A gennaio 2026 le pensioni saranno perequate in base all’inflazione del 2025, che un apposito decreto emanato il 28 novembre quantifica in 1,4 punti percentuali. Ancora una volta è ignorato il diverso meccanismo richiesto dal sistema contributivo.

Il difetto originale

La riforma Dini del 1995 fu una rozza anticipazione del sofisticato modello pensionistico che uno degli scriventi aveva proposto nella prima metà degli anni Novanta e che, nella seconda metà, trovò autonoma applicazione in vari paesi nord-europei, diventando famoso con l’acronimo Ndc (Notional Defined Contribution). Uno dei difetti più gravi riguarda il mancato meccanismo con cui le pensioni contributive devono essere indicizzate, o perequate che dir si voglia. Cerchiamo qui di spiegarlo in termini semplici, dando anche conto della sua genesi storica.

Il conto personale

Il gettito contributivo e la spesa previdenziale sono due facce del trasferimento, dai lavoratori ai pensionati, su cui sono fondati i sistemi pensionistici pay‑as‑you‑go. L’Ndc non cambia tale modus operandi. Ciò nonostante, è basato sul concetto di conto personale dove ogni lavoratore deposita virtualmente i contributi. Altrettanto virtualmente, il 1° gennaio d’ogni anno t sul conto sono accreditati interessi in ragione di un tasso che la riforma Dini individuò nella crescita percentuale mediamente registrata dal Pil nominale nel quinquennio da t‑6 a t‑2. Il saldo del conto al pensionamento, chiamato ‘montante contributivo’, è la somma dei depositi e degli interessi.

La regola di calcolo

Rapportando il montante a un divisore definito come il numero degli anni che restano (mediamente) da vivere, l’Ndc calcola il comune importo delle annualità di pensione spettanti nel corso della vita residua. Si usa dire che il montante è trasformato nell’importo comune moltiplicandolo per un coefficiente di trasformazione definito come il reciproco del divisore. Per chi va in pensione più tardi, il coefficiente è maggiore perché il divisore è minore. Per semplicità conviene trascurare la reversibilità che complica questa regola di calcolo solo formalmente.

La regola d’indicizzazione

Per spiegare la regola con cui l’Ndc indicizza la pensione, si torni a considerare le annualità in cui è suddiviso il montante contributivo. Una è prelevata subito (sia pure a rate mensili) mentre le altre devono aspettare il loro turno, cioè le età cui sono destinate. In quale sala d’attesa devono farlo? L’Ndc risponde che il conto personale sopravvive al pensionamento e che le annualità vi restano depositate cosicché, al prelievo, ciascuna supera la precedente avendo maturato interessi per un anno di più.

In pratica, a tale risultato si perviene indicizzando la pensione in base alla crescita media quinquennale del Pil nominale. La regola d’indicizzazione si configura quindi come lo strumento con cui l’Ndc estende ai pensionati il tasso d’interesse riconosciuto agli attivi, con ciò garantendo equità fra le generazioni.

Gli scopi

Le regole ricordate perseguono due scopi. Il primo è la corrispettività, intesa come la restituzione dei contributi versati al lordo degli interessi maturati prima e dopo il pensionamento. Il secondo è la sostenibilità, intesa come l’equilibrio fra la spesa previdenziale e il gettito contributivo, dimostrata adattando all’Ndc gli storici teoremi di Samuelson e Aaron. Colpisce la disinvoltura con cui entrambi gli scopi sono stati dimenticati dal provvedimento bipartisan reclamizzato come taglio del cuneo fiscale.

La sostenibilità scongiura il rischio che al finanziamento delle pensioni debba concorrere la fiscalità generale con risorse indebitamente sottratte ai consumi collettivi. Nel lungo periodo è garantita da entrambe le regole, mentre al rapido superamento degli squilibri di breve periodo, generati dai cicli economici, è soprattutto deputata la regola d’indicizzazione che agisce sull’intero stock delle pensioni in essere, mentre quella di calcolo agisce solo sul flusso delle nuove.

Il trade off

L’Ndc non finisce qui ma prevede anche un trade off fra le regole che lo definiscono. Evitando i dettagli, l’indicizzazione può essere, infatti, scontata (ridotta) in cambio di un calcolo più generoso che prende la forma di una maggiorazione dei coefficienti di trasformazione. Facendo salve la corrispettività e la sostenibilità, tale scambio modifica il profilo temporale della pensione avvantaggiando le età più giovani a scapito delle più vecchie.

Tutti i paesi che hanno scelto l’Ndc hanno attinto al trade off a piene mani col fine demagogico di sfoggiare un tasso di sostituzione (definito come la prima pensione in percentuale dell’ultima retribuzione) socialmente più appetibile. In testa alla graduatoria c’è la Svezia, che sconta l’indicizzazione di 1,6 punti percentuali esponendola al rischio d’essere facilmente superata dall’inflazione, con la conseguente erosione del potere d’acquisto delle pensioni. Il sorpasso si è verificato ripetutamente inducendo il governo ad adottare compensazioni fiscali nei casi più gravi. In coda c’è la Norvegia, dove l’indicizzazione è scontata di 0,75 punti.

Il paradosso italiano

La riforma Dini accolse la regola di calcolo ma non quella d’indicizzazione. Le ragioni risalgono ai lavori preparatori quando i consulenti avvertirono il governo che, senza ricorrere al trade off, non sarebbe stato possibile mantenere il tasso di sostituzione mediamente generato dal sistema retributivo. In particolare, occorreva uno sconto dell’indicizzazione simile a quello che, tre anni dopo, sarebbe stato scelto dalla Svezia. Il governo fu altresì avvertito che uno sconto così robusto avrebbe aperto la strada a frequenti erosioni del potere d’acquisto delle pensioni. Ciò nonostante, prevalse il timore che l’inadeguatezza del tasso di sostituzione potesse pregiudicare l’approvazione della riforma, cosicché la scelta ricadde su uno sconto pari a 1,5 punti percentuali.

Nel periodo transitorio, l’indicizzazione al Pil (così chiamata per brevità) scontata di 1,5 punti avrebbe dovuto riguardare le pensioni contributive e le quote contributive delle pensioni miste, mentre le pensioni e quote retributive avrebbero mantenuto l’indicizzazione esistente. Mentre a via XX Settembre si valutava la viabilità sociale di tale dicotomia, da Palazzo Chigi arrivò l’indicazione di stare alla larga dalla palude dell’indicizzazione dove avrebbe potuto affogare l’irrinunciabile risultato raggiunto dal governo Amato tre anni prima. Per il lettore che avesse dimenticato tali lontani avvenimenti, nel 1992 la riforma Amato intervenne sulla cosiddetta ‘doppia indicizzazione’ abrogando quella ai salari reali e lasciando in vita la sola indicizzazione ai prezzi.

Pertanto, quest’ultima fu implicitamente estesa alle future pensioni contributive, benché calcolate da coefficienti maggiorati nel presupposto di un’indicizzazione al Pil scontata di 1,5 punti. Del paradosso resta traccia nella criptica nota (“tasso di sconto=1,5 per cento”) che, di revisione in revisione, compare imperterrita al piede della tabella dei nuovi coefficienti. Da allora nulla è cambiato. Le colonne (a) della tavola 1 mostrano le ingenti maggiorazioni di cui i coefficienti hanno immotivatamente beneficiato fra il 2010 e il 2026.

Le vie d’uscita

Dal paradosso si può uscire in tre modi: 1) accettando l’indicizzazione al Pil scontata di 1,5 punti, che consentirebbe di preservare la maggiorazione dei coefficienti ma esporrebbe il potere d’acquisto delle pensioni al grave rischio d’erosione che, dal 2010 al 2026, è dimostrato dalla prima riga della tavola 2; 2) mutuando la scelta norvegese di uno sconto pari a 0,75 punti, che ridurrebbe tale rischio come indica la seconda riga della tavola 2, ma consentirebbe di maggiorare i coefficienti nella ridotta misura indicata nelle colonne (b) della tavola 1; 3) optando per l’indicizzazione piena al Pil che, sul potere d’acquisto, produrrebbe i migliori effetti dimostrati dall’ultima riga della tavola 2 ma impedirebbe qualsiasi maggiorazione dei coefficienti.

Le prospettive

Lo stato confusionale in cui versa il sistema contributivo italiano appare destinato a lunga vita, protetto com’è dal duplice scudo dell’insostenibilità sociale delle vie d’uscita appena elencate e dell’indisponibilità della classe politica a impegnarsi nella faticosa comprensione dei tecnicismi accennati in quest’articolo.

Eppure, i nostalgici del sistema retributivo devono comprendere che l’era delle regole semplici è tramontata, e che le turbolenze economiche e le mutazioni demografiche impongono meccanismi, inevitabilmente complessi, capaci di fronteggiarle. Ne sono esempi non solo l’Ndc ma anche le altre forme che i sistemi pay‑as‑you‑go vanno assumendo nel mondo, fra le quali i meccanismi “a punti” francese e tedesco.

Tavola 1 – maggiorazione percentuale dei coefficienti di trasformazione dal 2010 al 2026 sotto tre ipotesi di indicizzazione al Pil

Tavola 2 – variazione percentuale del potere di acquisto delle pensioni contributive dal 2010 al 2026 sotto tre ipotesi di indicizzazione al Pil

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