Le politiche per aumentare la competitività dell’Europa dovranno tener conto delle forti differenze territoriali. Bisogna evitare il rischio di concentrare le attività economiche solo in alcune regioni, attraverso meccanismi che rafforzino la coesione.

L’Europa e la questione competitività

Le parole chiave del dibattito politico, anche a livello europeo, si evolvono rapidamente, a seconda delle circostanze e delle sfide che appaiono più urgenti per l’Ue.

Nel corso dell’ultimo anno, in corrispondenza dei rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta, la questione competitività ha superato quella delle transizioni verde e digitale, sulle quali invece si insisteva nel periodo della prima Commissione von der Leyen.

La questione della competitività a livello europeo non è in realtà nuova. Già nel 2000 l’Ue aveva approvato la Strategia di Lisbona che mirava a fare dell’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. La corsa era poi stata rilanciata nel 2010 con la strategia EU2020, finalizzata alla crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

Sono così nate le politiche di specializzazione intelligente, ufficialmente definite come “strategie di innovazione nazionali o regionali che definiscono le priorità allo scopo di creare un vantaggio competitivo sviluppando i loro punti di forza in materia di ricerca e innovazione e accordandoli alle esigenze imprenditoriali, al fine di rispondere alle opportunità emergenti e gli sviluppi del mercato in modo coerente, evitando nel contempo la duplicazione e la frammentazione degli sforzi”.

Sono state applicate principalmente a livello regionale, essendo condizionalità per ricevere i fondi dell’Obiettivo tematico 1 all’interno delle politiche regionali europee nel periodo di programmazione 2014-2020. E sono anche state un banco di prova importante per le idee delle politiche place-based (basate sui luoghi), ovvero politiche che riconoscono le specificità territoriali e il fatto che gli attori del territorio hanno conoscenze su di esso che gli attori esterni non hanno, per cui ogni intervento viene disegnato sullo specifico territorio nel quale viene applicato.

Perché non bastano le politiche place-based

L’approccio place-based aveva portato un particolare ottimismo riguardo al fatto che si potessero raggiungere al tempo stesso obiettivi di competitività e di coesione territoriale, grazie alla possibilità di sfruttare le opportunità di tutte le regioni.

In un recente lavoro, ho però elencato una serie di motivazioni per le quali, nonostante le politiche place-based, non si è riusciti a coniugare competitività e coesione, iniziando dal fatto che le disparità tra regioni rimangono problematiche. A un processo di convergenza tra gli insiemi dei nuovi e vecchi paesi membri, infatti, si accompagna un processo di divergenza tra gli stati all’interno dei due gruppi, poi tra regioni all’interno degli stati e, infine, tra province all’interno delle regioni.

In più, le regioni in ritardo di sviluppo hanno spesso una minore competitività e un minor potenziale di nuove tecnologie cosicché anche le strategie di specializzazione intelligente sono state disegnate meglio nelle regioni avanzate.

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Dunque, gli impatti delle politiche di sviluppo regionale possono rivelarsi inferiori nelle regioni deboli e con istituzioni, leadership e imprenditorialità scadenti.

Anche i costi della transizione verde sono, in media, più elevati per le regioni in ritardo di sviluppo.

Ecco quindi l’emergere di luoghi che non contano, ovvero regioni deboli e periferiche che scontano una serie di problemi strutturali e che tendono a sentirsi abbandonate da stati che prendono le loro decisioni altrove.

I rischi di concentrare le attività economiche in alcuni paesi Ue

La questione della concentrazione spaziale non vale solo a livello regionale e dovrebbe concernere la politica a livello più ampio.

Uno dei problemi evidenziati dai rapporti Letta e Draghi, infatti, è quello delle limitate economie di scala che esistono a livello europeo perché se la dimensione del mercato Ue è paragonabile a quella americana o cinese, il numero degli operatori è ampiamente superiore, e ciascuno di essi risulta essere relativamente piccolo se comparato rispetto a concorrenti globali.

Se come i due rapporti auspicano la crescita di competitività passerà da campioni non più nazionali ma europei, resta il fatto che queste nuove imprese, a questo punto di dimensione globale, avranno comunque una sede principale e operativa, che non potrà essere genericamente nell’Unione europea ma dovrà essere localizzata in uno dei paesi membri. Anche se le aziende avessero molteplici sedi – cosa che non si può imporre per non rischiare di mettere a repentaglio la competitività di queste imprese con scelte inefficienti – è assai improbabile che coprano tutti i paesi della Ue.

La diffusione delle tecnologie

Oltre alla politica industriale, l’altra modalità in cui si può intervenire sulla competitività a livello continentale è quella dell’innovazione.

Il modello europeo di innovazione diffusa non si è rivelato sufficiente per competere con i modelli americano e, ora, anche con quello cinese: entrambi ci hanno scavalcato su varie tecnologie chiave, compresa per esempio l’intelligenza artificiale.

Anche in questo caso, in passato si era tentato di portare la Ue al 3 per cento di spesa sul Pil in R&S, con l’auspicio di portare tutte le regioni allo stesso livello. In realtà, la letteratura economica regionale ha da tempo dimostrato che esistono molteplici modalità di innovazione e che quindi regioni diverse innovano in modo diverso.

Supponendo che si possano colmare il ritardo che oggi esiste, per arrivare alla massa critica necessaria perché l’Unione europea possa competere nelle tecnologie chiave, sarà necessario sostenere e finanziare poli tecnologici dove concentrare le migliori risorse umane e imprenditoriali, anche qui spingendo verso una ulteriore concentrazione delle attività economiche di alto livello.

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Esiste una soluzione all’interno dei negoziati?

Fermo restando che è importante che l’Unione europea diventi più competitiva e che si reinneschi un meccanismo virtuoso di crescita, allo stato attuale non sembra essere evidente una semplice soluzione alla forza centripeta di questi processi.

La mobilità delle persone, a livello europeo, resta limitata, e lo è per elementi strutturali quali le barriere linguistiche. D’altra parte, l’idea che si possano spostare persone da un luogo all’altro così come si spostano le merci è semplicistica. Non a caso, anche a livello europeo si parla quindi sempre più spesso di diritto a rimanere (Right to Stay).

Peraltro, la desertificazione dei luoghi non è auspicabile per motivi sociali, ambientali, culturali e politici.

Per quanto riguarda l’innovazione, potrebbe essere adatto un modello per cui, da un lato, si supporta la creazione di tecnologia in pochi territori ad alto potenziale, dall’altro si incentiva la diffusione delle tecnologie verso i territori non in grado di crearne di nuove.

Per quanto riguarda invece la concentrazione delle imprese, e quindi dei posti di lavoro, dei profitti e delle imposte, la migliore soluzione, teoricamente, sarebbe quella di una unione fiscale o comunque della creazione di meccanismi di fiscal equalization.

Solo con una unione fiscale, infatti, i benefici delle economie di scala si diffonderebbero automaticamente tra tutti i cittadini europei.

L’unione fiscale non sembra però un’idea all’ordine del giorno. Di conseguenza, nella negoziazione per il quadro finanziario 2028-2034 bisognerà assicurarsi che le politiche per la competitività siano accompagnate da meccanismi che rafforzino la coesione territoriale e che evitino, per quanto possibile, situazioni in cui qualche territorio, sia esso uno stato o una regione, si avvantaggi a scapito di altri.

Per un mantenimento e un rafforzamento degli interventi per la coesione, è inoltre necessario fare in modo che i benefici della aumentata competitività Europea si diffondano a tutti i cittadini della UE, a prescindere dallo stato e della regione in cui vivono.

Una governance più centralizzata, altro elemento di riforma di cui si discute, non è in contrasto con il raggiungimento di questi obiettivi, purché ci sia una volontà politica in tal senso.

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