione più probabile è anzi che, ancora una volta, non succederà nulla e che gli spagnoli saranno nuovamente costretti a tornare alle urne entro l’anno.
Nella confusa situazione post-elezioni, però, sarà comunque difficile vedere enormi aperture sull’autonomia. Uno dei motti più utilizzati dalla sinistra spagnola di Sumar nell’ultima campagna elettorale, è stato “La unión hizo la fuerza”, vale a dire l’unione fa la forza. Paradossalmente, la nascita del nuovo governo dovrebbe passare attraverso l’accoglimento di rivendicazioni che un’unione, in questo caso non della sinistra ma del paese intero, potrebbero minare. Per non parlare della necessità di gestire politicamente il pericolo che i leader catalani finiscano effettivamente in carcere per gli eventi del 2017, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe avere persino sull’ordine pubblico. L’elettorato spagnolo non sembra ancora pronto ad accettarlo e forse preferirebbe tornare al voto quanto prima.
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bob
la domanda da porsi è una : quanto ha perso e quanto ha guadagnato Barcellona con questa pagliacciata?
A parte la divisione sociale che ha creato ma il tessuto economico del territorio è uscito fortemente indebolito
Marco Ajello
si usa questo indice “RAI” dimenticando però un elemento essenziale, che è quello della lingua e sul su valore legale, che ha un vaore politico enorme.