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Con Milei “good-bye vecchia politica, hello ennesima crisi finanziaria”

Il candidato favorito alle presidenziali argentine basa la sua ricetta economica sulla forte riduzione di imposte e spesa pubblica e su un programma di dollarizzazione. Ma è proprio la storia dell’Argentina a mostrare tutti i limiti di una simile scelta.

L’irresistibile ascesa di Milei

Domenica 22 ottobre si svolge il primo turno delle elezioni presidenziali argentine. Gli ultimi sondaggi descrivono una situazione incerta. Tre candidati divisi da uno scarto inferiore a 10 punti percentuali. In testa, il sorprendente vincitore delle primarie di agosto: Javier Milei, leader di La Libertad Avanza, che è riuscito a sopravanzare Sergio Massa, peronista e attuale ministro dell’Economia, e Patricia Bullrich, rappresentante di Juntos por el cambio, lista di centro-destra.

Milei è un neofita della politica. Viene eletto al Congresso nazionale nel 2021. Nonostante la breve carriera, il suo consenso elettorale cresce rapidamente. Che sia merito di un programma di governo convincente e innovativo? Una rapida lettura al suo manifesto anarco-capitalista (o da liberale libertario, come Milei ama definirsi) non conforta questa interpretazione. L’obiettivo ultimo che intende conseguire è chiaro: creare le condizioni per riportare l’Argentina nel gruppo delle nazioni più ricche in meno di due generazioni. È invece meno chiaro il modo in cui il risultato verrebbe conseguito.

Il programma di Milei è infatti uno strano mix di populismo antisistema – anche se privo dei connotati identitari di stampo nazionalistico dei governi populisti di Jair Bolsonaro o Narendra Modi – e di provvedimenti volti a ridurre drasticamente il peso dello stato – che non esita a definire (in un’intervista resa a The Economist) un’organizzazione criminale.

Milei propone una sostanziale riduzione del carico fiscale, resa possibile da un deciso taglio alla spesa pubblica (del 15 per cento circa) tale da consentire un saldo di bilancio primario in pareggio già alla fine del suo primo anno di presidenza. Il taglio alla spesa sarebbe il risultato dell’abolizione di dieci ministeri, della eliminazione dei sussidi al consumo di gas e elettricità, del taglio dei trasferimenti alle (voraci) province argentine, della privatizzazione delle imprese pubbliche e della riduzione della spesa per sanità e scuola, che verrebbe gestita istituendo un sistema di voucher à la Friedman. Inoltre, auspica un regime di libero scambio con il resto del mondo da realizzare (paradossalmente) dopo aver ritirato l’Argentina dal Mercosur, che sta per raggiungere un accordo di libero scambio con l’Unione europea.

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Ma l’aspetto più controverso è senz’altro costituito dal programma di dollarizzazione senza dollari. Per porre fine alla continua crescita dei prezzi – l’inflazione ha ormai superato il 140 per cento – e alla caduta libera del pesos sui mercati valutari – il tasso di cambio sul mercato nero è passato da 400 a 1.000 pesos per dollaro in poco più di sei mesi – il leader di La libertad avanza propone l’abolizione della banca centrale e la piena dollarizzazione del sistema argentino. Peccato che per avviare la dollarizzazione sarebbe necessario avere la disponibilità di almeno 20-25 miliardi di dollari, che al momento attuale non ci sono nelle casse della banca centrale. Mentre sono sicuramente esistenti i debiti con il Fondo monetario internazionale, pari ad almeno 33 miliardi di dollari. E l’accesso ai mercati internazionali avviene in ragione di uno spread sovrano superiore ai 20 punti percentuali che rende l’operazione di indebitamento in dollari decisamente onerosa. Peraltro, anche dando pieno credito alla congettura di Milei – secondo cui una sua vittoria costituirebbe un cambio di regime tale da convincere la popolazione argentina a rimpatriare buona parte dei 200 miliardi di dollari depositati all’estero, garantendo risorse sufficienti a supportare la dollarizzazione – c’è da chiedersi quali effetti potrebbe generare un regime valutario di questo tipo.

Le conseguenze della dollarizzazione

La risposta appare scontata. La storia recente di paesi come Ecuador e El Salvador, che hanno provveduto a dollarizzare i loro sistemi economici sin dai primi anni Duemila, dimostra come i benefici siano stati limitati. In Ecuador il tenore di vita è fermo da dieci anni, e il paese ha vissuto ben due episodi di default da quando ha dollarizzato nel 2000. Il previsto rilancio dell’economia salvadoregna (atteso in conseguenza della dollarizzazione del 2001) non è mai avvenuto. Al punto che il presidente Nayib Bukele nel settembre del 2021 ha approvato una legge che affianca il Bitcoin come legale circolante al dollaro, nel tentativo (ormai già fallito) di ridare vigore a un’economia in crisi.

Ma le lezioni più istruttive provengono anche e soprattutto dalla storia della stessa Argentina. Dal 1991 al 2001 l’istituzione del currency board aveva effettivamente sradicato l’inflazione, contemporaneamente a un iniziale boom del prodotto. Ma quello era il risultato di un cambiamento di regime che era stato preceduto da alcune riforme che avevano reso (almeno temporaneamente) più robusto il sistema e che si accompagnavano a una fase di debolezza del dollaro sui mercati valutari. Col trascorrere del tempo, senza di ulteriori riforme e con il manifestarsi di importanti shock esterni (come la svalutazione della moneta brasiliana), si sono evidenziati i vincoli e le rigidità posti dal currency board che è letteralmente crollato alla fine del 2001, facendo precipitare il paese in una crisi senza precedenti.

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L’amara conclusione è che dopo 8 anni di governi fallimentari – prima con Mauricio Macri (alla guida di un governo conservatore dal 2015-2019) poi con Alberto Fernandez (leader di un governo di ispirazione peronista-kirchnerista dal 2019 al 2023) – l’Argentina si ritrova di nuovo sull’orlo del baratro. Inflazione alle stelle unita al peso in caduta libera non sono le sole cattive notizie. Il Pil ha iniziato a calare, mentre il tasso di povertà è ormai superiore al 40 per cento. È assai probabile che siano le disastrose condizioni del paese ad aver spinto gli argentini a esprimere il loro consenso a un outsider totalmente estraneo alle formazioni politiche tradizionali. Certamente non il suo programma di governo, che appare del tutto inadeguato per risolvere i problemi di un’economia cronicamente afflitta da una lunga serie di problemi strutturali. Parafrasando il titolo di un importante paper degli anni Ottanta, in caso di una vittoria di Milei verrebbe da dire ”good-bye vecchia politica, hello ennesima crisi finanziaria”.

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Argentina, la crisi continua

  1. Firmin

    Mi sono sempre chiesto perché l’Argentina ripeta gli stessi orrori economici da secoli (non da decenni). E mi chiedo perché le istituzioni internazionali continuino a suggerire all’Argentina esattamente le stesse politiche. Meno incomprensibile è il comportamento dei mercati finanziari che acquistano i bond argentini ad altissimo rendimento, incoraggiando politiche demenziali, per poi rivenderli appena le cose rischiano di mettersi male.

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