Il governo ha approvato il Documento programmatico di finanza pubblica. Ha i numeri in regola con l’Europa. È un buon risultato, che però è quasi tutto frutto dell’aumento della pressione fiscale sui lavoratori dipendenti. E la manovra è di corto respiro.
Il Documento programmatico di finanza pubblica
Il 2 ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato il Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp), il nuovo strumento contabile che con la riforma delle regole europee ha sostituito la vecchia Nadef (la Nota di aggiornamento al Def). Aggiorna i dati sulla situazione economica e dei conti pubblici del paese e prepara la strada per gli interventi che il governo intende introdurre con la legge di bilancio per il 2026. Siccome devono essere già definiti nel Documento programmatico di bilancio (Dpb) che il paese deve sottoporre alla Commissione entro il 15 ottobre, ci sarebbe aspettati qualche indicazione puntuale anche nel Dpfp. Ma non è così. Tuttavia, il documento è interessante e merita una discussione. In questo articolo, ci occupiamo dei conti pubblici; in un altro contributo analizziamo quanto previsto per l’attività economica.
Lo stato dei conti pubblici
Sui conti pubblici, i dati certificati da Istat a settembre per il 2023 e 2024 avevano già confermato una situazione migliore di quanto previsto a primavera. In particolare, secondo Istat, il deficit nel 2024 si è assestato al 3,4 per cento del Pil, con un deficit primario (cioè, al netto della spesa per gli interessi) in avanzo di mezzo punto di Pil. Nel 2025, queste tendenze si confermano, con un deficit complessivo che è già nel limite di Maastricht, il 3 per cento del Pil, e un avanzo primario che cresce fino allo 0,9 per cento. A legislazione vigente, cioè se il governo non facesse nulla per il triennio 2026-2028, le stime prevedono una situazione in ulteriore miglioramento, con un deficit sotto il 3 per cento già nel 2026 (2,7 per cento) fino a raggiungere il 2,1 per cento nel 2028, quando l’avanzo primario salirebbe al 2,2 per cento del Pil.
Per il debito, la situazione è un po’ diversa. La rivalutazione dell’Istat del Pil ha certificato un debito su Pil nel 2024 lievemente migliore di quanto originariamente previsto: al 134,9 per cento invece del 135,3 per cento. Il miglioramento si estende agli anni successivi, ma ciononostante e nonostante la prevista riduzione del deficit, il debito continua inesorabilmente a salire, fino a raggiungere il 137 per cento del Pil nel 2027, per poi cominciare gradualmente a ridursi. La dinamica è spiegata dagli effetti di lungo periodo dei crediti edilizi (il Superbonus e le altre facilitazioni) che si traduce in minori entrate di cassa per i prossimi due anni.
Sul debito incide anche la dinamica negativa dell’“effetto palla di neve”, cioè il fatto che la crescita nominale del Pil nel prossimo triennio non è più in grado di compensare il costo medio del debito, con la spesa per interessi che nelle previsioni sale dal 3,9 per cento del Pil nel 2025 al 4,3 per cento nel 2028, nonostante la forte riduzione dello spread degli ultimi mesi. Questo significa che per riuscire a ridurre il debito, l’avanzo primario deve salire ancora di più.
Le nuove regole fiscali europee
Dato il quadro tendenziale, per capire gli spazi di azione possibili, bisogna anche ricordare che dall’anno scorso sono entrate in vigore le nuove regole fiscali europee. Non sono più basate, come in passato, sul rispetto di obiettivi definiti sul disavanzo, effettivo o strutturale, ma sul rispetto del tasso di crescita preventivato della spesa netta, cioè della spesa primaria al netto di alcuni aggiustamenti. L’evoluzione della spesa netta per il periodo 2025-2031 è già stata predeterminata nel Piano strutturale e di bilancio presentato dal governo a ottobre 2024 e approvato dalla Commissione e il Consiglio europeo nel 2025. Secondo le stime presentate nel Dpfp, l’evoluzione della spesa netta a legislazione vigente è in linea con quanto preventivato, eccetto che per il 2026, quando dovrebbe risultare lievemente maggiore (+1,7 per cento) di quanto preventivato (+1,6 per cento), variazione che il governo si impegna però a correggere (anche se non dice come).
Nel 2025, anno per cui i dati sono ormai quasi certi, la crescita della spesa netta risulta esattamente in linea con quanto preventivato, l’1,3 per cento. Il meccanismo che conduce al risultato è però ben poco trasparente. Infatti, la crescita della spesa primaria nel 2025 risulta ancora superiore al 3 per cento (il 3,1 per cento) e viene riportata all’1,3 per cento soprattutto grazie alle variazioni delle Drm (le misure discrezionali in materia di entrate) e delle entrate una tantum, che migliorano l’indicatore di oltre un punto percentuale. In pratica, nel 2025, secondo i conti riportati nel Dpfp, ci sarebbe stato un miglioramento delle entrate discrezionali e delle una tantum per circa 24 miliardi di euro, un dato che, sinceramente, sbalordisce. Purtroppo, come già discusso altrove, nessuno, eccetto gli uffici tecnici della Commissione e del ministero dell’Economia e delle Finanze, è in grado di capire, e tantomeno di replicare, questi calcoli. Resta un vulnus nella trasparenza del nuovo meccanismo di sorveglianza fiscale della Commissione.
La manovra preannunciata
Il fatto che nel 2025 e nel triennio successivo la situazione dei conti pubblici appaia migliore del previsto in passato avrebbe scatenato gli appetiti delle forze politiche per spendere subito le risorse addizionali. Con le nuove regole europee, poiché la crescita della spesa (netta) è predeterminata, i windfall gains non possono essere spesi, ma solo utilizzati per ridurre il deficit. Solo maggiori entrate dovute a interventi discrezionali del governo possono essere impiegate a sostegno di maggior spese. Questo naturalmente non significa che il governo non possa far nulla; dato il vincolo sulla spesa netta, ha piena libertà di agire come vuole su entrate o spese.
La scelta del governo nel Dpfp è tuttavia di fare molto poco. Il governo si impegna a interventi di politica economica dell’ordine dello 0,7 per cento del Pil all’anno in media nel triennio 2026-2028, cioè, una manovra lorda di circa 15-16 miliardi all’anno. Verranno finanziati solo in misura estremamente limitata tramite maggior deficit (e sempre nel rispetto del vincolo della spesa); il resto, verrà finanziato tramite una rimodulazione di voci di entrata e spesa. E in effetti, il quadro programmatico prevede solo un lievissimo peggioramento del deficit rispetto a quello tendenziale nel triennio (dal 2,7 al 2,8 per cento del 2026 per finire con il 2,3 invece del 2,1 per cento nel 2028). Per capirsi, si tratta di poco più di 2 miliardi di risorse addizionali nel 2026, anno in cui, comunque, il governo dovrà anche trovare le risorse per correggere l’evoluzione della spesa netta. Data la lieve modifica nell’indebitamento, anche la dinamica del debito su Pil resta in larga parte invariata nel quadro programmatico rispetto a quello tendenziale, con solo un piccolo peggioramento previsto nel 2026-2027.
Il resto delle risorse per finanziare la manovra dovrà essere trovato tramite una ricomposizione di spese ed entrate, che il governo si impegna a cercare per il 60 per cento sul fronte della spesa e per il 40 per cento su quello delle entrate. Come, non è però specificato. Si parla di “una ricomposizione del prelievo fiscale riducendo l’incidenza del carico sui redditi da lavoro” di “un ulteriore rifinanziamento del fondo sanitario nazionale”, di “specifiche misure volte a stimolare gli investimenti delle imprese” e di “preservare gli investimenti pubblici finanziati con risorse nazionali”, ma senza offrire alcun dettaglio ulteriore sulle dimensioni degli interventi o sulle coperture.
Casomai, è più interessante notare quello di cui non si parla nel Documento. Non si parla per esempio di rottamazione di cartelle, di interventi su pensioni (il rinvio dei tre mesi per l’età pensionabile) o di tassazione sugli extra-profitti bancari, nonostante le dichiarazioni di molti rappresentanti politici della maggioranza. Bisognerà vedere se questi temi rientreranno nel dibattito successivo.
Obiettivo raggiunto, ma come?
L’obiettivo prioritario di finanza pubblica che il governo si è posto negli ultimi due anni è uscire dalla procedura di infrazione della Commissione europea, aperta nel 2024, riportando il deficit sotto il 3 per cento nel 2026. L’obiettivo è confermato nel Dpfp ed è in pratica già stato raggiunto, con un deficit nel 2025 che si colloca attorno al 3 per cento. Gli effetti dell’aggiustamento rapido sui conti si sono visti sui mercati finanziari, con il crollo dello spread (ora attorno agli 80 punti rispetto al Bund) e la revisione del rating del paese da parte delle agenzie internazionali. La riduzione dello spread non solo migliora i conti pubblici, ma ha anche effetti positivi sul settore privato, in quanto i tassi di interesse praticati dal sistema bancario a imprese e famiglie sono influenzati da quello sui titoli pubblici. Lo stesso Dpef stima in circa lo 0,1-0,2 per cento l’effetto della riduzione dello spread sulla crescita annuale del Pil tramite questo canale indiretto.
Detto ciò, il modo con cui l’obiettivo è stato raggiunto lascia adito a parecchie critiche. Il risanamento dei conti nell’ultimo biennio è stato dovuto, oltre all’interruzione dei crediti edilizi e altri interventi sulla spesa, a una forte crescita della pressione fiscale. È salita di un punto e mezzo nel 2024, raggiungendo il 42,5 per cento del Pil, e nel Dpfp è prevista salire ancora nel 2025 (42,8 per cento). L’incremento è stato largamente dovuto all’aumento dell’occupazione dipendente, più pesantemente tassata di altri componenti del Pil e dall’operare massiccio del fiscal drag, soprattutto sui redditi medi e alti. È possibile che l’intervento ora annunciato sul penultimo scaglione Irpef abbia qualche effetto in termini di calmierazione della pressione fiscale nel prossimo triennio, ma nel Dpfp nessun dettaglio viene fornito. E mentre ci si lamenta giustamente del fatto che i salari privati non abbiano ancora recuperato l’inflazione del 2022-2023 (unico caso in Europa), il governo si è guardato bene dal farlo per i dipendenti pubblici, con incrementi contrattuali attorno al 5 per cento di fronte a un’inflazione cumulata di circa il 15 per cento nel triennio 2022-2024.
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Savino
Ancora tagli lineari sulla spesa sociale e sui comparti pubblici, complessivamente sarà almeno la 35esima finanziaria così? Mega scaglione IRPEF che equipara i 28.000 Euro lordi ai 50.000 (e Tajani vorrebbe ai 60.000 Euro lordi) ? Chi ha almeno 64 anni è più uguale di chi ne ha 63,62, 61 e a scendere per i mesi di allungamento dell’età lavorativa?