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Se l’Ue impone la trasparenza delle retribuzioni

È entrata in vigore da poche settimane e dovrà essere recepita entro il giugno 2026 la nuova direttiva europea che impone alle imprese di informare ogni dipendente sulla paga media di coloro che svolgono un lavoro dello stesso livello.

Il clamore infondato circa la confrontabilità delle retribuzioni individuali  

Ha suscitato qualche scalpore la notizia dell’emanazione della nuova direttiva Ue n. 2023/970, che prevede l’attribuzione a tutte le persone dipendenti da un’impresa il diritto di confrontare la propria retribuzione con quella degli altri dipendenti che svolgono un lavoro di pari livello. Lo scalpore è dovuto al fatto che in Italia si è radicata nell’opinione pubblica una concezione della privacy – ovvero del diritto al riserbo sulle notizie personali – largamente esagerata, tale da ostacolare anche la circolazione di notizie che non meriterebbero affatto di essere protette da quel diritto: tra queste, in particolare, il dato relativo al reddito personale. In realtà, la legge italiana non dice affatto che i redditi delle persone costituiscano notizia riservata. A stabilirlo fu una improvvida e giuridicamente molto discutibile delibera del Garante dei dati personali, che nel 2008 di punto in bianco vietò all’Agenzia delle entrate di rendere accessibili via Internet i dati delle dichiarazioni dei redditi. Accessibilità che invece a me sembra si giustifichi agevolmente, per un verso in considerazione dell’interesse apprezzabile di ciascun cittadino a conoscere il contributo di ogni altro cittadino al bilancio pubblico e a poterne verificare la congruità; per altro verso in considerazione dello scarso o nullo valore sociale dell’interesse della persona all’inconoscibilità del proprio reddito.  

Che cosa prevede la nuova direttiva  

Le vestali della privacy possono comunque stare tranquille: la direttiva Ue n. 2023/970 – il cui termine di recepimento per gli stati membri scade peraltro fra tre anni, nel giugno 2026 – non prevede l’istituzione di un obbligo per la datrice di lavoro di comunicare l’ammontare delle retribuzioni dei singoli dipendenti, bensì soltanto di comunicare l’ammontare medio delle retribuzioni delle persone che svolgono mansioni comparabili, cioè di pari livello, con evidenziazione delle eventuali differenze tra uomini e donne (articoli 7-9). E prevede anche che gli stati membri possano limitare l’accesso a queste informazioni ai soli rappresentanti sindacali, ispettori del lavoro e organismi preposti alla promozione della parità di genere (articolo 12, comma 3). Per altro verso, la stessa direttiva ricorda espressamente (articolo 7, comma 5) che, come ogni altro diritto riconducibile alla nozione di privacy, anche il diritto al riserbo sulla propria retribuzione è pienamente disponibile, cioè suscettibile di rinuncia: a nessuno può essere impedito di fare quello che vuole non soltanto dei diritti alla propria immagine, all’inaccessibilità del proprio domicilio, alla non conoscibilità della propria corrispondenza, ma anche di qualsiasi diritto che concerna le proprie notizie personali, ivi compresa quella relativa ai propri redditi. Nulla vieta, dunque, che le singole persone – eventualmente rispondendo a un appello dei rappresentanti sindacali aziendali o del sindacato – rendano pubbliche le proprie buste-paga.  

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L’utilità della circolazione delle informazioni sui redditi di lavoro

L’intendimento del legislatore europeo sotteso alla regola della conoscibilità delle retribuzioni individuali è quello di consentire alle singole persone e alle organizzazioni sindacali di esigere l’esplicitazione di un motivo congruo per qualsiasi differenza di retribuzione tra persone di genere diverso svolgenti mansioni dello stesso contenuto e livello professionale. È lo stesso principio che in Italia è stato enunciato più di trent’anni fa dalla sentenza n. 103/1989 della Corte costituzionale. Quella sentenza partiva dal riconoscimento della possibilità per l’imprenditore di differenziare i trattamenti al di sopra dello standard minimo secondo criteri non vietati, quali possono essere quelli attinenti ai titoli di studio o di formazione, alla produttività effettiva del lavoro, alla posizione della persona nel mercato, ai carichi di famiglia; ma affermava il dovere dell’imprenditore medesimo, se richiesto, di esplicitare i criteri sui quali la differenziazione si fonda. È questo dovere – ha chiarito la Consulta con quella sentenza – che distingue il corretto esercizio delle prerogative imprenditoriali dall’arbitrio signorile.

Il rischio maggiore di un regime di questo genere – che riconosce la legittimità della differenziazione di trattamento al di sopra dello standard minimo, imponendone però la verbalizzazione del motivo – è quello dell’appiattimento dei trattamenti, là dove a una sana e incisiva gestione del potere organizzativo dell’imprenditore si sostituisca una sostanziale burocratizzazione della vita aziendale, con la conseguente omologazione del lavoro nell’impresa all’impiego pubblico (dove, per quieto vivere, il management solitamente abdica alle proprie prerogative direttive e organizzative). Ma non è stato questo l’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 103/1989: se un dato negativo va registrato, al riguardo, è semmai la scarsa valorizzazione del principio in essa enunciato da parte del movimento sindacale e la sua mancata metabolizzazione da parte del sistema delle relazioni industriali. La speranza, ora, è che la nuova direttiva europea aiuti a superare il ritardo.  

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Il rischio che, ancora una volta, il nuovo strumento venga sottoutilizzato  

Proprio quanto è accaduto nel trentennio successivo a quella sentenza della Consulta induce anche a non sopravvalutare il rischio, che pure è stato paventato da qualcuno, di un aumento sensibile del contenzioso giudiziale come conseguenza dell’attuazione in Italia della direttiva europea n. 2023/970. Questo rischio era già stato sottolineato in riferimento alla legge n. 125/1991, attuativa di un’altra direttiva europea, contenente il divieto generale delle discriminazioni di genere, dirette o indirette (il cui contenuto è in molti punti sovrapponibile al contenuto della nuova direttiva qui in discussione). Ma, anche in riferimento a quella legge, a trent’anni di distanza ciò che si deve lamentare è semmai la scarsità del contenzioso giudiziale da essa suscitato, rispetto al contenzioso su altri temi che forse lo meriterebbero di meno. Sarebbe interessante uno studio sui motivi sistemici che trattengono le donne dal far valere il proprio diritto alla parità di trattamento con gli uomini nei luoghi di lavoro e dall’utilizzare più largamente gli strumenti giudiziali che a questo fine l’ordinamento pone loro a disposizione.    

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Il Punto

  1. Savino

    Finalmente ci sono un minimo di condizioni giuridiche per comprendere, nel mondo del lavoro, chi merita e chi no in proporzione a quanto produce o non produce e a come si comporta nella vita aziendale. Le disparità salariali, nel pubblico e nel privato, sono molteplici, le imprese e gli enti le fanno in modo evidente, non facendo corrispondere le carriere ai profili e alle professionalità. Nel mondo del lavoro oggi o sei professionale e meriti oppure non funziona più il giochino delle solite reti di conoscenze per far carriera, che ha francamente stancato e che non impressiona più nessuno di fronte alla necessità ed urgenza di abilità. Già dai colloqui di lavoro selezionativi a scopi assunzionali occorre maggiore serietà in tal senso. La richiesta UE, quindi, credo sia proprio di una maggiore serietà e professionalità nei rapporti di lavoro.

  2. Firmin

    Un piccolo passo nella giusta direzione. Rimane la difficoltà tecnica di individuare le categorie omogenee di lavoratori (ed i regimi orari) all’interno delle quali calcolre le retribuzioni medie. Tuttavia confido nella proverbiale solerzia del CNEL, già incaricato di una indagine conoscitiva preliminare sul salario minimo orario. Se proprio si volesse esagerare, io renderei pubbliche anche le retribuzioni massime e minime (o, ancora meglio, quelle corrispondenti ai decili estremi della distribuzione dei redditi, per aggirare i problemi di privacy). In questo modo ciascun dipendente potrebbe valutare i margini di trattativa disponibili. Tuttavia, come riconosce l’autore, la data limite per il recepimento della direttiva (2026) è lontana e molti freneranno sull’impiego effettivo di questo strumento di trasparenza, che riduce il vantaggio informativo dei datori di lavoro (e quindi il loro potere di mercato). Quanto al possibile contenzioso, sarebbe sufficiente specificare che le informazioni sulle retribuzioni dei colleghi hanno un puro valore statistico (come i dati dell’Istat) e non legale.

  3. Gasil Cambre

    “Accessibilità che invece a me sembra si giustifichi agevolmente, per un verso in considerazione dell’interesse apprezzabile di ciascun cittadino a conoscere il contributo di ogni altro cittadino al bilancio pubblico e a poterne verificare la congruità”.
    In buona sostanza come nel film “Le vite degli altri”. In questo caso: tutti agenti delle tasse!
    Nel merito delle questioni: a mio modesto avviso devono essere individuati i dati retributivi che possono esser utili al confronto; la media delle retribuzioni e come conseguenza il successivo allineamento, mi paiono elementi fuorvianti e non corretti, soprattutto se non ci si riferisce al solo valore del contratto applicato.
    Domando all’autore – al di la della stucchevole battuta sulle vestali, ma ormai sembra che non si possa far a meno di esser sgarbati – la questione del merito, come intende trattarla? Tra chi lavora meglio e di più e il suo contrario, deve starci differenza?

  4. luca neri

    Ancora una volta l’EU ritiene di poter burocratizzare tutto e che esista il giusto salario. Che sia possibile calcolare l’esatto salario. Ma spesso le differenze salariali, in particolare per quanto riguarda professioni intellettuali, sono motivate da parametri intangibili che non possono essere ridotti a metriche oggettivamente misurabili. La creatività, la disponibilità, la capacità di fare gruppo, la generosità, la flessibilità, l’ingegno, la capacità di lavorare sotto pressione, di gestire imprevisti, ecc. Tutte queste competenze, capacità, abilità e predisposizioni, concorrono a determinare il valore per l’azienda del lavoratore. Non possiamo ridurre il lavoro alla mansione. E’ una idea che si rifà a modelli di lavoro ormai superati, che vanno bene per la catena di montaggio. Non per le organizzazioni del lavoro moderne. Persino in mestieri apparentemente semplici, le differenze salariali dipendono da fattori difficili da ricostruire a livello aggregato. Uno studio del dpt di economia di Harvard ha dimostrato che il divario salariale tra maschi e femmine negli autotrasportatori americani era interamente spiegato dal tipo di turni scelti dagli uomini. Questa analisi ha richiesto l’uso di un modello econometrico: fino a quel momento la spiegazione più accreditata era la discriminazione contro le donne in un settore dominato dagli uomini. Come pensa il regolatore di decidere che la differenza salariale è ingiustificata? Come pensa il regolatore che le aziende abbiano internamente le competenze per produrre giustificazioni di tale livello di complessità? Poichè l’onere della prova ricadrà sul datore di lavoro, possiamo ritenere che il datore avrà l’incentivo ad allineare gli stipendi di maschi e femmine al di là di qualsiasi valutazione in merito alla produttività, per evitare di dover fornire complesse giustificazioni. E’ evidente che questo esito è efficiente solo sotto l’assunto di base è che l’intero divario salariale sia dovuto a discriminazione. Sappiamo benissimo che non è così. Quindi o la produttività dell’azienda calerà o i datori selezioneranno solo donne con elevata produttività, alla faccia della flessibilità e della conciliazione famiglia-lavoro, perchè non saranno in grado di aggiustare il salario sulla base della reale (non presunta) produttività.

  5. Max

    Interessante. Fatte salve le differenze di genere, per cui mi aspetto effettivamente un certo livello di discriminazione, e la necessità di trasparenza (ad esempio includere il salario nelle offerte di lavoro), conoscendo il mercato del lavoro “italico” mi chiedo come questo “sistema” si concili con un mondo, d’altronde molto simile a quello di molti modelli ipotizzati dagli economisti, dove a parità di caratteristiche osservabili (livello di istruzione, genere, ecc.) gli individui possono avere diversi livelli di produttività – osservabile con maggiore precisione dal lavoratore e dal datore di lavoro ma non dai colleghi/e – e pertanto contrattare col datore di lavoro diversi livelli di salario. Dovremo aspettarci un peggioramento dell’ambiente lavorativo, dove ognuno pretenderà di essere tanto produttivo quanto il/la collega che percepisce salari più elevati? Staremo a vedere, forse ci sarà da ridere (o piangere)…

  6. Chiara

    Buongiorno, dal momento che ci sono a disposizione due anni perchè le aziende recepiscano la direttiva, se chiedessi oggi al datore di lavoro le medie salariali per genere e ruolo, potrebbe rifiutare di rispondere?
    Grazie

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