La cifra del 5 per cento del Pil per la sicurezza decisa al vertice Nato è stata scelta per compiacere Trump. Per l’Italia significa almeno 33 miliardi in più, da trovare aumentando le tasse o tagliando le spese. Sarà il prologo di una difesa comune europea?

Un aumento di spesa necessario?

L’accordo raggiunto al vertice Nato dell’Aja il 25 giugno del 2025, che prevede l’obiettivo del 5 per cento del Pil per la spesa per la sicurezza da raggiungere entro un decennio, solleva numerosi interrogativi. Utile allora provare ad articolare qualche risposta.

Sicuramente la cifra simbolica del 5 per cento del Pil, più che essere basata su elementi oggettivi, è stata scelta soprattutto per compiacere il presidente americano, che vi aveva fatto cenno in qualche occasione pubblica. Il grottesco servilismo mostrato del nuovo segretario generale della Nato, Mark Rutte, nei confronti di Donald Trump è indicativo del vero e proprio terrore che corre tra i partner europei di fronte alla prospettiva di essere lasciati soli a confrontarsi con la crisi ucraina e gli altri rischi geopolitici. L’obiettivo fondamentale del vertice dell’Aja era poter avere la firma di Trump al documento finale del summit dove si ribadisce che “l’attacco a un membro della Nato è un attacco a tutti”, nella speranza che una dichiarazione congiunta sia sufficiente a garantire l’impegno del volubile presidente americano.

È d’altra parte vero che gli stati europei membri della Nato collettivamente già spendono molto per la difesa (più della Russia) e che un maggior coordinamento e una maggiore interoperabilità dei sistemi d’armamenti dei singoli sarebbe sufficiente a rendere molto più efficace la difesa europea, senza bisogno di spendere di più. Però, è anche vero che gli europei sono molto indietro nel campo nei cosiddetti “strategic enablers” (come intelligence e sorveglianza satellitare, cybersecurity, difesa missilistica) che è stata finora delegata interamente agli americani. E senza questi strumenti, la capacità difensiva degli europei resterebbe comunque limitata. Sarebbe utile se la maggior spesa europea servisse almeno in parte a colmare questi divari. 

Cosa significa per l’Italia

L’accordo Nato prevede che l’obiettivo del 5 per cento di spesa sulla difesa sul Pil si articoli su due categorie: il 3,5 per cento sulla spesa per la difesa vera e propria, come tradizionalmente computata in sede Nato e l’1,5 per cento per la sicurezza in termini generali, che include le infrastrutture e la loro protezione, la protezione delle reti, cybersecurity inclusa, la sicurezza della popolazione civile e così via. Sulla base della classificazione Nato – che è più ampia di quella normalmente utilizzata per i confronti internazionali della spesa per funzioni (Cofog), per esempio considera anche la spesa per pensioni del personale militare – nel 2024 l’Italia ha speso per la difesa l’1,5 per cento del Pil, cioè circa 33 miliardi di euro. Considerando che il Pil italiano è stato nel 2024 pari a circa 2.200 miliardi di euro, per arrivare al 3,5 per cento del Pil l’Italia dovrebbe dunque spendere tra i 40 e i 45 miliardi in più all’anno (in euro 2024); per arrivare al 5 per cento del Pil la cifra è tra i 75 e gli 80 miliardi in più. 

Comunque sia, il governo italiano sta cercando di convincere la Nato che in realtà noi spendiamo già il 2 per cento del Pil, attribuendo alla spesa per la difesa anche alcune poste di bilancio tradizionalmente escluse (per esempio, capitanerie di porto e guardie costiere). Tentativo già fatto in passato, ma senza successo: se adesso funzionasse, richiederebbe al paese uno sforzo finanziario minore per raggiungere il 3,5 per cento del Pil. Secondo le anticipazioni di stampa, il governo si starebbe orientando sui 33 miliardi di spesa aggiuntiva, con l’idea di incrementare ogni anno, per i prossimi dieci anni, la spesa dello 0,15 per cento del Pil, cioè 3,2 miliardi di euro.

In teoria, anche l’1,5 per cento di Pil in più che a questo punto mancherebbe ancora per raggiungere il 5 per cento, dovrebbe essere spesa addizionale rispetto all’esistente. Tuttavia, data l’ampia casistica in cui si articola la categoria, è probabile che si tratti di spese che in larga misura avremmo fatto comunque o almeno questa è l’interpretazione fornita dal governo. 

Quali saranno le conseguenze economiche?

La risposta alla domanda su quali saranno le conseguenze economiche dipende molto da dove si spende e in quanto tempo. 

La spesa per la difesa italiana è per il 60 per cento destinata al personale (mentre la media dei paesi europei che sono anche membri della Nato è circa del 40 per cento); pare ovvio che l’Italia dovrebbe dunque spendere soprattutto sull’acquisto di nuovi macchinari bellici e altre spese operative (per esempio, esercitazioni) più che sull’assunzione di nuovo personale. 

Per gli effetti economici, il punto rilevante è se la maggior spesa prenderà la forma di più acquisti dall’estero (cioè, in larga misura dagli Usa) o se si riuscirà a spendere acquistando di più a livello nazionale o almeno europeo, come risultato di un accordo reciproco tra i paesi europei. Nel primo caso, si tratta di risorse che vanno all’estero e dunque l’impatto sulla economia è zero. Nel secondo caso, è presumibile qualche effetto positivo in termini di domanda aggregata e dunque di crescita (il moltiplicatore keynesiano). Ma oltre all’impatto immediato, a seconda della tecnologia considerata, c’è anche la possibilità di spill-over positivi sul settore privato, in particolare per la componente ricerca e sviluppo. 

Per questo la tempistica è importante; sebbene l’Italia abbia alcune imprese di rilievo operanti nel campo della difesa (per esempio, Leonardo, Finmeccanica) è ovvio che, se gli acquisti devono essere fatti in fretta o su macchinari che comunque l’industria europea non è per il momento in grado di produrre, buying American resta l’unica soluzione; altrimenti, buying European diventa una possibilità. Ma perché questo sia davvero possibile è necessario costruire una industria della difesa integrata a livello europeo, eliminando tutti i vincoli indotti dalla legislazione nazionale a sostegno dei produttori nazionali e mettendoli in concorrenza, anche per ridurre i prezzi. 

Tutto ciò richiede tempo e un forte impegno condiviso a livello europeo. Il ReArm EU (Readiness 2030) della Commissione rappresenta un primo passo in questa direzione, perché i finanziamenti agevolati del Safe (i 150 miliardi per prestiti messi a disposizione dalla Ue) possono essere richiesti solo a sostegno di progetti comuni. Si tratta però di un passo ancora ampiamente insufficiente.

Gli effetti sui conti pubblici italiani 

Sul piano dei conti pubblici, tutto dipende da come si finanzia la spesa addizionale. Se lo si farà con maggior indebitamento, anche scontando qualche effetto positivo sul Pil, la spesa più alta implicherà un ritardo nel processo di risanamento dei conti pubblici e forse anche l’impossibilità di porre il rapporto debito su Pil su una traiettoria decrescente, come invece l’Italia si è impegnata a fare con il Piano strutturale e di bilancio per il 2025-2031. Il rapporto Ufficio parlamentare di bilancio di giugno 2025 contiene alcune stime che confermano ampiamente queste previsioni. Anche se si ricorresse ai prestiti Safe per finanziare (in parte) la maggior spesa con indebitamento, il beneficio sarebbe limitato: un risparmio di 40 milioni di spesa per interessi all’anno (su un totale che già sfiora i 90 miliardi) per 10 miliardi di spesa addizionale finanziata da prestiti Safe secondo le stime di Bruegel

Del resto, c’è poco da fare. Siccome l’incremento della spesa della difesa di un punto e mezzo di Pil è previsto come permanente, può essere finanziato senza avere effetti sugli equilibri di bilancio solo con un incremento permanente delle entrate o con una riduzione permanente delle spese o una combinazione delle due. Non ci sono alternative. 

Nato e difesa comune europea 

Più spesa in sede Nato e passi per una difesa comune europea non sono necessariamente in contraddizione. I paesi Ue che appartengono alla Nato già si coordinano in quella sede e non avrebbe probabilmente molto senso immaginare di costruire da zero un sistema parallelo. Il punto è che in questo momento la Nato è sotto stretto controllo degli Usa, che contribuiscono da soli a oltre metà del finanziamento complessivo. Trump o non Trump, è molto probabile che gli americani finiranno comunque per ritirarsi dallo scenario europeo, perché non lo considerano più strategico e anche perché non sono più in grado di finanziare una spesa per la difesa così massiccia. Sarebbe dunque importante che gli europei si preparassero a sostituirli, in termini di risorse ma anche di uomini e capacità di gestione. È una questione di tempi, con un passaggio che idealmente dovrebbe essere graduale e che dovrebbe consentire agli europei di ottenere quelle capacità militari che al momento mancano completamente e che sono state appaltate del tutto agli americani. Il coordinamento in sede Nato avrebbe anche il vantaggio di inglobare già paesi europei importanti per la difesa che appartengono all’Alleanza ma non alla Ue, a cominciare dal Regno Unito.  

Questo andrebbe poi coordinato con quello che già si sta facendo a livello Ue per la difesa comune, magari con accordi specifici tra i paesi dell’Unione e gli altri. Alla fine, però, accordi tra paesi sovrani restano comunque limitati. Se l’obiettivo è davvero quello di costruire una difesa europea e acquisire la capacità di incidere a livello globale, a difesa degli interessi e dei valori europei, è ineludibile affrontare il tema di una maggiore unificazione politica. I paesi interessati (probabilmente un sottoinsieme degli attuali paesi Ue, viste le divergenze esistenti) dovrebbero essere disponibili a cedere sovranità su difesa e politica estera a istituzioni sovranazionali, sottoposte a controllo democratico, come quelle sviluppate in ambito Ue.

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