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Conseguenze secolari da una demografia sbilanciata

Il problema della denatalità italiana non è tanto la diminuzione della popolazione. Ma il fatto che si altera il rapporto tra la popolazione attiva e quella anziana. Il post-Covid può essere l’occasione per cambiare rotta rispetto a politiche sbagliate.

Dove nasce la fragilità italiana

Nessun’altra disciplina quanto la demografia è in grado di mostrare in modo chiaro – quasi inesorabile – quali conseguenze possiamo attenderci nel futuro prossimo dai comportamenti di ieri e di oggi.

Nella percezione comune, il fatto di avere meno figli porta a una diminuzione della popolazione. Ma la questione più problematica non è tanto essere di più o di meno, quanto gli squilibri strutturali che si generano, in particolare nel rapporto relativo tra popolazione in età attiva (a cui è affidata la crescita economica e la sostenibilità del sistema sociale) e popolazione anziana (che tende più ad assorbire che a produrre ricchezza).

La denatalità italiana non ci allontana dai cosiddetti paesi “frugali” in termini di numero di abitanti (considerato, del resto, che si tratta di nazioni meno popolate della nostra), ma ci rende più fragili rispetto alla capacità di produrre ricchezza e ai costi crescenti legati all’invecchiamento della popolazione. Nell’economia demografica europea, l’Italia è tra i paesi membri che più contribuiscono a far lievitare la presenza di anziani e tra quelli che più indeboliscono la presenza delle nuove generazioni e, in prospettiva, della forza lavoro.

Anni di politiche sbagliate

I dati del rapporto “Ageing Europe – 2019 Edition” indicano come per l’Italia (e il complesso dei paesi dell’Europa mediterranea) il tasso di dipendenza degli anziani sia spinto verso l’alto dalle dinamiche passate e in corso, fino ad avvicinarsi a 1,5 persone in età lavorativa (15-64 anni) per ogni over 65. Il valore medio europeo è attorno al 50 per cento (rapporto di 2 a 1), ma tutti i cosiddetti paesi “frugali” sono ben posizionati sotto tale soglia.

Se poi si aggiungono “quota 100” – ovvero un segnale che va in controtendenza rispetto alle risposte virtuose necessarie per favorire una lunga vita attiva, che ovviamente più che di vincoli di età ha bisogno di favorire pratiche di successo di “age management” nelle aziende -, il record di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano), una bassa partecipazione femminile (anche per la carenza di misure e strumenti di conciliazione), risulta ben chiaro che non solo la forza lavoro in Italia si riduce come conseguenza della denatalità, ma è ancor più indebolita da politiche sbagliate e carenti.

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Dai dati del Bilancio demografico nazionale appena pubblicati dall’Istat si vede come da oltre dieci anni (durante e dopo la recessione del 2008-2013) le nascite in Italia siano state in continua caduta: il saldo naturale è passato da valori vicini a zero prima del 2008 a -214 mila nel 2019. Mentre si è allargato il flusso verso l’estero di cittadini italiani in cerca di migliori opportunità (+8,1 per cento nel 2019 rispetto al 2018). A confermare un quadro coerente, certificato dal Rapporto annuale 2020, a questi dati si aggiunge la mancanza di un processo di convergenza con la media europea della quota di Neet e dell’occupazione delle donne con figli.

Possiamo tranquillamente affermare, guardando ai risultati, che le politiche familiari e quelle di attivazione delle nuove generazioni siano da troppo tempo quantomeno inadeguate, se non fallimentari. Abbiamo investito poco e male sulle voci più importanti per dare solidità al nostro futuro: formazione, conciliazione, politiche attive, ricerca, sviluppo e innovazione. Se l’Europa fosse una casa, la parete verso Sud apparirebbe in modo evidente quella più fragile, ma anche quella che ha visto il minore impegno responsabile ed efficace al miglioramento da parte dei più diretti interessati.

L’impatto della pandemia causata da Covid-19 ha ulteriormente complicato il quadro, ma può anche fornire l’opportunità per rafforzare il versante Sud, a beneficio di una maggiore solidità di tutto l’edificio europeo. Per riuscirci serve, però, la migliore combinazione tra risorse adeguate e scelte responsabili. In ogni caso, qualsiasi sia l’entità della spinta che ci arriverà dall’Europa, è tempo che l’Italia individui con determinazione e lungimiranza la propria direzione, se non vuole autocondannarsi a una lunga deriva nel resto di questo secolo.

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  1. Lorenzo

    La lunga deriva italiana è cominciata all’inizio di questo secolo quando occorreva consolidare i risultati raggiunti nello sforzo per la creazione della moneta comune e invece si è pensato bene (male) di attacare in continuazione l’Europa stessa, ma sempre con il sorriso televisivo ovviamente. Ora possiamo solo raccogliere i cocci e pensare al domani, ma con una visione socio-economica di respiro molto corto. L’unico modo per tentar di risalire la china e quindi far rientrare quell’enorme quota di giovani che vanno via è quella di aprire (opportunamente) le porte all’immigrazione. Ma non si farà.

  2. enzo

    credo che la demografia sia un effetto non una causa. Per motivazioni sociali e culturali è impensabile che una donna italiana torni a sfornare figli come fino al secondo dopoguerra. Certo lavoro e reddito più alto associato a politiche per la famiglia potrebbero portarci a livelli nordeuropei. Ma la questione delle questioni resta l’economia e il benessere che fra le altre cose determinano anche la demografia. Non significa che con alti stipendi le donne italiane faranno tanti figli in più , ma qualcuno in più sì. sarà l’immigrazione, quella vera, che di fronte alle possibilità offerte da una domanda di lavoro disponibile ed insoddisfatta determinerà la demografia.

  3. bob

    alla demografia sbilanciata aggiungerei anche una ” demografia geografica sul territorio” sbilanciata. Invece di creare progetti politici lungimiranti si sono utilizzate scorciatoie furbe per esempio enormi periferie con qualità della vita da terzo mondo e senza nessuna speranza del futuro.

  4. Roberto Coiutti

    Le politiche italiane sono inadeguate, ma l’Italia è sottoposta a fenomeni economici di inaudita potenza.
    C’è emigrazione perché c’è cattiva integrazione europea: in Italia non vedo fabbriche di automobili estere, così in Francia o Germania non vi sono stabilimenti che producono auto italiane, oppure che multinazionali estere utilizzino banche italiane. Mentre gli USA sono molto più integrati (ad es. Amazon voleva aprire una sede a New York).
    Inoltre l’euro ha fatto scomparire il rischio di cambio: chi lavora all’estero, quando rientra in Italia, i risparmi non variano. Inoltre se compra casa all’estero è agevolato nel mutuo perché i tassi reali in Germania o Olanda sono più bassi di quelli italiani in quanto l’inflazione è superiore.
    Inoltre la globalizzazione favorisce i grandi agglomerati di persone cioè il piccolo non è bello, mentre in Italia vige il principio opposto a tutti i livelli soprattutto in politica. Le regioni con meno di un milione di popolazione, hanno tutte la natalità inferiore alla media nazionale e la mortalità superiore, indici emblematici di ristagno sociale ed economico. Paradigmatico è l’esempio dell’ultima nata: il Molise è stato creato nel 1963 proprio durante il baby boom.
    Stesso discorso per le province: qui in Veneto quelle con bassa natalità sono quelle più piccole. Per cui chiudendo le regioni e provincie più piccole e con i risparmi aumentare gli assegni per i figli si potrebbe modificare un po’ la situazione.

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