L’anomalia italiana non è la longevità, ma l’avere sempre meno giovani, caratterizzati oltretutto da una debole presenza nella società e nel mondo del lavoro. Le nuove generazioni devono spostarsi al centro dei processi che generano benessere e sviluppo.
Struttura demografica con base sempre più stretta
I dati del Censimento pubblicati dall’Istat a fine 2023 forniscono le coordinate principali del percorso demografico del nostro paese. Ci dicono che il numero dei residenti dal 2014 è in continua diminuzione e che siamo entrati nel 2023 sotto i 59 milioni di abitanti. Nel corso dell’ultimo anno la popolazione è ulteriormente scesa, trascinata verso il basso da un divario tra nascite e decessi che rimane ampiamente negativo, solo in parte compensato dal saldo migratorio. Una diminuzione che procede in modo differenziato lungo la dimensione territoriale e dell’età.
Il Censimento mostra come la perdita di abitanti sia in larga parte concentrata nel Sud Italia e nei centri con meno di 5 mila abitanti (che sono oltre i due terzi dei comuni italiani). Lasciare che gli squilibri demografici aumentino significa lasciare che diventino ancor più fragili i territori già più fragili. E mostra come, rispetto a una popolazione anziana che continua a crescere, sia in spiccata riduzione la consistenza quantitativa delle nuove generazioni. Il processo che più sta incidendo sugli squilibri demografici e con intensità maggiore nel nostro paese è quest’ultimo. Un processo che continuiamo a sottovalutare e a lasciare ai margini del dibattito pubblico. Se si effettua una ricerca su Google, si trova che nel corso del 2023 la voce “invecchiamento della popolazione” fornisce oltre 13 mila risultati, mentre “degiovanimento” ne totalizza poco più di 160. La voce “invecchiamento dal basso” – utilizzata dai demografi per indicare gli effetti della denatalità sulla struttura per età – produce meno di 10 risultati.
Continuiamo a pensare che, in termini di questione demografica, la principale anomalia dell’Italia sia la longevità, che fa aumentare la popolazione nelle età più mature. Invece, la longevità intesa come vivere bene e a lungo va considerata la nuova normalità da favorire, una sfida che accomuna l’Italia con le economie più avanzate. Nessun paese mette in atto politiche per contenere la longevità, mentre nel resto d’Europa si introducono politiche più solide delle nostre per favorire la natalità.
La preoccupazione maggiore dell’Unione europea non è l’aumento degli anziani, ma l’indebolimento della popolazione attiva, a causa della riduzione delle coorti di nuovi entranti in età lavorativa. L’anomalia italiana, che ci caratterizza da troppo tempo, è l’intensità del degiovanimento quantitativo (sempre meno giovani) entrato in circolo vizioso con il degiovanimento qualitativo (debole presenza nella società e nel mondo del lavoro).
Se si guarda invece alla popolazione anziana in condizione più fragile, quella di chi ha 85 anni e oltre, nello stesso intervallo temporale l’aumento è stato di circa 6,2 milioni di abitanti nel complesso Ue-27 e l’Italia ha segnato una variazione positiva di poco meno di 1 milione, pari al 16 per cento dell’aumento complessivo dell’Unione. Un dato sostanzialmente in linea con gli altri grandi paesi con cui ci confrontiamo (figura 2).
Figura 1 – Variazione della popolazione in età 30-34 anni. Periodo 2002-2022
Figura 2 – Variazione della popolazione in età 85 e oltre. Periodo 2002-2022
Una spirale che trascina tutto al ribasso
Un paese che non subisce i cambiamenti, ma li governa, evita un indebolimento quantitativo eccessivo delle nuove generazioni e cerca di favorire un miglioramento qualitativo del loro contributo qualificato nei processi di sviluppo economico e sociale. Il mondo è sempre più complesso, la sfida della transizione verde e digitale richiede competenze sempre più solide e avanzate. Il ruolo delle nuove generazioni nelle economie più mature è quindi quello di rinnovare la forza lavoro portando energie e intelligenze che diventino leva per la crescita competitiva e sostenibile delle aziende e delle organizzazioni, su tutto il territorio nazionale. E invece l’Italia si trova a essere il paese in Europa con una delle peggiori combinazioni tra bassa quota di chi arriva in età 30-34 con un titolo terziario e alta percentuale di Neet, ovvero coloro che non sono in formazione e non hanno un lavoro (25,7 per cento nel 2022 contro una media Ue-27 pari a 15,7 per cento).
Tutto questo, come evidenziano i dati del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, ha conseguenze negative non solo sulle potenzialità di sviluppo del paese, ma tiene basse anche le opportunità per i singoli di ingresso solido nel mondo del lavoro e di reddito, quindi anche le condizioni per realizzare in modo pieno i propri progetti di vita. Le nascite in Italia sono crollate soprattutto sotto i 35 anni con un peggioramento particolarmente rilevante nelle dinamiche più recenti.
Se l’Italia è il paese che maggiormente ha contribuito alla riduzione della popolazione oggi trentenne in Europa, è anche il paese che più contribuisce ad affossare le nascite europee (e quindi i trentenni di domani). I dati Eurostat ci dicono che nell’intera Ue-27 nel 2022 ci sono stati circa 530 mila nuovi nati in meno rispetto al 2012. Il corrispondente valore dell’Italia è di -141 mila: oltre un nato su quattro l’Unione europea l’ha perso in Italia.
La risposta principale al degiovanimento sta nelle parole dette dal Presidente Mattarella nel tradizionale discorso di fine anno. “Rispetto allo scenario in cui ci muoviamo, i giovani si sentono fuori posto. Disorientati, se non estranei (…). Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese (…). In una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle loro speranze. Della loro capacità di cogliere il nuovo”.
Dobbiamo, quindi, rendere l’Italia un sistema più attrattivo per le nuove generazioni, aiutandole a spostarsi dai margini al centro dei processi che generano benessere e sviluppo del paese (in coerenza con le indicazioni del “Talent Booster Mechanism” lanciato dalla Commissione europea).
Il rischio di lasciare i giovani fuori posto è che la scelta di avere figli diventi sempre più debole e diventi, per converso, sempre più forte quella di cercare il proprio posto altrove.
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Savino
In questo contesto, bisogna inserire le persone cronologicamente prima sia nel mondo del lavoro che nella società. Una personalità, anche dal punto di vista caratteriale, deve emergere a 16, a 18, a 20 anni e non ultra 40enne o ultra 50enne come è avvenuto negli ultimi 3-4 decenni.
Andrea
Non c è trippa pe gatti
bob
si confonde ” vecchio” con l’età anagrafica mltlo spesso. Questo è fuorviante. Conosco ventenni concettualmente nel pensiero negli atteggiamenti che sanno di ammuffito…. e non sono una minoranza . Questo è il dramma
In questo Paese c’è tanto molto da fare che non basterebbero tutti i “giovani” e i ” vecchi” messi insieme