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Concordato di croce e delizia

Il concordato preventivo può ridurre gli oneri dell’amministrazione finanziaria e garantire un gettito certo, anche se inferiore a quello teorico. Purché vi sia una ragionevole proporzionalità. E si possa comunque intervenire in caso di grave evasione.

Solo per contribuenti “affidabili”

Il primo provvedimento davvero pesante scaturito dalla riforma tributaria è stato varato. È il concordato preventivo biennale. Si tratta di un intervento che gira intorno a temi sui quali è legittimo avere opinioni diverse purché finalizzate all’obiettivo, che non può non essere condiviso, di: (i) ridurre l’evasione fiscale; (ii) migliorare il rapporto fra contribuente e amministrazione finanziaria; (iii) semplificare gli adempimenti; (iv) mantenere una capacità di intervento per situazioni patologiche.

Il testo approvato dal Consiglio dei ministri del 3 novembre scorso va in questa direzione? Vediamo.

Il concordato preventivo è riservato a titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo di minori dimensioni – cioè a categorie che tutte le ricerche in materia considerano quelle meno fedeli al fisco – che abbiano registrato un buon punteggio nell’ambito di predefiniti indici di affidabilità fiscale. Non è dunque offerto a qualsiasi produttore delle soprarichiamate categorie di reddito, ma solo a quelli che si sono distinti come interlocutori ragionevolmente affidabili. Consegue, innanzitutto, la necessità di monitorare adeguatamente la formazione degli indici perché si trovano, d’ora in avanti, a svolgere una funzione ulteriore: garantire un appetibile passaporto a chi consegue un certo punteggio; negarlo agli altri. La bozza di decreto non interviene sulla formazione degli indici considerando, quindi, sufficienti le guarentigie che li connotano. Una maggiore attenzione al loro affinamento e aggiornamento non guasterebbe.

Il concordato non consente alcuna dialettica. L’amministrazione formula la sua proposta e il contribuente può solo prendere o lasciare. Ne deriva che la proposta non può che esser frutto di un algoritmo basato su quanto avvenuto in passato. Il che, da un lato, garantisce la non discrezionalità della proposta ed evita spiacevoli retropensieri circa non impossibili rapporti incestuosi fra contribuente e singolo funzionario. Dall’altro, cristallizza situazioni pregresse che, se alterate all’origine, restano tali anche nel biennio successivo e magari incidono anche su quelli che ne seguiranno. Insomma, gettito certo ma con tendenza al ribasso (i famosi “pochi, maledetti e subito”).

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La questione dei controlli

Il concordato inibisce – per il biennio cui si applica – i controlli dell’Agenzia delle Entrate finalizzati al reperimento di materia imponibile ai fini delle imposte sul reddito (Irpef e Ires) e dell’Irap. Ma non li inibisce ai fini dell’Iva nella considerazione che, essendo quest’ultima un’imposta di matrice comunitaria, la relativa base imponibile e il contributo alle finanze europee che ne deriva non ammette sconti (se non per i de minimis). Ma se così è, come si conciliano i risultati di una verifica operata ai fini dell’Iva – che continua a essere ammessa – con quanto contenuto nel concordato? Se vi dovessero essere discrepanze fra i due risultati quali conseguenze ne deriverebbero? Parrebbe che, qualora emergessero discrepanze superiori al 30 per cento rispetto alle attività (o passività) dichiarate gli effetti definitori del concordato verrebbero meno. Il condizionale, tuttavia, va mantenuto nella considerazione che le parole “attività” e “passività” sono poco coerenti con la disciplina dell’Iva (che conosce solo i corrispettivi da acquisto e cessione di beni e servizi), mentre l’emersione di attività (o passività) potrebbe derivare da indagini di natura patrimoniale non meglio definite (ad esempio, dichiarazione di non possesso di beni materiali in sede di dichiarazione dei redditi e successiva emersione degli stessi).

Va, poi, ricordato che il concordato rileva ai fini della definizione “del reddito derivante dall’esercizio di impresa o dall’esercizio di arti e professioni”. Non ha perciò effetti definitori ai fini dell’Irpef di periodo, ma solo della quota del relativo imponibile attribuibile all’attività d’impresa o di lavoro autonomo. Con la conseguenza che ben potrebbe farsi luogo ad accertamenti di tipo “sintetico” (contemplati dall’art. 38 del Dpr 600/1973) della persona fisica imprenditore o professionista basati sul relativo tenore di vita. Possibile che l’emersione di redditi in tale contesto (giustificati da una palese, anche se rilevante, contraddizione fra quanto dichiarato e altre manifestazioni di capacità contributiva) resti del tutto estranea ai meccanismi di ammissione o decadenza dal concordato? Che non siano, ad esempio, presi in considerazione ai fini della misurazione degli indici di affidabilità fiscale che varrebbero, però, solo per il futuro? Vi è certo una norma di salvaguardia, la quale prevede che questi fatti producano effetti solo se ne derivano redditi che superano le soglie previste per la punibilità in sede penale. Ma queste soglie sono piuttosto elevate e pensate più con riferimento a imprese medio-grandi che a contribuenti minori (occorrono congiuntamente centomila euro di imposta sottratta a tassazione e redditi occultati per due milioni di euro).

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Insomma: ha senso ridurre gli oneri dell’amministrazione finanziaria e accontentarsi di un risultato anche inferiore a quello ottimale (il difficile da accertare “reddito effettivo”). Ma occorre farlo con ragionevole proporzionalità e con adeguati strumenti di reazione per le situazioni patologiche.

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Riuscirà il concordato a ridurre l’evasione?

  1. Savino

    Come dice il Procuratore Gratteri, per chi ruba un litro di latte al supermercato ci sono gli estremi di reato, che, invece, non sono presenti per tutte le fattispecie tributarie e corruttive. La “politica criminale” non prevede nè pene nè ammende di rilievo per chi evade fiscalmente. Sembrano solo dei fatti di cui prendere atto, sapendo già a priori che quelle risorse di entrata sono perse e che bisogna reperirle altrove.

  2. ugo romano

    Le riflessioni del prof. Di Tanno sono lucide ed impeccabili. Le perplessità sollevate originano da esperienze già fatte, anche in altri ambiti: in ambito fiscale, gli indicatori di affidabilità possono infatti ripetere le storture già rappresentate dal meccanismo dei precedenti studi di settore, dove i dati gestionali invece di essere rilevati direttamente da funzionari dell’Amministrazione venivano trasmessi dallo stesso contribuente! oltretutto, trovando applicazione concreta a babbo morto, cioè 3 o 4 anni dopo i fatti, causa il fisiologico ritardo delle attività di accertamento…,
    Come lamenta il prof. Di Tanno l’affidabilità degli indici potrebbe essere compromessa dalla genesi dei dati storicizzati, qualora non veritieri. Ciò ricorda il meccanismo degli aiuti comunitari agli olivicoltori secondo il piano Fischer, che ha cristallizzato per un decennio il valore dei titoli sulla media dell’ultimo triennio dei dati dichiarati, dati che notoriamente, non brillavano generalmente per sincerità.
    Condivisibile pienamente le perplessità sulle contraddizioni potenziali tra il nuovo istituto e il reddito accertabile sinteticamente, reddito complessivo che spesso viene ad identificarsi nella generalità dei casi con lo stesso reddito di categoria ( piccola impresa / lavoro autonomo).
    Infine, analoga illogicità sembra emergere tra il nuovo istituto e le inalterate potestà accertative in ambito IVA imposta comunitaria. Continueranno a prodursi le sorprendenti contraddizioni schizofreniche come accadeva per la ricostruzione delle rimanenze secondo il regolamento n. 441 /1997, dove le incongruenze di magazzino riscontrate in sede ispettive dovevano essere recuperate tutte nello stesso periodo d’imposta dell’avvenuto controllo ostacolando così una ricostruzioni dei redditi pluriennale più coerenti con la logica economica.
    Sembra che il passato non insegni nulla agli aspiranti premier plenipotenziari…

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