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La legge Moratti non cambia l’università

La crisi dell’università italiana dipende dalla mancanza di incentivi e da una mentalità assistenziale. Alimentata, quest’ultima, dal valore legale della laurea, dalla dipendenza finanziaria degli atenei e dai troppi vincoli legislativi. Ma gli obiettivi fondamentali da perseguire per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non compaiono nella legge approvata al Senato. Soprattutto, non si affronta il nodo di una gestione autonoma delle risorse guidata principalmente da interessi corporativi. E la Crui si oppone alla riforma per i motivi sbagliati.

Una laurea di valore (legale), di Giunio Luzzatto

Il disegno di legge sull’università approvato dal Senato (a) introduce concorsi nazionali d’idoneità per professore associato e ordinario, (b) obbliga le università a ricoprire i posti di ruolo mediante chiamata di idonei con procedura localmente determinata e pubblicità degli atti, (c) obbliga ogni professore a insegnare almeno 120 ore l’anno, (d) consente alle università di dotarsi di un corpo docente composto di non idonei (giovani ricercatori o soggetti qualificati) mediante contratti triennali di diritto privato rinnovabili di durata fino a un massimo di sei anni, (e) abolisce il ruolo di ricercatore a decorrere dal 2013.

Un risultato deludente

Gli incentivi per migliorare la qualità della ricerca e della didattica sono carenti. Una precedente versione del decreto prevedeva l’istituzione di un sistema nazionale di valutazione dei docenti, incluso il blocco della progressione di carriera per chi fosse valutato negativamente. Questa parte è assente nel Ddl approvato dal Senato.
Si persevera in un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei giovani e degli esterni, istituendo (nel comma 4 sub b) concorsi riservati ai professori con più di quindici anni di servizio.
Si fa poco per garantire una retribuzione adeguata a chi accede alla carriera accademica. Molti giovani sono giustamente preoccupati che l’introduzione dei contratti di diritto privato, al posto dell’assunzione con contratto pubblico, significhi abbassare i livelli retributivi e aumentare i rischi per chi scegli la carriera accademica. Da questo punto di vista, il disegno di legge non offre assicurazioni. In esso è detto che “(…) il trattamento economico di tali contratti, rapportato a quello degli attuali ricercatori confermati, è determinato da ciascuna università nei limiti delle compatibilità di bilancio e tenuto conto dei criteri generali definiti con decreto del Miur, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, sentito il ministro della Funzione pubblica”. Non è chiaro quali siano i margini di autonomia degli atenei nella determinazione del trattamento economico dei contrattisti.
Si propone il ritorno al concorso nazionale, sia pure nella diversa formulazione di “concorso per idoneità”, con il rischio di rendere lente e farraginose le procedure per l’immissione in ruolo. La soppressione degli attuali meccanismi concorsuali era assolutamente necessaria. Essi hanno causato una promozione generalizzata dei docenti alle fasce superiori (da ricercatore ad associato e da associato a ordinario) mediante accordi poco trasparenti tra commissari. Tuttavia, il ministro avrebbe fatto meglio a concedere completa autonomia agli atenei sulle assunzioni in ruolo, cercando, nel frattempo, di condizionare i finanziamenti ministeriali a severi criteri qualitativi basati sulla produzione scientifica e sulla didattica. L’esempio del Regno Unito poteva offrire spunti interessanti.

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Le cose da fare urgentemente

La verità è che le leggi nazionali servono a poco. La crisi dell’università italiana (scarsa produttività scientifica, basso numero di laureati e alti tassi di abbandono, distribuzione inefficiente dei docenti tra sedi e discipline, invecchiamento progressivo di professori e ricercatori, progressioni automatiche di carriera) dipende dalla mancanza di incentivi e da una mentalità assistenziale. Quest’ultima è alimentata dal valore legale della laurea, dalla dipendenza finanziaria degli atenei e dai troppi vincoli legislativi.
Il Governo avrebbe dovuto puntare su pochi obiettivi fondamentali: (a) eliminare i tetti alle tasse di iscrizione costringendo gli atenei a reperire più fondi sul mercato; (b) compensare questa misura con l’introduzione di borse di studio (o “voucher”) basate sul merito e sul reddito; (c) determinare i finanziamenti alle università sulla base di parametri di produttività ed efficienza; (d) abolire il valore legale della laurea; (e) concedere agli atenei completa autonomia in merito ai trattamenti retributivi e ai criteri di assunzione.

Critiche sbagliate

Se il Ddl Moratti delude, non meno deludente è la reazione del corpo accademico.
La Conferenza dei rettori (Crui) si oppone strenuamente a questa legge, insieme alle associazioni dei ricercatori e ai sindacati. Si afferma, principalmente, che il ruolo di ricercatore non dovrebbe essere soppresso, che il ricorso a contratti di diritto privato a tempo determinato produrrebbe uno scadimento della qualità della ricerca o dell’insegnamento e si chiedono a gran voce l’introduzione di una terza fascia di docenza e “adeguati finanziamenti”.
L’introduzione di una terza fascia di docenza non risolve alcun problema. Al contrario, la soppressione del ruolo di ricercatore dovrebbe essere accolta con favore. Infatti, l’assunzione a tempo indeterminato (il posto a vita) per chi deve ancora dimostrare capacità di ricerca e non è sottoposto ai “normali” obblighi didattici, è un’anomalia assoluta nel panorama internazionale. Un periodo di prova per i neo assunti, prima di una stabilizzazione definitiva, è prassi comune in qualunque settore economico e in qualunque università del mondo.
Le garanzie offerte dal contratto pubblico a tempo indeterminato ha l’effetto perverso di fornire un alibi alle commissioni di concorso per favorire i candidati anziani. Dato che i contratti dei ricercatori non hanno termine, non “costa” molto bocciare un giovane ricercatore bravo in cambio della promozione di un ricercatore anziano e meno bravo. Infatti, il ricercatore bravo, proprio perché giovane, potrà sempre aspettare il prossimo concorso e godere, nel frattempo, degli aumenti automatici di stipendio. Tutto ciò implica fatalmente l’aumento dell’età media dei ricercatori e la scarsità di posti per i giovani. Secondo i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, nel 2001 il 47 per cento dei ricercatori aveva più di quarantacinque anni. Molti di essi svolgono una pesante attività didattica nella speranza di ottenere una promozione, molti altri (generalmente i più anziani) non hanno più ambizioni di carriera e frequentano poco le aule universitarie. In entrambi i casi è palesemente tradito lo spirito della legge che istituiva la figura del ricercatore. Quest’ultimo doveva essere giovane, prevalentemente impegnato nella ricerca e in transito verso lo stato di professore universitario.
Inoltre, siamo proprio sicuri che i nostri organi accademici abbiano a cuore la valorizzazione e la permanenza della figura del ricercatore? Tra il 1998 e il 2004, la quota dei ricercatori è passata dal 40,1 al 37,2 per cento, mentre la quota dei professori di prima fascia dal 24,9 al 31,2 per cento. In termini assoluti, dal 1999 al 2003 il numero di professori di prima fascia è aumentato del 39 per cento. Il 90 per cento di queste promozioni sono avvenute “in sede”, cioè hanno riguardato docenti che erano associati nella stessa università dove sono diventati ordinari. Ciò vuol dire che le promozioni non hanno dato luogo all’offerta di corsi aggiuntivi e non erano motivate dalla necessità di migliorare la produzione scientifica. In altre parole, i rettori hanno colpevolmente utilizzato la propria autonomia per accontentare i docenti dei propri atenei chiudendo le porte a chi sta fuori.

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Chiedere più soldi?

In Italia lo Stato spende, per gli studi universitari, una quota del Pil inferiore alla media dei paesi Ocse. Tuttavia, un esame attento dei dati rivela che i problemi dell’università italiana non derivano dalla mancanza di fondi.
Innanzitutto, bisogna notare che la spesa per studente (per la formazione universitaria) in Italia è solo leggermente inferiore a quella di altri paesi Ocse, dove la qualità della formazione e della ricerca è senza dubbio superiore. Secondo i dati Ocse del 2003, l’Italia spende circa 8mila dollari contro gli 8.300 della Francia, i 9.600 del Regno Unito e i 10.800 della Germania (valori espressi in parità di potere d’acquisto).
In secondo luogo, l’Italia spende male. La spesa totale per l’istruzione universitaria per ogni laureato nel 2001 era pari a 55.964 euro in Italia, contro i 26.937 della Francia e i 30.072 del Regno Unito. Nello stesso anno, la spesa per ogni dieci pubblicazioni scientifiche era pari a 36.878 in Italia, contro i 32.397 della Francia e i 27.573 del regno Unito. Una riforma del sistema universitario italiano dovrebbe dunque partire dal riconoscimento che non si tratta di aumentare i finanziamenti, quanto rifondare i meccanismi organizzativi.
La morale di questa storia è che la gestione autonoma delle risorse da parte degli atenei è principalmente guidata da interessi corporativi. I senati accademici e i consigli di facoltà, organi perfettamente democratici ed elettivi, rispondono principalmente agli interessi dei professori universitari, e le decisioni non sono disciplinate da criteri di efficienza.
Il disegno di legge Moratti fa poco per risolvere questo problema, ma i documenti della Crui sembrano ignorare totalmente la questione.

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Calcoli da pallottoliere?

  1. Andrea Capocci

    Reichlin fa sua, come tanti altri, l’equazione che fa corrispondere al “posto a vita” un basso rendimento. Questa affermazione, in altri settori del lavoro, risulterebbe ridicola: in una fabbrica metalmeccanica molti operai sono assunti a t.i., ma se non compiono il loro dovere vengono licenziati senza tante scuse. Infatti, quel che deve fare un operaio è chiaro a tutti, dunque altrettanto chiara è l’opportunità del licenziamento. Per i ricercatori non è così: nessuno, né a sinistra né a destra, ha mai voluto affrontare la questione della valutazione del lavoro di ricerca e di docenza. Che non è solo un censimento degli scansafatiche.
    Nella valutazione, infatti, occorrerebbe coinvolgere tutta la cittadinanza, che attraverso le tasse investe soldi e deve poterne giudicare il risultato (valutare, appunto) ed esprimere bisogni e priorità socialmente condivise da trasmettere a università e centri di ricerca in un dialogo continuo tra società e ricerca pubblica. E’ un lavoro di democrazia sostanziale che nessuno ha voluto assumersi. Il risultato è la delega di tale compito di selezione alla competizione del libero mercato del lavoro: chi riesce a sopravvivere alla precarietà a colpi di finanziamenti e contratti a breve termine vince. La ricerca perde.
    La necessità di un “periodo di prova”, invece, sorprende per la disinformazione di Reichlin. Perfino per la Carta dei diritti e dei doveri dei ricercatori della UE (non di una rete di precari) la carriera del ricercatore inizia con il dottorato: chi dunque oggi partecipa ad un concorso da ricercatore vi arriva dopo circa 10 di “prova”. Cos’altro ci sia da dimostrare non è chiaro.
    Che la CRUI infine non abbia a cuore il destino dei precari, è una realtà assodata: i 50mila precari di oggi sono stati creati dalle attuali amministrazioni accademiche, non dalla Moratti.

    • La redazione

      Non esiste un’equazione “posto a vita = basso rendimento”. Tuttavia, la sostanziale non licenziabilita’ dei ricercatori ha consentito a molti di rimanere in questo ruolo oltre i normali limiti di eta’ e a dispetto di uno scarso (o nullo) rendimento scientifico. Tra i costi sociali di questo fenomeno vi e’ la mancanza di posti per le nuove generazioni di ricercatori.
      Capocci vorrebbe che i ricercatori abbiano contratti a tempo indeterminato, ma siano licenziabili da parte di un qualche comitato di valutazione “democratico” che coinvolga tutta la cittadinanza? Mi sembra un po’ utopico e complicato. La valutazione di un ricercatore passa, purtroppo, attraverso
      la lettura defatigante di lavori scientifici il cui valore puo’ essere apprezzato solo da esperti. In merito al “periodo di prova”, puo’ essere che io sia disinformato. Vorrei, tuttavia, sottolineare, in base alla mia esperienza, che il conseguimento di un dottorato di ricerca (che normalmente
      dovrebbe durare 4-5 anni al massimo) e’ una prova altamente insufficiente della capacita’ di fare ricerca. Al di fuori dell’Italia il dottorato non e’ affatto un passaggio automatico alla carriera universitaria, ma, semplicemente, un titolo di studio che, nella gran parte dei casi, consente
      di accedere a lavori di tipo non accademico (uffici studi, amministrazioni, imprese, ecc.). Capocci dovrebbe inoltre riflettere sul fatto che in Italia qualsiasi dipartimento di un’universita’ riconosciuta dalla Stato puo’ aprire un dottorato, anche se non sono previsti corsi di studio avanzati e anche se i docenti non hanno tempo e competenze per seguire gli studenti.
      Consiglerei di lasciar stare le “carte dei diritti” e di cercare di essere piu’ concreti e realisti.

  2. Andrea Capocci

    Ovviamente, ma devo essermi espresso male io, non proponevo la convocazione di referendum nazionali per ciascun ricercatore sotto esame. Ma il coinvolgimento di piu’ parti sociali alla costruzione dei criteri di valutazione dei ricercatori non e’ affatto irrealistico. La lettura defatigante dei lavori scientifici e’ solo una parte del lavoro di valutazione: occorre valutare la capacita’ didattica, o la capacita’ di creare un gruppo di ricerca, ad esempio. Sono variabili altrettanto importanti. Vi sono ottimi insegnanti che dedicando tempo all’insegnamento ne sottraggono alla ricerca, ma finiscono per produrre ricercatori bravi: dovremmo liberarcene?
    Oppure: occorre valutare il numero di brevetti depositati, come consigliato dal CNVSU e da altre voci influenti, quando proprio lavoce.info ne ha ben denunciato il limiti nel rappresentare un fattore di innovazione? E questi sono solo alcuni degli elementi che dovrebbero entrare in un dibattito ampio sulla missione che la nostra societa’ assegna all’universita’. Chiariti questi criteri, sara’ possibile accettare serenamente il licenziamento di un ricercatore, cosi’ come si fa nel caso dell’impiegato scansafatiche.
    Sui 10 anni che precedono il concorso: non e’ il dottorato che dura 10 anni. E’ che ai 4-5 anni del dottorato vanno aggiunti altri 4-5 anni da post-doc, di norma.

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