Negli ultimi tre anni i contratti collettivi non sono riusciti a proteggerli i salari reali dall’inflazione. Fra i settori le differenze sono ampie e solo in alcuni le componenti di secondo livello hanno compensato in parte le perdite di potere d’acquisto.
Bene il mercato del lavoro, male i salari
Come va il mercato del lavoro italiano? A un quesito di questo genere è difficile offrire una risposta univoca.
Se si guarda all’andamento delle diverse misure della domanda di lavoro (occupati, ore lavorate) e alle caratteristiche dell’occupazione (incidenza di quelli a termine, del part-time, dinamiche territoriali) le cose non sono mai andate così bene (ne avevamo parlato qui).
Se si guarda invece all’andamento dei salari, le cose non sono mai andate così male.
Difatti, se la bassa crescita salariale è un tratto che contraddistingue l’economia italiana da circa tre decenni, gli andamenti dell’ultimo periodo, dopo la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina, sono stati particolarmente deludenti anche in una prospettiva storica, oltre che nel confronto con le altre maggiori economie.
Un disallineamento prolungato fra salari e prezzi può influenzare in maniera marcata le aspettative di ampie fasce di consumatori, modificandone le decisioni di spesa e gli stili di vita. Ha anche conseguenze in termini di diffusione del disagio economico, con riflessi sulla coesione sociale.
I contratti nazionali
Un primo punto da evidenziare è costituito dagli andamenti legati ai rinnovi dei contratti nazionali di lavoro. L’indice Istat delle retribuzioni contrattuali nell’intero periodo post-pandemia, cioè fra il 2019 e il 2023, aumenta del 5,4 per cento; l’inflazione nello stesso periodo è stata pari al 16,2 per cento se si considera l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale (indice Nic). In termini reali, i salari contrattuali si sarebbero quindi ridotti in quattro anni del 9,3 per cento.
Figura 1
I salari “di fatto”
Le cose vanno leggermente meglio se si passa a esaminare l’andamento complessivo delle retribuzioni, i cosiddetti salari “di fatto”. Oltre a tenere conto dell’evoluzione delle retribuzioni contrattuali, incorporano anche tutti gli altri elementi del salario, come gli straordinari, gli scatti di anzianità, le progressioni di carriera, i bonus erogati a livello individuale, il cambiamento nelle caratteristiche della forza lavoro e altro ancora. Sono costruiti rapportando l’intera massa retributiva secondo la contabilità nazionale al numero di ore effettivamente lavorate dai dipendenti.
Considerando anche in questo caso l’intero periodo dall’inizio della pandemia, le retribuzioni orarie di fatto in Italia sarebbero aumentate del 7,8 per cento, con una riduzione in termini reali cumulata del 7,2 per cento.
La differenza fra l’andamento dei salari di fatto e le retribuzioni contrattuali nel periodo post-pandemia sarebbe quindi di entità significativa, oltre due punti percentuali. Alla differenza ci si riferisce solitamente con l’espressione “slittamento salariale” e oggi desta sorpresa, perché normalmente è di entità modesta, pochi decimi di punto percentuale all’anno. Nella fase attuale appare riconducibile in parte ad alcuni cambiamenti nel mercato del lavoro (di tipo organizzativo, nel ricorso agli ammortizzatori sociali, nelle mansioni, nelle modalità di lavoro) che hanno caratterizzato il periodo della pandemia. Potrebbe anche costituire una risposta del mercato rispetto all’inadeguatezza degli aumenti definiti nei contratti nazionali.
Figura 2
Divergenze settoriali
Per esaminare il contributo dei contratti nazionali rispetto a quello delle altre voci della retribuzione appare utile descrivere gli andamenti recenti tenendo conto delle divergenze nei diversi settori.
Nei grafici che seguono si descrive la crescita cumulata dei salari di fatto e poi si mostra la variazione dei salari contrattuali e quella dello slittamento (approssimata dalla differenza fra la variazione delle due componenti). Dai grafici sono esclusi i settori a prevalenza di impiego pubblico (Pa, sanità, istruzione) oltre ad agricoltura e servizi alle famiglie. I settori sono ordinati in ordine decrescente sulla base della variazione dei salari di fatto, separando i settori dell’industria da quelli dei servizi.
Ne emergono almeno tre punti.
Il primo è che l’andamento dei salari appena descritto con riferimento all’intera economia nazionale sintetizza andamenti anche molto diversi nei vari settori. Sebbene in nessuno la crescita delle retribuzioni eguagli nel quadriennio quella dei prezzi al consumo, ci sono alcuni settori dell’industria dove la dinamica salariale approssima quella dei prezzi, mentre nei servizi i settori con i salari più vivaci registrano comunque perdite notevoli. Tanto nell’industria quanto nei servizi vi sono settori dove i salari di fatto crescono molto poco, con aumenti nel quadriennio dell’ordine del 5-6 per cento, e dove quindi la perdita di potere d’acquisto nel quadriennio è stata superiore al 10 per cento.
Una dispersione delle dinamiche salariali analoga a quella osservata negli ultimi anni si riscontrava anche in passato. Tuttavia, una determinata dispersione in presenza di valori medi di segno positivo in termini reali è cosa ben diversa da una dispersione intorno a una media di segno ampiamente negativo. Una conseguenza di ciò è che, quando guardiamo alle dinamiche salariali in aggregato degli ultimi anni, non dobbiamo dimenticare che vi sono aree significative del tessuto economico italiano dove la tenuta della struttura produttiva è avvenuta anche al costo di un arretramento importante del potere d’acquisto delle retribuzioni.
Figura 3
La contrattazione collettiva
Il secondo punto è che la contrattazione nazionale ha distribuito aumenti salariali modesti in tutti i settori. I contratti dell’industria hanno per lo più registrato dinamiche più sostenute di quelle dei servizi. Divergenze negli aumenti dei contratti nazionali erano comunque evidenti già da diversi anni, e rappresentano una rottura nello schema che aveva sorretto la contrattazione in Italia, basato sull’individuazione di un indicatore di riferimento valido per tutti i settori (la cosiddetta “inflazione programmata”) prevalente sino alla metà degli anni Duemila (dai primi anni Dieci si è passati all’indicatore dell’inflazione nettata degli impatti della componente energy prevista dall’Istat). Poiché si è progressivamente attenuato il ruolo dell’inflazione programmata o prevista nel guidare gli aumenti pattuiti in sede di rinnovo, i diversi contratti hanno seguito percorsi differenti in base alle proprie specificità. Soprattutto nei settori dei servizi vi sono poi contratti che sino al 2023 avevano accumulato un notevole ritardo nei rinnovi. In generale, dal 2024 i differenziali negli aumenti salariali potrebbero ridimensionarsi man mano che entrano a regime altri rinnovi contrattuali che iniziano a tenere conto degli aumenti dei prezzi degli anni precedenti.
Figura 4
La contrattazione di secondo livello
In terzo luogo, le divergenze negli andamenti salariali dei diversi settori sono riconducibili in questa fase non tanto alle dinamiche dei contratti nazionali, quanto alla componente dello slittamento, che in alcuni casi arriva a contribuire alla crescita retributiva complessiva per 8 punti percentuali, mentre in altri il suo contributo è praticamente nullo. L’impressione è che dinanzi alla ripresa dell’inflazione sia venuto meno il ruolo protettivo del contratto nazionale, che dovrebbe in linea di massima riuscire almeno a coprirne una quota significativa anche in momenti di stagnazione delle produttività, e che questo abbia lasciato spazi più ampi alla contrattazione di secondo livello e individuale, che ha risposto in base alle condizioni specifiche del segmento del mercato del lavoro di riferimento per ciascun settore.
Figura 5
In questo quadro complessivo, resta da comprendere se quello che abbiamo visto negli anni scorsi sia un esito delle condizioni straordinarie in cui ha operato l’economia nella fase post-Covid, e quindi se nei prossimi anni le differenze tenderanno a ricomporsi, con andamenti più dinamici nei settori dove i lavoratori negli anni scorsi sono stati più svantaggiati.
Segnali in questa direzione possono essere colti da alcuni contratti rinnovati recentemente, che iniziano a incorporare aumenti a ritmi più vivaci rispetto agli anni scorsi, e superiori all’inflazione prevista. Fra questi, ad esempio, va ricordato quello del commercio, che comporta un aumento della retribuzione annua contrattuale a tassi di quasi il 4 per cento annuo sino al 2027.
In generale, la maggiore vivacità dei rinnovi contrattuali, e le previsioni d’inflazione attuali che indicano aumenti dei prezzi contenuti, inferiori al 2 per cento all’anno, suggeriscono che la maggior parte dei settori nel quadriennio 2023-2027 registrerà aumenti dei salari reali.
Non per tutti i comparti gli aumenti dei salari contrattuali potrebbero però bastare a recuperare le perdite di potere d’acquisto degli anni scorsi. Anche per questo, le divergenze negli andamenti settoriali potrebbero restare ampie, rispecchiando ancora la possibilità che alle dinamiche del contratto nazionale si sovrappongano o meno variazioni positive delle componenti del salario non contrattate centralmente.
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Savino
Il sindacato si è perso in discorsi campati in aria, in lungaggini per il rinnovo dei CCNL ed azzerando la contrattazione di secondo livello, azienda per azienda e territorio per territorio.
Claudio
Il problema nasce a monte.Quando nel Gennaio del 1975 fu stipulato Tra Gianni Agnelli e Luciano Lama il contratto sulla scala mobile,una delle poche cose buone fatte per tutelare i lavoratori Un altro Uomo della sinistra fortissimamente volle nel giugno di 10 anni dopo tramite referendum la sua abolizione,votata anche da coloro che ne ricevevano benefici.Fu fatto credere che quello era il motivo per cui cresceva l’inflazione.Cosa assolutamente non vera in quanto avveniva il contrario,il salario si adeguava dopo che era stata calcolato il tasso d’inflazione che veniva adeguato al costo della stessa e non per intero.Adesso siamo qui a piangerci addosso.
Alessandra
Unica soluzione: aereo e via dall’Italia.
Questo Paese non ha futuro e i pochi giovani rimasti si ritroveranno a reggere sulle spalle un peso contributivo iniquo visto l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di nascite e la bassa produttività.
Si salvi chi può prima della fine!