Nonostante la recente accelerazione, il valore della retribuzione contrattuale media del 2004 è ancora inferiore di 2,9 punti percentuali rispetto a quello del 1992. Nel quadro delle regole definite dal Protocollo del 1993, la perdita di ruolo economico della retribuzione di primo livello non sarebbe motivo di preoccupazione. Ma la contrattazione decentrata non è decollata, se non nelle imprese manifatturiere medio-grandi del Centro-Nord. E la dinamica delle retribuzioni di fatto avvalora le diffuse percezioni di impoverimento (relativo) di operai e impiegati.

Dopo gli Accordi di luglio 1992 e luglio 1993 la dinamica delle retribuzioni italiane è stata estremamente moderata e la “questione salariale”, che ha tormentato a lungo la nostra economia, è stata (almeno temporaneamente) accantonata. Tuttavia, da qualche tempo è ricomparsa sulle pagine dei giornali, in termini nuovi: da un lato si sono moltiplicati i segnali di impoverimento dei lavoratori dipendenti; dall’altro, più recentemente, ci si lamenta del fatto che le dinamiche retributive, che hanno iniziato a mostrare evidenti segni di accelerazione, non hanno effetti sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti.

Le retribuzioni contrattuali

Per valutare le dinamiche salariali è necessario esaminare separatamente le retribuzioni contrattuali e quelle di fatto. Le prime, riferendosi ai valori tabellari definiti dai contratti nazionali di categoria, approssimano la quota della retribuzione definita dal primo livello di contrattazione. Le seconde, riferendosi agli importi medi pagati dalle imprese, includono gli effetti della contrattazione decentrata, della cassa integrazione, degli straordinari e delle modifiche di composizione dell’occupazione. Nel periodo 1993-2004 il potere d’acquisto delle retribuzioni definite dalla contrattazione nazionale è aumentato nella fase centrale (1996-99), caratterizzata da una forte crescita occupazionale, e nell’ultimo anno (2004). Si è invece ridotto sia nella fase di avvio del nuovo sistema negoziale (1993-95), con il blocco della contrattazione e la crisi occupazionale, sia nel quadriennio 2000-03, con il passaggio dalla lira all’euro e la ripresa dell’inflazione (Tavola 1). Nella media dell’intero periodo, la retribuzione contrattuale reale ha subito un’erosione valutabile in circa 2 decimi di punto l’anno.

Tavola 1. Retribuzioni contrattuali, inflazione effettiva e inflazione programmata – Anni 1993-2004

(Tassi di variazione medi annui; indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati al lordo dei tabacchi)

Periodi

Retribuzioni contrattuali per dipendente a tempo pieno

Prezzi al consumo

(Foi)

Retribuzioni contrattuali reali

Tasso di inflazione programmata

(Tip)

Tip – Foi

1993-95

2,6

4,5

-1,8

4,2

-0,3

1996-99

3,2

2,2

0,9

2,4

0,1

2000-03

2,1

2,6

-0,4

1,8

-0,8

2004

2,9

2,2

0,7

1,7

-0,5

Media 1993-2004

2,7

2,9

-0,2

2,6

-0,3

Fonte: Istat e Dpef.

Peraltro, dal 2001 in poi si è registrato un progressivo allontanamento dei tassi di inflazione programmata (Tip) da quella effettiva che ha fatto sì che, per tenere il passo con quest’ultima, la contrattazione nazionale fosse spinta a definire dinamiche retributive significativamente superiori alla prima (Figura 1), con ciò indebolendo il valore del Tip come obiettivo comune, credibile e condiviso dal Governo e dalle parti sociali, ed elemento base del buon funzionamento della “politica salariale d’anticipo” delineata dal Protocollo del ’93. Ciò è avvenuto in modo evidente nel 2004, quando la crescita salariale ha sopravanzato la dinamica dell’inflazione programmata di 1,2 punti percentuali e quella dell’inflazione effettiva di 7 decimi di punto; e la tendenza è proseguita nel primo trimestre del 2005, quando le retribuzioni contrattuali, a fronte di un aumento dei prezzi al consumo dell’1,7 per cento, hanno segnato una crescita del 3,5 per cento sul primo trimestre del 2004.

Figura 1. Retribuzioni contrattuali, inflazione effettiva e inflazione programmata – Anni 1992-2004 (numeri indice, 1992=100)

Fonte: Istat e Dpef.

Tuttavia, nonostante la recente accelerazione, la dinamica complessivamente negativa dei periodi precedenti è stata tale che, misurato a prezzi costanti (attraverso l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati), il valore della retribuzione contrattuale media del 2004 è ancora inferiore di 2,9 punti percentuali rispetto a quello del 1992.

Le retribuzioni di fatto

In realtà, nel quadro delle regole definite dal Protocollo del ’93, la perdita di ruolo economico della retribuzione di primo livello non costituirebbe un motivo di preoccupazione se il sistema delle relazioni industriali fosse riuscito ad assicurare una diffusione e un tenore della contrattazione decentrata tali da assegnare alle retribuzioni di fatto se non la totalità, almeno la gran parte dei guadagni di produttività realizzati dalle imprese. Va del resto ricordato che l’instaurazione di una più forte correlazione a livello micro tra retribuzione di fatto e produttività del lavoro costituiva proprio uno degli obiettivi fondamentali perseguiti dai firmatari del Protocollo. Purtroppo, però, così non è stato. La contrattazione decentrata non è mai decollata: i dati dell’indagine Banca d’Italia sulle imprese manifatturiere e di quella Istat sulla struttura delle retribuzioni concordano nell’indicare che il secondo livello contrattuale ha raggiunto una certa diffusione soltanto nelle imprese manifatturiere medio-grandi del Centro-Nord.

Figura 2. Slittamento salariale nelle imprese dell’industria, dei servizi e del totale del settore privato non agricolo – I trimestre 1997-I trimestre 2005 (Differenze tra i tassi di variazione percentuale medi trimestrali sullo stesso trimestre dell’anno precedente delle retribuzioni di fatto e delle retribuzioni contrattuali)


Fonte: Istat, Retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto (Oros).

La Figura 2 conferma che lo slittamento salariale (costituito in larga misura dalle voci salariali definite dalla contrattazione decentrata) si è mosso, dal 1997 a oggi, seguendo più o meno consistenti oscillazioni cicliche intorno allo zero: nella media dell’intero periodo nelle imprese industriali il rapporto tra retribuzione di fatto e retribuzione definita dai contratti nazionali cresceva in media dello 0,1 per cento l’anno, mentre in quelle dei servizi orientati al mercato si contraeva dello 0,3 per cento e nell’insieme del settore privato non agricolo restava invariato. In particolare, dopo il secondo trimestre del 2002 la crescita è stata nulla per le imprese industriali e più nettamente negativa per quelle dei servizi (-0,5 per cento l’anno), così che nel totale la caduta dello slittamento salariale è stata dello 0,3 per cento l’anno.
In corrispondenza con il mancato sviluppo (e poi con la caduta) della contrattazione di secondo livello, le retribuzioni lorde hanno segnato nel decennio un incremento reale medio annuo dello 0,5 per cento, dovuto esclusivamente alla crescita del quadriennio 1998-2001 (Tavola 2).

Se poi si considera l’evoluzione delle retribuzioni nette, che condizionano in misura determinante l’effettiva capacità di spesa dei lavoratori dipendenti, la dinamica delle retribuzioni di fatto dopo il 1993 avvalora le diffuse percezioni di impoverimento (relativo) di operai e impiegati: nell’intero decennio la crescita complessiva è stata pari soltanto allo 0,8 per cento (meno di un decimo di punto l’anno), e l’accelerazione successiva al 1997 è appena riuscita a far sì che nel 2003 le retribuzioni nette riacquistassero, in media, il livello reale che avevano nel 1990.

Tavola 2. Retribuzioni reali di fatto, lorde e nette, e produttività – Anni 1993-2003

(Tassi di variazione medi annui; indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati al lordo dei tabacchi)

Periodi

Retribuzioni deflazionate con l’indice dei prezzi al consumo

Retribuzioni lorde misurate in termini di valore della produzione (b)

Produttività del lavoro

Lorde

Nette (a)

1993-97

0,1

-0,7

0,0

2,1

1998-2001

1,0

0,5

1,4

0,8

2002-03

0,3

0,7

-0,1

-0,5

Media 1993-2003

0,5

0,1

0,6

1,0

Fonte: Istat, Conti nazionali e prezzi al consumo.

(a) Stima dell’autore su dati Istat e Banca d’Italia (cfr. L. Tronti, The July protocol and economic growth: the missed chance, International Conference “Social Pacts, Employment and Growth: A Reappraisal of Ezio Tarantelli’s Thought, Rome, “La Sapienza” University, 31st March – 1st April 2005).

(b) Deflazionate con il deflatore del valore aggiunto.

In un contesto di comparazione internazionale, la situazione di stagnazione del potere d’acquisto dei salari netti dei lavoratori italiani è ancor più stridente. Secondo le stime dell’Ocse, tra il 1996 e il 2002 le retribuzioni nette hanno segnato in Italia la crescita reale largamente meno favorevole non soltanto di tutti e 15 i paesi dell’Unione europea, ma anche di tutti i paesi di nuova accessione, ad esclusione di Cipro che presenta andamenti negativi. (1)

Retribuzioni e modelli di consumo

Per valutare queste dinamiche dal punto di vista delle imprese basta deflazionare le retribuzioni lorde con il deflatore implicito del valore aggiunto. Per le imprese, la retribuzione misurata in termini di valore della produzione non è cresciuta, tra il 1993 e il 1997, mentre la produttività del lavoro cresceva, in media, del 2,1 per cento (ultime due colonne di Tavola 2). Nel quadriennio successivo (1998-2001) la dinamica della produttività ha subito un considerevole rallentamento e poi, nel biennio successivo, una vera e propria contrazione: ma la differenza in valore assoluto tra i due indicatori è continuata a crescere sino al 2001. Quest’ultima considerazione segnala indirettamente che dopo il Protocollo di luglio, se i salari sono rimasti al palo, così non è stato per i profitti e i redditi da lavoro autonomo (e anche per i compensi dei dirigenti, che però non si evidenziano dal raffronto tra produttività e remunerazione del lavoro), che invece hanno vissuto, almeno sino al 2001, una stagione di notevole sviluppo. (2)
Negli anni Novanta, l’evoluzione dei modelli di consumo è stata trainata soprattutto da chi aveva redditi più elevati, ed è conseguentemente aumentata la distanza tra i consumi “più opulenti” di autonomi, professionisti, imprenditori e dirigenti e quelli “più poveri” di operai e impiegati. Un segnale di questa trasformazione può essere colto nel divario di crescita tra l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati e il deflatore dei consumi delle famiglie, che rappresenta l’evoluzione del “prezzo medio” di quanto viene consumato da tutte le famiglie – un indicatore che cresce sia con l’aumento dei prezzi degli stessi beni, sia perché i consumi si spostano verso generi più costosi.  Tra il 1993 e il 2004, mentre l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati è cresciuto in media del 2,8 per cento l’anno, il deflatore dei consumi è aumentato del 3,2 per cento. La differenza di 4 decimi di punto l’anno non è molto ampia ma, cumulandosi negli anni e sommandosi alla stagnazione dei salari reali, indica che le famiglie di operai e impiegati non solo hanno avuto il loro potere d’acquisto bloccato per più di un decennio ma, se hanno cercato di seguire l’evoluzione dei modelli di consumo medi, hanno dovuto sopportare spese che il loro reddito da lavoro non era in grado di coprire. Se questo non è un processo di impoverimento in termini assoluti, certamente lo è in termini relativi e “culturali”, ed è di dimensioni tali che il suo superamento richiede tempi significativamente più lunghi degli ultimi quindici mesi di accelerazione salariale.

Le opinioni espresse sono di esclusiva responsabilità dell’autore e non coinvolgono l’ente presso il quale egli lavora (Istat).

(1) Le retribuzioni nette nei paesi Ocse, in Istat, Rapporto Annuale. La situazione del Paese nel 2003, Roma, 2004, cap. 4, pp. 252-253.

(2) Vedi A. Brandolini, “Se il cambiamento è relativo”, su www.lavoce.info del 2 agosto 2004.

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