Tre riletture del Protocollo Ciampi da parte di autorevoli interpreti delle relazioni industriali in Italia (Carlo Dell’Aringa, Paolo Garonna e Ida Regalia). Hanno tutte il pregio di guardare in avanti e di prendere posizione, anche se non sempre queste posizioni sono fra di loro convergenti. E un intervento di Tito Boeri e Pietro Garibaldi che chiarisce alcuni equivoci sul decentramento della contrattazione in Italia
In questi dieci anni , luglio 1993- luglio 2003, le retribuzioni sono aumentate poco in termini reali ( se si fa il confronto con i periodi precedenti), così come è aumentata poco la produttività del lavoro.La quota delle retribuzioni nel valore aggiunto è diminuita, soprattutto nei settori dei servizi, protetti dalla concorrenza internazionale. Quel poco di crescita che vi è stata, si è trasformata quasi tutta in aumento di occupazione. Nel frattempo l’inflazione è diminuita ai livelli necessari per entrare nell’Euro. LA MODERAZIONE SALARIALE Nonostante manchino a tutt’oggi, precise e rigorose analisi economico-statistiche, il quadro succinto sopra delineato, insieme ad altre informazioni di vario tipo, sembrano confermare l’opinione, molto diffusa, che in questi dieci anni , i sindacati hanno moderato alquanto le loro rivendicazioni , più di quanto sarebbero stati comunque costretti a fare sulla base delle cattive condizioni del mercato del lavoro degli inizi degli anni novanta . Si è trattato di una scelta precisa , fatta in occasione del Patto del luglio 1993 e con l’intenzione di facilitare il raggiungimento di quegli obiettivi di contenimento dell’inflazione e di aumento dell’occupazione , che di fatto sono stati raggiunti. Le ragioni che spinsero parti sociali e governo a quella firma, restano tuttora valide. Il tasso di occupazione è tuttora il più basso in Europa e per di più permane un differenziale di inflazione che, per quanto piccolo, può recare, alla lunga, danni seri al grado di competitività della nostra economia. Attraverso concertazione, o dialogo sociale che sia, ciascuno facendo il proprio mestiere, è comunque essenziale che quella moderazione delle rivendicazioni non venga assolutamente meno. Come Continuare a Creare Posti di Lavoro? Ma esiste un problema ulteriore di cui si discute da tempo ormai ed esso riguarda l’opportunità di finalizzare meglio i contenuti di quel Patto agli obiettivi che fanno parte della strategia per l’occupazione della Comunità Europea . La strategia elaborata al Consiglio di Lisbona invita tutti i Paesi membri a creare “more and better jobs”. Non solo quindi una quantità maggiore , ma anche una qualità migliore di posti di lavoro, il che significa aumentare sia l’occupazione che la produttività, perché solo da quest’ultima si possono ottenere migliori salari e migliori condizioni di lavoro. Le Differenze tra Paesi Questo obiettivo va graduato in relazione alle condizioni dei mercati del lavoro nazionali. Vi sono alcuni Paesi dove i tassi di occupazione sono molto elevati, e hanno già raggiunto e , in certi casi superato, l’obiettivo del 70% indicato a Lisbona. L’occupazione può sì ancora aumentare , ma non vi è dubbio che la crescita futura dovrà essere alimentata soprattutto da crescita della produttività. In altri Paesi l’occupazione è ancora molto bassa e , per qualche tempo ancora, gli sforzi per aumentarla devono essere molto sostenuti. E a questi Paesi , fra cui l’Italia, si aggiungono quelli che entreranno nella Comunità l’anno prossimo, che hanno ancora problemi enormi di insufficiente “quantità” di posti di lavoro, necessari per ridurre disoccupazione e lavoro nero. Ma le differenze territoriali non si fermano alle differenze fra Paesi. Sono molto forti, all’interno di Paesi come Spagna, Germania, Belgio e soprattutto Italia, le differenze fra regioni. Alcune regioni di questi Paesi sono già molto sviluppate e hanno raggiunto livelli di occupazione, simili a quelli di alcuni piccoli Paesi del Nord Europa, che vengono spesso indicati come esempi per tutti gli altri.Qui i problemi di quantità di posti di lavoro sono quasi tutti risolti ( al di là dei problemi di carattere congiunturale). Vi sono invece altre regioni che presentano situazioni che sono simili a quelle dei nuovi Paesi dell’Est Europa che stanno per entrare nella Comunità. Qui il problema di creare posti di lavoro aggiuntivi è tuttora dominante; creare più posti è lo strumento principale per assorbire disoccupazione e per avvicinare il reddito pro-capite alla media europea. Disparità Regionali e Contrattazione a Livello Locale Questo è il motivo per cui la Comunità ogni anno, nelle raccomandazioni che invia agli Stati membri , invita con insistenza a risolvere il problema delle disparità regionali, che deve essere affrontato con la messa in campo di una pluralità di politiche ( aiuti agli investimenti, infrastrutture , mobilità dei fattori produttivi, riduzione dei costi burocratici per la nascita di nuove imprese, maggiore cultura di impresa, ecc. ecc.) e fra questi strumenti indica anche una politica salariale che tenga conto dei diversi livelli di produttività e delle diverse condizioni dei mercati locali del lavoro. Quest’ultimo invito è rivolto soprattutto alle parti sociali , proprio perché nei Paesi in cui questi problemi si pongono sono quelli in cui il sistema della contrattazione delle retribuzioni è tuttora molto centralizzato. Questo è un invito, indiretto, a rendere più flessibile l’Accordo sul costo del lavoro del 1993. Continuare la moderazione salariale con le stesse modalità di questi ultimi dieci anni, può essere persino problematico per gli stessi sindacati. Le recenti vicende contrattuali, al di là dei contenuti prettamente politici che hanno caratterizzato i negoziati, sembrano suggerire che difficoltà di questo tipo potrebbero presentarsi in futuro. Non si può escludere che in aree territoriali a livelli di quasi pieno impiego, si manifestino forti aspirazioni ad aumenti del potere di acquisto delle retribuzioni e ad un miglioramento del tenore di vita. A queste aspirazioni il mondo delle imprese deve rispondere con investimenti e capacità innovative. In altre regioni del Paese la disoccupazione , aperta o nascosta che sia, è tuttora a livelli insopportabili. In Calabria il tasso di disoccupazione è più alto di ben 25 punti percentuali rispetto a quello del Trentino Alto Adige, e 25 punti percentuali sono circa tre volte il tasso di disoccupazione medio dell’intera economia . Come si vede situazioni alquanto diverse che richiedono priorità di “policy” altrettanto diverse. Le disparità regionali rappresentano uno dei principali problemi del nostro Paese e spetta ai governi cercare di risolverlo. Le parti sociali possono però dare il loro contributo, se quella prospettiva di intenti comuni che aveva caratterizzato il Patto del 1993 non viene abbandonata , ma anzi rafforzata per vincere le resistenze al cambiamento e affrontare i necessari processi di riforma. Il Patto del 1993 va rivisto per rendere più flessibile la contrattazione collettiva sul territorio, con una base di condizioni minime ed essenziali comuni a livello nazionale, e per il resto finalizzata alla soluzione dei problemi delle diverse realtà locali. Del resto ormai si fa così anche con la politica del lavoro che il governo della passata legislatura ha definitivamente consegnato alla competenza delle Regioni e delle Province.
Il modello italiano
L’eredità del Patto del 1993 consente di rilanciare il modello italiano dei patti sociali nelle nuove condizioni economiche e politiche del 2003. La “nuova concertazione” tuttavia si distingue nettamente dalle esperienze precedenti: essa deve essere di tipo europeo per le sue caratteristiche e per la visione di riequilibrio strutturale e di integrazione economica internazionale che propone.
Le prospettive economiche.
Il confronto con il 1993 parte dalle prospettive economiche: nel 1993 siamo all’inizio di una fase di crescita economica sostenuta tirata dagli USA e dalla “new economy”. In Europa l’attenzione é centrata sul mercato unico, sull’UEM e sulle condizioni per l’allargamento. In Italia l’enfasi è sulle politiche di disinflazione, risanamento finanziario e consolidamento fiscale. Oggi, ci troviamo di fronte a rischi di recessione, squilibri dell’economia internazionale, difficoltà dell’Europa a fare da locomotiva e crisi di competitività e di investimenti nell’economia italiana. Nella fase precedente il 1993, il disavanzo delle partite correnti americane era stato riportato in equilibrio grazie alla “concertazione” del Plaza e alla forte rivalutazione di marco e yen. L’Europa ne pago’ il prezzo con la rottura dello SME e le crisi finanziarie dei paesi a moneta debole, tra cui l’Italia. Oggi l’economia europea, e ancor piu’ quella giapponese, hanno vincoli strutturali alla crescita e non paiono in grado di tenere una forte rivalutazione del cambio; l’Asia e la Cina non fanno la loro parte, e quindi c’è il rischio che l’aggiustamento dell’economia americana si realizzi con un impatto sulla crescita dell’economia mondiale. Una recessione globale avrebbe un’incidenza drammatica sugli squilibri Nord-Sud, che permangono gravi e che minacciano anche la sicurezza nei paesi industrializzati. L’Italia è particolarmente esposta in rapporto ai problemi aperti nei Balcani, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Est europeo. Un patto sociale in Europa potrebbe dare un segnale importante di riforma e di ripresa degli investimenti con incidenza positiva sulle aspettative, la fiducia delle famiglie e delle imprese. L’Italia potrebbe svolgere un ruolo di avanguardia in questo campo, non solo per le sue responsabilità di presidenza dell’UE, ma anche per la sua esperienza nel dialogo sociale. Occorre pero’ che nel patto siano coinvolti (direttamente o implicitamente) anche Ecofin e BCE.
I temi e i contenuti della nuova concertazione.
L’economia italiana si trova nel pieno dell’aggiustamento all’Euro e alle nuove condizioni che impone per i recuperi di produttività. I temi percio’ del dialogo sociale sono diversi da quelli del 1993: allora occorreva focalizzarsi sulla moderazione salariale, sulla struttura dei costi e della contrattazione, sulla riqualificazione del personale e la ristrutturazione dei processi produttivi. Oggi, piu’ che sulla “svalutazione interna”, occorre puntare invece sull’innovazione, la qualità dei prodotti e dei processi, la compatitività di sistema, le reti e le tecnologie, le infrastrutture, i servizi pubblici, la ricerca, ecc.
Il significato del Patto per le relazioni industriali.
La rivisitazione del Patto del 1993 in rapporto a quelli che lo precedono e lo seguono consente di definire un “modello italiano” di dialogo sociale. Esso non è riconducibile nè al modello neo-corporativo dell’Europa continentale, nè a quello neo-contrattualista dell’esperienza anglosassone. Esprime invece un modello originale di partecipazione, che allarga i confini della democrazia parlamentare e rende piu’ efficaci i meccanismi di “governance”.
I soggetti coinvolti.
La caratteristica fondamentale di questo modello di dialogo sociale è il pluralismo e il multilateralismo. Si contrappone percio’ nettamente al bilateralismo rigido della tradizione nordica e al tripartitismo neo-corporativo. Esso riflette d’altronde l’articolazione della struttura industriale e la complessità della società italiana. Nella cultura delle relazioni industriali del nostro Paese inoltre conta non solo la rappresentanza, ma anche la rappresentatività, e quindi l’ambizione a portare nella concertazione anche interessi generali, compresi quelli degli outsiders.
Il rapporto con il sistema politico.
Nel passato la concertazione ha svolto funzioni di supplenza rispetto alla debolezza degli esecutivi, alla democrazia bloccata, alla mancanza di alternanza. Oggi, il dialogo puo’ rappresentare l’espressione della maggiore stabilità politica, complemento e arricchimento della dialettica tra le forze politiche, strumento di partecipazione della società civile e delle forze produttive ai processi decisionali delle istanze democratiche. Il Patto sociale percio’ non si sovrappone, nè spiazza i Patti elettorali e la dialettica democratica tra maggioranza e opposizione. Non lede l’autonomia e la responsabilità dei diversi interlocutori (governo, parti sociali, organizzazioni non-governative) che restano responsabili dei loro processi decisionali.
Non conta solo il risultato, conta anche il processo.
Nel passato la vecchia concertazione ha dato importanza eccessiva agli aspetti formali, ai risultati cartacei, alla lettera degli accordi (che poi sono talora restati lettera morta). La “nuova concertazione” non è semplice strumento, ma deve essere fine in sè, modus operandi della economia e della politica della conoscenza. L’economia della conoscenza ha cambiato in profondità i termini del conflitto industriale.
Il dialogo sociale in Europa.
Questa interpretazione è coerente con i risultati cui giunge il Rapporto sul dialogo sociale in Europa della Commissione Rodriguez. Riflettendo sulla esperienza, sinora molto deludente, del dialogo sociale in Europa, la Commissione insiste sulla necessità di incidere sulla qualità dei processi, propone il metodo della “open coordination”, che ha già dato buoni frutti in altri campi della politica europea, indica la strada del benchmarking e degli indicatori per ancorare il dialogo alla concretezza e alla misurazione dei risultati raggiunti, e soprattutto punta sulla “peer pressure”, allo stimolo di miglioramento continuo e reciproco che viene dal confronto leale e reale sulle idée.
*Questo saggio è tratto dalla relazione presentata al Convegno su: “Politica dei redditi e coesione sociale a dieci anni dal Patto del 1993”, che si è tenuto presso la Camera dei Deputati il 23 luglio 2003.
Il patto triangolare del luglio 2003
Nella storia recente delle relazioni di lavoro nel nostro paese, la ripresa della concertazione negli anni novanta, e in particolare il patto triangolare del 23 luglio 1993, sono stati visti come l’inizio di una nuova stagione in cui venivano superati molti dei tratti caratteristici della tradizione precedente: i) basso grado di regolazione e formalizzazione (o l’elevata informalità) delle procedure e delle relazioni tra una pluralità di attori, peraltro molto organizzati; ii) scarsa stabilità e prevedibilità quindi delle prassi e frequente ricorso al conflitto come modo per ridefinire l’equilibrio dei rapporti di forza e insieme per rafforzare il seguito delle organizzazioni di rappresentanza; iii) oscillazione frequente e disordinata tra centralizzazione e decentramento delle relazioni tra le parti e della contrattazione collettiva, senza chiara distinzione delle competenze dei diversi livelli; iv) difficoltà infine di attuare intenzionalmente strategie di razionalizzazione e riforma: processi di riorganizzazione in realtà avvenivano, e spesso in modo concordato, ma secondo modalità informali, pragmatiche, poco visibili e socialmente riconoscibili.
Come effetto dei patti, e in particolare dell’accordo triangolare di 10 anni fa, le relazioni di lavoro sono infatti andate in una direzione di i) maggior formalizzazione ed esplicita definizione di criteri di riferimento condivisi, di regole e procedure per la rappresentanza e per la composizione concordata del conflitto distributivo (politica dei redditi agganciata al tasso di inflazione programmata); ii) maggior prevedibilità delle prassi e maggior coordinamento di obiettivi e risultati, con una diminuzione sensibile del ricorso al conflitto; iii) affermazione di una struttura negoziale bipolare più ordinata, in cui si compongono un livello centralizzato e un livello decentrato, caratterizzati dal principio della specializzazione delle competenze; iv) avvio di una serie significativa di riforme (del pubblico impiego, delle pensioni, del mercato del lavoro) con la partecipazione delle parti sociali.
Un bilancio dieci anni dopo
Tentando un bilancio a un decennio di distanza, si può dire che in linea di massima la riorganizzazione e il riequilibrio delle relazioni industriali hanno avuto successo. A livello di performance generale del sistema, in base a dati di ricerca è stato osservato che l’accordo ha contribuito alla moderazione salariale degli anni novanta, facilitando il riequilibrio dei conti economici, ma permettendo d’altro canto di difendere il potere d’acquisto dei salari; che i differenziali retributivi tra settore manifatturiero e settori protetti (amministrazione pubblica e servizi di pubblica utilità) si sono ridotti; che il livello dei profitti nel corso del decennio è aumentato anche per l’aumento contenuto del costo del lavoro che è cresciuto meno della produttività; e che la moderazione salariale ha contribuito infine a stabilizzare l’occupazione nella prima metà degli anni novanta e a favorirne poi l’aumento.
E tuttavia il consolidamento del sistema si è rivelato più fragile del previsto. Da un lato sono venuti meno o si sono attenuati i fattori che avevano concorso al successo della concertazione centralizzata, primi tra tutti i condizionamenti che derivavano dalla partecipazione al processo di integrazione europea da una posizione iniziale di forte svantaggio, sul piano dell’inflazione e dei conti pubblici, rispetto a quella di altri paesi. L’ingresso nell’unione monetaria ha radicalmente ridotto infatti la portata della lotta all’inflazione come obiettivo unificante. Le osservazioni di Tito Boeri e Giuseppe Bertola su lavoce.info del 10 ottobre scorso circa la scarsa utilità oggi del tasso di inflazione programmata sono molto pertinenti.
Dall’altro, una volta usciti dalla situazione dell’emergenza, sono riemersi i limiti di relazioni di lavoro ancora non sufficientemente istituzionalizzate, in quanto largamente affidate alla logica dell’intesa tra le parti e non invece a meccanismi in qualche modo indipendenti dalla loro buona disposizione. Un risultato è stato l’affievolirsi dell’interesse alla cooperazione, via via che una o più parti – organizzazioni degli imprenditori o sindacati o governo – scorgevano l’opportunità di ottenere a breve vantaggi, materiali o simbolici, per altra via, come segnalato dalla ripresa di accordi e scioperi separati, o dall’affermarsi dell’idea che sia sufficiente cercare l’accordo “con chi ci sta”. Un altro risultato è stato l’insufficiente consolidamento delle strutture di rappresentanza in azienda: chi scrive è tra coloro che fin dall’inizio hanno pensato che l’accordo interconfederale del dicembre 1993 non fosse sufficiente e fosse invece opportuno dotarsi di una legge leggera in materia, per dare certezze ai comportamenti delle parti nei luoghi in cui si lavora eliminando i rischi di colpi di mano o i veti paralizzanti, così da facilitare uno sviluppo equilibrato della contrattazione di secondo livello. Ma questo è un tema che ci porterebbe lontano.
La vittoria elettorale dell’attuale governo di centrodestra nel 2001 è diventata infine l’occasione per cercare di rimettere in discussione molti degli elementi su cui si era ridefinito l’equilibrio precedente.
Le modifiche necessarie
Fin qui una sintesi stilizzata di un periodo in realtà molto denso di innovazioni e mutamenti; di un periodo che appunto per questo appare forse più lungo dei dieci anni che sono passati da quell’accordo di luglio, salutato subito come pietra miliare di un nuovo sistema di relazioni industriali e che oggi tutti o quasi si affrettano a dire che occorre modificare, o senz’altro superare.
In proposito vorrei aggiungere qualche riflessione, un po’ alla rinfusa e limitandomi ad alcuni aspetti che riguardano più propriamente la logica delle relazioni tra le parti.
Intanto c’è la questione di fondo se sia opportuno o meno disporre di un sistema bipolare di contrattazione. Il tema era emerso già cinque anni fa, quando la Confindustria aveva chiesto di superare la supposta “anomalia” italiana del doppio livello negoziale. Com’è noto, non se n’era fatto nulla e nel Patto di Natale del 1998 il sistema bipolare era stato confermato. La ragione più immediatamente convincente per conservare un doppio livello negoziale è quella che è arduo optare per un unico livello centralizzato o, come probabilmente parrebbe più opportuno, decentrato quando si ha di fronte un sistema produttivo che vede poche grandi aziende e un amplissimo tessuto di aziende piccole e piccolissime. Anche in un recente convegno a Modena a marzo di quest’anno, l’argomento è stato realisticamente ribadito dai rappresentanti della Confindustria.
I vantaggi di un sistema bipolare
Ma ci sono altre ragioni, forse un po’ meno evidenti, che riguardano i vantaggi, oltre che gli svantaggi, di tenere aperti con opportuna delimitazione e chiarificazione delle competenze entrambi i livelli.
Incominciando dai vantaggi del livello della contrattazione centralizzata o di tipo generalizzante, per le imprese di un settore, o comparto con caratteristiche produttive omogenee coordinare attraverso la contrattazione collettiva prezzo e condizioni d’uso del fattore lavoro è un modo relativamente conveniente di evitare o ridurre i rischi di una concorrenza sleale, o i costi di una competizione senza sponde. Come suggeriscono ricerche recenti, è significativo che persino negli ambienti britannici, in cui è venuta meno l’opportunità del coordinamento attraverso il contratto multi-employer, se ne cerchino, potremmo dire, dei sostituti funzionali. Ne sono degli esempi il monitoraggio ricorrente delle relazioni di lavoro, gli scambi di informazione fra le parti sociali nei policy networks in cui esse continuamente si incontrano, la retorica e la prassi del benchmarking, la creazione di authorities o di comitati misti competenti su specifici aspetti delle condizioni d’impiego: anche in un caso come questo il settore continua in realtà a essere punto di riferimento indispensabile per la definizione delle condizioni d’impiego del lavoro. Nel caso del nostro paese, nell’ultimo decennio il contratto nazionale di categoria non solo si è confermato, per il suo amplissimo grado di copertura, come il più adatto a definire le condizioni minime di impiego; ma si è rivelato anche in grado di aumentare e aggiornare le valenze virtuose del coordinamento centralizzato (si vedano le tendenze all’armonizzazione e unificazione dei contratti, alla riduzione della loro frammentazione, e, sia pur timidamente, alla creazione di nuovi contratti per regolare le condizioni d’impiego di nuovi settori e nuove forme d’impiego, come nel caso delle agenzie di lavoro temporaneo, o degli addetti delle società di ricerche di mercato).
Molti sono d’altro lato i vantaggi della contrattazione collettiva decentrata, in quanto metodo regolativo particolarmente coerente con i problemi che le imprese e le economie locali devono affrontare in un contesto molto meno prevedibile di un tempo, e in cui è aumentato d’importanza l’obiettivo della competitività. Nel nuovo mondo di molti lavori e molte posizioni lavorative che ne deriva, negoziare a livello decentrato permette non solo di far partecipare i lavoratori agli incrementi di produttività, ma soprattutto di definire in modi sperimentali e adattivi regole condivise più vicino a dove sorgono i problemi, e quindi di tener meglio in conto di particolarità e specificità, con possibili effetti virtuosi sia per la competitività delle imprese, sia per la tutela del lavoro.
Gli aspetti critici da rivedere
Se continua dunque a essere opportuno disporre di un sistema negoziale a due livelli, che permette sia di coordinare e armonizzare le condizioni minime, sia di definire in modo congiunto aspetti rilevanti delle effettive condizioni d’impiego del lavoro nei casi concreti, ci sono tuttavia almeno due aspetti critici da rivedere. Uno è quello dell’equilibrio tra i livelli. L’altro è l’evidente necessità di ripensare al secondo livello,, per sfruttarne meglio le potenzialità positive per entrambe le parti.
Dal primo punto di vista la direzione dovrebbe essere quella di imboccare in modo più deciso la logica del decentramento coordinato, od organizzato, quella che si rivela particolarmente proficua nel contesto delle economie coordinate di mercato tipiche della gran parte dei paesi europei. Ciò significa salvaguardare il ruolo d’impostazione e generalizzante dei contratti nazionali, alleggerendone la funzione normativa, e ampliare di conseguenza le competenze di merito della contrattazione decentrata.
Ma questo introduce subito l’altro aspetto: quello che occorre ovviare al fatto che la contrattazione di secondo livello è rimasta ancor poco diffusa. A mio avviso, ciò non significa affatto pensare tuttavia di semplicemente generalizzare il modello della contrattazione aziendale delle imprese medio-grandi. E non solo perché questa estensione si rivelerebbe irrealistica nel caso delle imprese più piccole. Ma anche perché di questo livello decentrato credo si debbano valorizzare molto più esplicitamente di quanto non avvenga oggi almeno in base a quanto emerge nelle discussioni tra le parti le capacità di definire le soluzioni più appropriate alle caratteristiche del contesto locale in tema di orario, organizzazione del lavoro, formazione, servizi e welfare aziendale e locale, ecc.. è attraverso la rivalutazione delle potenzialità di questo livello come quello adatto alla gestione concordata degli aspetti critici e delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro che si possono individuare le soluzioni (contrattazione territoriale, d’area, di distretto, di sito…) adatte anche alle imprese minori senza gravarle di oneri impossibili.
La riflessione che suggerisce il decennale dell’accordo di luglio sembrerebbe portarci più verso la direzione di uno sviluppo e di un affinamento della logica del patto che di una sua radicale revisione.
Ma questo presuppone che sia sempre vivo l’interesse di tutti per il metodo negoziale in quanto metodo di composizione di problemi e controversie e definizione di norme di tipo soft, interattivo, aperto: un metodo basato sulla ricerca e il raggiungimento dell’accordo tra parti con interessi distinti, attraverso la disponibilità a costruire con intelligenza, anche per prove ed errori e successive verifiche e riaggiustamenti, soluzioni temporanee, a termine, ma con valore normativo e che impegnano i partecipanti. Ed inoltre per la logica della concertazione come quadro definito entro cui il metodo negoziale può svilupparsi in modo fluido e costruttivo.
Temo che ciò non possa facilmente avvenire senza un ripensamento anche alle regole di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni degli interessi, oltre che ai modi di intervento del terzo attore.
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi
La disinformazione
Il problema numero uno del nostro mercato del lavoro è il divario fra un Nord in cui mancano i lavoratori e un Mezzogiorno in cui mancano i lavori. Per questo motivo, mentre si celebrava il decennale del protocollo Ciampi, diverse voci si sono levate per un maggiore decentramento della contrattazione nel nostro paese. Il decentramento dovrebbe tenere conto dei profondi differenziali di produttività fra imprese e aree geografiche. Fra queste voci anche quella del Fondo Monetario che, al termine della sua missione in Italia, ha incoraggiato “le parti sociali ad assicurare che i salari riflettano in modo più adeguato i differenziali di produttività fra regioni e gruppi di lavoratori”. Messaggio passato in secondo piano dal TG1 che ha riportato spassionati elogi del Fondo Monetario alle riforme del mercato del lavoro varate da questo Governo, che avrebbero creato molti posti di lavoro. Nessuna traccia di questo passo nel documento lasciato al Governo italiano dalla delegazione. Non a caso; la cosiddetta “riforma Biagi”, più precisamente il decreto n.30, non è ancora entrata in vigore e, quindi, non può aver creato posti di lavoro.
Quesiti ricorrenti
Ma torniamo alla proposta di decentrare la contrattazione e poniamoci due domande volte a chiarire alcuni equivoci ricorrenti e a porre in termini corretti il confronto:
1. Decentrare la contrattazione significa ripristinare le cosiddette “gabbie salariali”?
2. Quanto rilevanti sono i divari di produttività fra Nord e Sud nel nostro paese?
3. Posto che sia desiderabile, può il Governo fare qualcosa per incoraggiare il decentramento della contrattazione?
L’incubo delle gabbie
Contrariamente a quanto riportato da diversi giornali, né il documento del Fondo Monetario, né le tesi favorevoli al decentramento della contrattazione di settori del Sindacato e studiosi di relazioni industriali fanno riferimento alle cosiddette “gabbie salariali”, i rigidi differenziali retributivi per macro aree geografiche contemplati dagli accordi interconfederali dei primi decenni del Dopoguerra.
Decentrare la contrattazione non significa neanche necessariamente smantellare la struttura della contrattazione a due livelli uscita dall’accordo del luglio 1993. Un allargamento dei ventagli retributivi fra regioni può essere ottenuto anche solo allargando la portata del secondo livello di contrattazione, il livello aziendale — che attualmente incide in media per poco più del 3-4 per cento della retribuzione per gli operai — e ampliando ulteriormente le esperienze di contrattazione territoriale avviate nell’ambito della programmazione negoziata. Molti paesi della UE hanno, del resto, avviato in questi anni processi di “decentramento controllato” della contrattazione in cui si mantiene in vita la contrattazione nazionale, ma si contemplano “clausole d’uscita”, deroghe ai minimi contrattuali capaci di tenere conto della minore produttività del lavoro in specifiche imprese o regioni, come ad esempio ampiamente avvenuto nel caso della Germania Est. Il problema, tuttavia, è che col doppio livello i datori hanno pochi incentivi a condurre la contrattazione decentrata (perché ha solo un “effetto sommatoria”: aggiunge incrementi salariali a quelli nazionali). E’ non è forse un caso che nella relazione di Antonio D’Amato all’ultima assemblea di Confindustria il termine “decentramento della contrattazione” non trovi cittadinanza alcuna. Il sindacato, dal canto suo, non sempre ha la forza per imporre contratti decentrati. Infatti oggi solo circa il 10% delle imprese (il 25% tra quelle con più di 10 addetti) attua un secondo livello di contrattazione. Pochissime le imprese coinvolte nel Mezzogiorno.
L’entità delle differenze nel costo del lavoro per unità di prodotto
L’Indagine sulla struttura delle retribuzioni — condotta dall’Istat secondo gli standard comunitari e finalmente in grado di rilevare i salari effettivi anzichè quelli formalmente stabiliti dal contratto di categoria — mostrano che nel comparto manifatturiero i salari al Sud sono mediamente inferiori di circa il 9 per cento alla media nazionale. Questo a fronte di una produttività del lavoro nel Mezzogiorno di circa un quinto (attorno ai 19 punti percentuali) inferiore alla media, il che significa un aggravio del costo del lavoro per unità di prodotto al Sud di circa il 10 per cento rispetto al resto del paese.
Non è tutto. Il processo di determinazione dei salari in Italia non sembra tenere conto dei divari nelle condizioni del mercato del lavoro. Come documentato da Pellizzari e Hernanz, da noi non c’è una vera e propria “curva dei salari”: la relazione fra disoccupazione e salari è piatta, anziché essere decrescente come negli altri paesi, dove i salari sono più bassi nelle regioni ad alta disoccupazione. Una volta che si tenga conto delle differenze strutturali nei mercati del lavoro nelle diverse regioni, anche quei modesti divari retributivi di cui sopra scompaiono.
Non c’è perciò da stupirsi se il sommerso è concentrato nel Mezzogiorno: un quinto delle posizioni lavorativi al Sud sono irregolari contro meno del 10% (si tratta tra l’altro soprattutto di immigrati) al Centro-Nord.
Può il Governo aiutare il decentramento?
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