Nel decreto legislativo di riforma del lavoro tocca il suo culmine la tendenza a delegare funzioni paralegislative alle parti sociali. Ma quali sono le conseguenze dell’ormai inestricabile intreccio tra legge e contrattazione collettiva? Al di là di incoerenze ed equivoci, bisognerebbe distinguere tra concertazione, intesa come forma di cooperazione tra pubblico e privato-collettivo, e contrattazione collettiva, che è invece una manifestazione dell’autonomia negoziale privata. E alla luce di questa distinzione andrebbe affrontato il problema della riforma delle regole della rappresentanza sindacale.

La “riforma Biagi” contiene numerosi paradossi. Il più segnalato finora è quello dell’apparente sfavore per i rapporti di lavoro parasubordinati (vedi il dibattito su lavoce.info).
Vorrei qui segnalarne un altro, di ben più ampia portata, anche culturale: riguarda il ruolo del sindacato nel disegno riformatore.
Con il decreto legislativo n. 276/2003 la ormai ventennale tendenza legislativa a delegare funzioni paralegislative alle parti sociali ha toccato il culmine: in questo provvedimento si ritrovano una sessantina di rinvii alla contrattazione collettiva.

A che servono i rinvii

I rinvii servono a integrare previsioni legislative incomplete (per esempio, in tema di lavoro ripartito, l’articolo 43 del Dlgs n. 276/2003), oppure a derogare a tali previsioni in direzione di una maggiore “flessibilità” della disciplina del rapporto di lavoro.
Non mancano previsioni di sapore sadomasochistico, come quelle che rimettono ai contratti collettivi la definizione dei periodi durante i quali è preclusa la possibilità di introdurre limitazioni quantitative al ricorso al lavoro temporaneo (vedi l’articolo 10 e l’articolo 20 del Dlgs n. 276/2003).
Talvolta il dono dei Danai è reso necessario, e ben accetto alle Minerve sindacali, proprio dall’irragionevolezza della norma: esemplare, in proposito, è la previsione della “transizione” graduale dalle vecchie “co.co.co.” al “lavoro a progetto”, affidata a provvidenziali accordi aziendali (articolo 86, comma 1 del Dlgs n. 276/2003).
Non sono rare, infine, le ipotesi in cui il “rinvio” è del tutto inutile, poiché la norma non attribuisce alle parti sociali alcun potere che esse già non detengano in virtù del generale principio di libertà negoziale privata: per esempio, quando si dice che i contratti collettivi “possono determinare condizioni e modalità della prestazione lavorativa” nel rapporto di lavoro a tempo parziale (articolo 1, comma 3 del Dlgs n. 61/2000, confermato, sul punto, dall’articolo 46 del Dlgs n. 276/2003).

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L’integrazione tra legge e contratto collettivo

Beninteso, il processo di stretta integrazione tra legge e contratto collettivo ha serie ragioni di ordine sociale e istituzionale, per la necessità di individuare forme di regolazione che consentano di conciliare la crescente complessità delle società moderne con la coesione sociale. La ricetta è individuata nel cosiddetto “diritto riflessivo“, ossia nella previsione di meccanismi di produzione delle regole giuridiche che siano “consensuali” e provengano “dal basso”.
Perché ciò non comporti, però, il completo assorbimento della libertà negoziale e dell’autonomia sociale, sarebbe necessario distinguere le ipotesi in cui le parti sociali operano in virtù di una delega da parte del legislatore, da quelle in cui esercitano la propria autonomia e libertà negoziale.

È invece molto diffusa, e trasversalmente, l’idea secondo cui la distinzione tra libertà (private) e funzioni (pubbliche), contratti e norme, privato (anche collettivo) e pubblico, politico e sindacale, non avrebbe ormai più senso. In questa prospettiva, la contrattazione collettiva cessa di essere espressione di autonomia e diventa vincolo imposto dall’esterno.
E il sindacato, da organizzazione che era, diventa istituzione.

Il problema della rappresentanza

Un’istituzione democratica esige meccanismi di produzione della norma ispirati alla regola maggioritaria. È dunque coerente la pressante richiesta della sinistra sindacale di introdurre una disciplina legale della rappresentanza, che dia attuazione all’articolo 39 della Costituzione, ridisegnando il diritto sindacale alla luce del principio maggioritario, sì da chiarire, finalmente, “chi sia legittimato a decidere e come si misuri la rappresentanza”.
Appare poco coerente, invece, il Governo di centro-destra, che pretende di far vivere il suo progetto di compenetrazione tra la legge e la contrattazione collettiva all’ombra del totale astensionismo legislativo in materia di disciplina della rappresentanza sindacale, proclamato nel “Libro bianco”.

Ma da questo equivoco non si esce con successo se si resta invischiati nella prospettiva culturale di cui lo stesso Governo è prigioniero: per un verso, a causa della lettura cripto-corporativa del principio di sussidiarietà, che lo porta a concepire il sindacato come ente necessario e funzionalizzato, e per l’altro, per l’improprio riferimento al modello del “dialogo sociale” comunitario, in cui il “partenariato sociale” è strumento di supporto a un rule-making process che soffre di uno strutturale deficit democratico sul versante politico.
Proprio il modello del “dialogo sociale” comunitario, che vorrebbe essere la risposta liberal alla concertazione dirigista, è una forma di democrazia politica procedurale, che ha poco a che fare con un autentico “ordinamento intersindacale”.
Anche a questo proposito il Libro bianco “equivoca”, focalizzando il falso obiettivo della presunta differenza tra “concertazione” e “dialogo sociale”. Mentre la distinzione da farsi sarebbe quella tra la concertazione (alias “dialogo sociale”), intesa come forma di cooperazione tra pubblico e privato-collettivo, e la contrattazione collettiva, che è invece una forma di manifestazione dell’autonomia negoziale privata, in virtù della quale le parti sociali esercitano poteri propri, senza che sia necessario alcun rinvio a opera della legge.

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È alla luce di tale distinzione che bisognerebbe affrontare il problema della riforma delle “regole della rappresentanza sindacale”.
Ma da una prospettiva siffatta il problema presenta connotati alquanto diversi rispetto a quelli usuali nel dibattito politico-sindacale.
Non si tratta, infatti, di decidere se sia meglio una disciplina legale o negoziata. E non si tratta nemmeno di stabilire regole per la misurazione della rappresentatività, che valgano per decidere “chi contratta e per chi”: come accade nel pubblico impiego “contrattualizzato”.

Si tratta, invece, di fissare criteri per l’individuazione dei soggetti collettivi coi quali instaurare pratiche concertative e di dialogo sociale: e a tal fine la sperimentata nozione di “maggiore rappresentatività” (sia pure nella innocua variante della “rappresentatività comparativamente maggiore”) conserva intatta la sua idoneità selettiva.
Si tratta anche di conciliare l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi con il pluralismo sindacale imposto dall’articolo 39 Costituzione: sarebbe incompatibile con tale principio la sottrazione della libertà di contrattazione collettiva a sindacati (datoriali e dei lavoratori) che, pur essendo genuina espressione di gruppi più o meno numerosi di lavoratori, non siano annoverabili tra quelli “rappresentativi” negli ambiti e secondo i criteri (inevitabilmente) stabiliti dalla legge.

 

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